15/01/12

Indignati,Occupy e inni ancora in voga


«Noi siamo il 99 percento della popolazione che subisce il sistema, voi l’1 percento che ne gode gli sproporzionati vantaggi». Lo slogan degli indignati si presenta quanto mai efficace e carico di un populismo che rompe con alcune parole d’ordine classiche della sinistra. Prendiamo la pietra angolare marxista della lotta di classe: divideva la società in proporzioni diverse e nessuno pensava che la vituperata borghesia fosse tanto esigua. Invece gli «indignados» americani pretendono di parlare a nome di tutto il paese,eccezion fatta per il manipolo di potenti che lo rovina. Una maggioranza tanto schiacciante (sulla carta) da far apparire una banda di delinquenti la minoranza che detiene le leve economiche. Ma qual è la provenienza di questa parola d’ordine messianica che divide il bene dal male in maniera tanto schiacciante? In un recente filmato comparso su youtube Angela Davis conciona il pubblico al grido di «Occupy Philly», occupiamo Philadelphia. Angela, militante di lungo corso della sinistra, utilizza la retorica americana «da predicatore» che ha influenzato l’oratoria dei politici di colore di estrazione religiosa (ma non solo), da Martin Luther King a Jesse Jackson, dai rivoluzionari come Malcolm X fino al sogno infranto di Obama. Angela Davis affronta il pubblico con la pratica del salmo responsoriale: all’affermazione dell’officiante fa da immediato contraltare la risposta in coro dei fedeli: è la tecnica del «call and response», tipica del gospel, del blues, del jazz. Il drappello dei credenti si scalda al rauco arringare del predicatore mentre tuona di inferno e dannazione o zufola di paradiso e salvezza: un’esperienza distante da quella della sinistra tradizionale legata al comizio politico o sindacale di piazza. Ecco perché una parola d’ordine così può derivare da un gospel: 99 and a Half Won’t Do(99 e mezzo non bastano, dobbiamo essere 100). Come per il 99 percento degli indignati contro l’1 percento: la lotta del bene (grande) contro il male (piccolo, infimo) è simile in questo celebre inno, ancora oggi cantato nelle congregazioni nere. Il testo si rifà alla parabola del buon pastore citata dai vangeli di Matteo e Luca. Gesù narra che il pastore, accortosi che le sue pecorelle sono novantanove e non cento, si mette in cerca di quell’unica smarrita. Egli tornerà felice dal resto del gregge solo quando l’avrà trovata. Il regno dei cieli appartiene a tutti e il pastore deve cercare di salvare l’anima del singolo peccatore più che gioire delle coscienze già redente. Una canzone dalla lunga storia. L’ultima versione l’hanno cantata il diacono Joseph Carter Jr. e il ministro Leslie Sims Jr. nel disco Sing Me Back Home (2006) inciso dai New Orleans Social Club per raccogliere fondi dopo l’uragano Katrina, ma il brano aveva assunto già negli anni Cinquanta un valore secolare a fianco di quello religioso: non tutti i cittadini godevano della piena libertà e i neri volevano conquistarsi un posto nella società americana, non solo ambire al regno dei cieli. Per gli afroamericani la speranza messianica consisteva nell’arrivare a un’America che non fosse più un inferno ma il paradiso in cui entrare come comunità. Le classiche versioni rese dal gruppo gospel Harmonettes o dalla cantante Rosetta Tharpe giocano sul doppio registro: significato religioso visibile e accezione politica in filigrana. La carica potenzialmente eversiva rimase al brano anche quando negli anni Sessanta Wilson Pickett ne fece una versione r’n’b tostissima, reclamando furioso di voler possedere tutto il cuore della sua bella e di non accontentarsi del novantanove e mezzo. Dalla chiesa alle classifiche, dall’amore sacro a quello profano; ma il messaggio resta: vogliamo tutta la libertà, non quasi tutta. Il fatto che dietro il ruggente Pickett graffiasse anche un riff del giovane Hendrix ne amplifica l’ascendente sul rock. Cover successive di questo brano arrivano dai Credence Crearwater Revival (versione bianca e dura), da Buddy Guy (blues rock), Mavis Staples (soul). Fa anche capolino durante un tour mondiale di Springsteen. Insomma novantanove continuano a non bastare, bisogna fare cento e cancellare (o convertire) quell’uno. Impresa faticosa. Non era l’inventore Edison ad affermare -riecheggiando anch’egli la parabola del buon pastore - che: il genio richiede un 1 percento di inspiration e un 99 di perspiration (sudore)? Un pizzico di genio e tanta buona volontà: vale per il gospel, per il rock e forse anche per gli indignados.

di F.BERGOGLIO (Alias)














12/01/12

Roma - Capitale Europea

Nel 2008 era la capitale europea più sicura. In tre anni è diventata una città violenta, in preda alla guerra tra mafie. A Torpignattara, dov'è morta la bimba cinese, la strada era al buio da settimane  

DI PIETRO ORSATTI

Una città senz'anima, che ha perso il treno per diventare davvero capitale. Cupa, egoista, provinciale, sporca di una sporcizia immateriale. Una sporcizia morale. Questa la città che ci riconsegna la peggiore amministrazione comunale che si è insediata al Campidoglio dopo quella che si credeva insuperabile del sindaco Giubilo negli anni 80. Roma è questo. Oggi. Non era così tre anni fa. E non è solo a causa della crisi, che colpisce duro e non solo la capitale. È colpa di chi si è preso il Campidoglio giocando fin dalla campagna elettorale, in modo incosciente, la carta della paura per gli immigrati. Tutti violenti, parassiti, ladri, stupratori. Nel 2008 Roma era la capitale europea più sicura. Oggi è quello che ci racconta la cronaca.

Il 105. Una torre di Babele su quattro ruote che dalla stazione Termini ti porta fino a Torbellamonaca. Lungo la Casilina, attraversando piazza Vittorio, costeggiando il Pigneto, incrociando Torpignattara. Cingalesi, indiani, somali, tunisini, senegalesi, italiani, cinesi, peruviani. Un coro di mille lingue impastate in un dizionario nuovo di culture. Il 105 è la metafora di questa città che, cambiata dalla storia e dall'avanzare di un epoca nuova, si censura, si nega. Attraverso l'esclusione, la rimozione della realtà e alla fine la violenza.

"Sono romano, romanista e italiano", proclama l'adolescente, il 'pischello' con i genitori somali. "So' nato qua. E l'amici mia so'tutti der quartiere". Torpignattara. Che ora sembra sotto assedio, ma che fino a poche settimane fa era esempio di integrazione "fai da te". Che funzionava. Nascosta, negata, rimossa da un'amministrazione comunale che invece di investire su un welfare popolare ha creato tutte le condizioni perché prendesse il sopravvento il degrado, la paura e il sangue. Il sangue che per due giorni è rimasto su quel marciapiede. Il sangue di un padre e di una figlia di sei mesi. Ammazzati per una rapina finita "no schifo". Dicono che fossero "du pischelli" italiani. Altri parlano di due dell'est. Alla fine la polizia, grazie a una telecamera, li avrebbe identificati: due marocchini. Ma rimane la scena del crimine a rendere chiaro come sia stato possibile che questa tragedia succedesse.

La strada era buia. Ci aveva pensato "er sindaco" a lasciarla così. Da quasi un mese era al buio e nonostante le chiamate di centinaia di cittadini romani non era arrivato nessuno. Come non era arrivato nessuno da mesi per i tombini sfondati, per le buche piene "de zoccole lunghe tanto" (i ratti che popolano ogni luogo degradato). "Ma devi vedè come so' arrivati subito a mette a posto li lampioni e le buche 'sti pezzi de merda - ti racconta un ragazzone di Torpignattara doc, che il padre ha pure conosciuto Pasolini -. C'era er sangue fresco ancora pe' strada ma nun te poi immaginà che prescia che c'aveveno de rimette tutto a posto per le telecamere e li fotografi. Erano mesi che protestaveno tutti, ma qui mica è Roma. Noi potemo pure morì per li cazzi loro. Questa è Torpignatta. Per 'sti infami nun valemo 'n cazzo".

Torni indietro verso il centro e ti ritrovi una delle sale bingo più grandi di Roma dove c'è gente che si brucia i pochi soldi che ha alle slot machine inseguendo un sogno da Las Vegas. Ogni tanto ci scappa una rissa. Vola qualche coltellata, che a Roma da qualche anno sono tornate di moda "le lame". E le lame le trovi ovunque, non solo allo stadio, ma per strada. E si usano senza pensarci tanto. Qui dove si spinge la coca, dove lo strozzino si piglia le pensioni sociali, dove si organizzano i raid contro i romeni che sono il nemico numero uno "pe' chi se vo' fa li cazzi sua".

E da un anno a questa parte a Roma, e non solo a Roma, c'è chi ha ritirato fuori "er ferro". La pistola. Ma non per fare una rapina finita male come a Torpignattara. No, a Roma si spara e si uccide, una trentina di morti nel 2011, per il controllo del territorio. Perché a Roma è in corso una vera e propria guerra di mafia, anzi di mafie. Ci sono tutte a Roma. Quelle tradizionali, campane, calabresi e siciliane e pure la "quinta", tutta romana. Forse figlia dell'eredità della banda della Magliana (e qualche superstite di questa c'è finito, infatti, nella guerra in corso, insieme a qualche ex estremista nero), forse una roba nuova ma che comunque una sua capacità militare, evidente, l'ha messa in atto. Non solo sparando. Non solo con i morti e i feriti e i gambizzati per "lezione". Ma anche con gli attentati alle aziende che lavorano ai cantieri di "Roma Capitale" (quanti sono i mezzi che si sono rotti o hanno preso fuoco nessuno lo sa) e gli esercizi commerciali che prendono fuoco non certo per autocombustione. E sono tanti.

Racket, appalti. Tradizione delle mafie. E poi droga. Non solo il "fumo" e la coca che ormai sono mercati stabili e sicuri. Oggi, dopo una lenta penetrazione in provincia, è tornata l'eroina. E con la ricomparsa dell'eroina è scoppiata la guerra per il controllo del territorio. E l'amministrazione comunale che fa? Nega, si defila, per mesi. Aiutata finora da un governo che pur di non toccare il bacino elettorale del presidente della Regione Renata Polverini ha fatto di tutto per non sciogliere il consiglio comunale di Fondi, nonostante le centinaia di pagine di relazione del locale prefetto. Che è stato punito con fulminante trasferimento dal ministro leghista Roberto Maroni. Fondi. La porta di Roma. Dove le mafie si spartiscono gli affari, e lo sanno anche i sassi, fin dagli anni 70.

Poi in strada si ammazza una bambina di sei mesi e suo padre e il sindaco Gianni Alemanno dichiara candidamente che "ci sono troppe pistole in giro". Ma guarda te che strano. E prima? Quando solo 24 ore prima del doppio omicidio si  gambizzava un ex NAR  poi Forza Nuova e Casa Pound, implicato nello scandalo parentopoli dell'Atac, sospeso dal servizio per dichiarazioni razziste e reintegrato in silenzio? Prima niente. Episodi.

La violenza è diventata linguaggio in questa città. Con ragazzini che si ammazzano per una lite in un centro commerciale. Con episodi continui contro immigrati e senza tetto che quasi mai vengono denunciati. Con lo spaccio, l'usura, le estorsioni, il degrado, i gruppi neofascisti in gran fermento e riorganizzazione, le sparatorie in pieno giorno e in ogni parte della città anche nei quartieri "bene" della borghesia. E con la crisi economica che sta per dare il suo colpo finale. Creando sacche incontrollabili non di disagio sociale. Ma di disperazione.

segue su Rassegna.it






07/01/12

Lavoro,tutele,articolo 18 e le cazzate del fronte..progressista

Una volta tanto, La Repubblica si rende utile pubblicando un dossier sulla flessibilità del lavoro nei Paesi OCSE: si nota come la rigidità delle tutele per i dipendenti a tempo indeterminato in Italia sia sotto la media OCSE e in particolare molto più bassa che in Francia, Spagna, Germania, Cina (!!) e parecchi altri Stati. In una scala da 0 (nessuna protezione) a 6 (massima protezione) siamo a 1,89, contro il 3,05 della Francia e il 2,12 della Germania. I dati sono aggiornati al 2008; non sorprendentemente, la serie storica mostra un crollo dell’indice (da 2,51 a 2,01 in un anno) in Italia in corrispondenza dell’entrata in vigore della “legge Treu” che ha introdotto i contratti a termine nel nostro ordinamento. I lavoratori a termine non sono computati nella statistica, che riguarda soltanto quelli a tempo indeterminato, ma è evidente che l’abbassamento della tutela per alcuni determina un abbassamento per tutti.
Proprio questa è la chiave di interpretazione da utilizzare nel valutare le proposte di riforma del lavoro di cui si discute in questi giorni. Su questo sito abbiamo analizzato in tempi non sospetti la proposta di Nerozzi di introdurre un Contratto Unico di Ingresso e quella di Ichino che in maniera ancor più drastica vorrebbe sostanzialmente abolire l’Articolo 18 dello Statuto. A proposito, il 6 dicembre 2010, circa quest’ultima proposta (in fondo al commento del secondo link), scrivevo: “un governo tecnico che succedesse a Berlusconi potrebbe approvare una riforma su queste linee in tempi brevi“. Profetico, vero?
Comunque, adesso diamo un occhio alla terza proposta di legge partorita dalle fila del PD: il DDL 2630 che porta la firma, tra gli altri, di Cesare Damiano (già Ministro del Lavoro nell’ultimo Governo Prodi) e contiene ”Disposizioni per l’istituzione di un contratto unico di inserimento formativo e per il superamento del dualismo nel mercato del lavoro“.
Per superare il “dualismo nel mercato del lavoro” (ovviamente sempre il solito, tra fantomatici lavoratori iper-protetti e reali precari senza diritti) si propone l’istituzione di un Contratto Unico di Inserimento Formativo (CUIF) non dissimile dal CUI del disegno Nerozzi: in sede di prima assunzione, per un periodo compreso fra 6 mesi e 3 anni e definito, per ciascun settore, dalla contrattazione collettiva nazionale, il datore di lavoro assume il lavoratore a salario ridotto (non meno del 65%, bontà sua), con totale libertà di interrompere il rapporto quando gli pare salvo il preavviso (la “libertà” è reciproca – la sorella di Grazia e Graziella avrebbe qualcosa da dire in proposito). Dopo questo periodo “di abilitazione” può decidere se tenerlo e assumerlo a tempo indeterminato oppure sbarazzarsene definitivamente, sempre a costo zero. In pratica, è una colossale liberalizzazione del periodo di prova, quello durante il quale è possibile il licenziamento senza alcuna causa, con l’aggiunta di ridicoli obblighi formativi.

A compensare questa gigantesca fregatura, se non altro, “si prevede il superamento del contratto di lavoro a tempo determinato“. Non sarebbe male, se non fosse che non è vero. Infatti il contratto a termine rimane vivo e vegeto e vede addirittura estesa la sua previsione rispetto a oggi, dal momento che è possibile stipularlo, oltre che nei casi già consentiti, anche “quando l’assunzione ha luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio aventi carattere straordinario od occasionale” (chi lo decide?) e soprattutto “nel caso di altre fattispecie non comprese nel presente articolo, attraverso la contrattazione collettiva nazionale o aziendale“. Sì, proprio la contrattazione aziendale che da qualche mese, grazie all’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e all’art. 8 della manovra di agosto, può derogare in peggio la contrattazione nazionale.
Non spariscono neppure i contratti a progetto, ma soltanto istituti meno applicati come lavoro intermittente, lavoro ripartito, contratto di formazione e lavoro, apprendistato professionalizzante. Che per carità, è meglio che un calcio nei denti, ma non di molto.
E questo è quanto. Non fatevi prendere in giro: l’unico modo per superare il dualismo del mercato del lavoro che non sia una fregatura per tutti i lavoratori è estendere l’unica tutela davvero efficace, l’Articolo 18 dello Statuto. Ogni diminuzione delle tutele per qualcuno comporta automaticamente l’abbassamento per tutti.


AVVOCATOLASER








Intanto..le supercazzate di Ichino

Il sospetto lo avevo da tempo, ma grazie a Leonardo Tondelli ora è diventato una certezza: Ichino è un docente di diritto del lavoro che non sa nemmeno cosa sia un rapporto di lavoro o un licenziamento.
E a rivelarlo è stato proprio lui, rispondendo malamente a un post nel quale Leonardo aveva affermato en passant che: “lui non lo licenzia nessuno”.
Scrive Ichino sul suo blog:
“Visto che anche Leonardo – come già tanti miei contestatori di sinistra – utilizza questo argomento basato sulla mia persona e il mio lavoro, per di più sul sito de l’Unità, mi sento legittimato a ricordargli che nel corso della mia vita di lavoro sono stato licenziato anch’io un paio di volte. La prima volta accadde nel 1983, quando, terminata l’ottava legislatura, il Partito comunista non mi volle più tra i suoi deputati per la nona(nulla mi garantisce, del resto, contro la possibilità di un licenziamento analogo al passaggio tra la legislatura in corso e la prossima)”.

Incredibile, Ichino confonde un mandato parlamentare con un rapporto di lavoro subordinato, subordinato al PCI che scegliendo di non ricandidarlo lo avrebbe “licenziato” come un datore di lavoro fa con un dipendente. Assurdo anche perché quello che lui crede il “contratto di lavoro” di parlamentare si esaurisce con lo scadere della legislatura e quindi, nemmeno se si trattasse davvero di un rapporto di lavoro quello sarebbe un licenziamento.
Ancora più assurdo in quanto fu eletto come “indipendente” nelle liste del PCI, circostanza che implicherebbe da parte sua anche un falso nei confronti degli elettori che l’hanno votato e che non sapevano di votare in realtà un “dipendente” di Botteghe Oscure.
Quella di Ichino suona come una bestemmia e non solo perché prova malamente a paragonarsi a un lavoratore precario qualsiasi, ma perché nel farlo non si rende nemmeno conto degli spropositi che scrive. E sorvoliamo sul fatto che Ichino in caso di licenziamento oggi come ieri, non si ritroverebbe disoccupato, ma con almeno altri due lavori più che prestigiosi.
Questa sarebbe la persona alla quale il fronte progressista (?) ha affidato la riforma dei rapporti di lavoro e del relativo welfare nel nostro paese, una persona che non sa cosa sia un mandato parlamentare nonostante sia stato parlamentare e che non sa cosa sia un licenziamento nonostante sia chiamato a scrivere e immaginare la nuova disciplina dei rapporti di lavoro.
Un autorevole rappresentante del partito che all’indomani di un congresso dello stesso sulla riforma del lavoro ha il potere d’intervenire pubblicamente per sostenere e imporre tesi diverse da quelle emerse democraticamente in quella sede di dibattito, senza che nessuno o quasi nel partito abbia a eccepire.

Non stupisce che proponga ricette gradite da Confindustria e che sia stato a lungo arruolato anche dal Corriere della Sera, stupisce invece che possa essere spacciato per un esperto nel suo campo e, ancora peggio, come persona incaricata di immaginare una disciplina capace di tutelare i diritti e le vite dei lavoratori, di quelli che non lavorano per un partito e non sono retribuiti dalla collettività con uno stipendio da parlamentare.
Affermazione gravissima la sua e non solo perché dimostra che l’uomo non capisce nulla di una materia che addirittura insegna all’università da una cattedra prestigiosa, ma anche perché svela come le sue proposte di “riforma” altro non siano che copincolla di leggi prese da altri ordinamenti, capendoci meno di niente.

L’alternativa non sarebbe meno devastante, perché se Ichino fosse cosciente dell’assurdità di quello che ha scritto, bisognerebbe concludere che ha mentito sapendo di mentire e che non ha scrupoli a falsare la realtà quando gli convenga. Considerazione che minerebbe comunque qualsiasi presunta autorevolezza, accademica e no, gli sia attribuita.
Dopo un’uscita del genere dovrebbe, come minimo, abbandonare seduta stante dal ruolo di coordinatore della redazione della “Rivista italiana di diritto del lavoro” a tutela del buon nome dei suoi colleghi e della rivista e allontanarsi immediatamente da qualsiasi attività riguardi la stesura di leggi attinenti al lavoro, oltre a cercare di rimediare il grave imbarazzo che ha procurato alla Statale di Milano e a tutti i suoi studenti, quasi tutti sicuramente in grado di riconoscere il ridicolo in affermazioni del genere.
Sarebbe anche ora che il PD riflettesse sulle qualità della persona alla quale ha affidato ciecamente la sua politica del lavoro e che decidesse di allontanarlo al più presto da ogni incarico, perché dopo aver vergato nero su bianco affermazioni del genere la sua credibilità è ridotta a zero e qualsiasi proposta portasse la sua firma, esporrebbe il partito ad identico ludibrio.

 MAZZETTA

06/01/12

Copyright e altro. Cory Doctorow Interview

 Cory Doctorow è figlio di profughi  trotskisti  russi,  nato quarant’anni fa a Toronto e oggi residente a Londra,scrittore di fantascienza, blogger, giornalista, copyfighter e chi  più ne ha più ne metta. Lascia scaricare i suoi ebook gratis, ma apre ogni capitolo con dediche a librerie indipendenti (sul best-sellerLittle Brother,per esempio) e pubblica per un colosso come Harper Collins. Scrive decine di post al mese sul blog Boing Boing ma è anche editorialista di punta del quotidiano britannico “The Guardian”. Adora le playlist sull’iPod, così come i consigli di un amico negoziante di dischi. Tiene ritmi degni del workaholic più compulsivo, ma quando lo incontri, al Conference View a Torino, è disponibile e sorridente.

Napster apparve nel 1999. Dodici anni dopo, l’impressione è di trovarsi ancora intrappolati in quelle che tu definisci “guerre del copyright”. Siamo destinati a vivere in una condizione di perenne
conflitto? O esiste una soluzione?
È vero che Napster ha segnato l’inizio dell’ultima grande battaglia, ma la guerra del copyright è storia vecchia. Nella musica si combatte almeno dal 1908, da quando si diffusero le prime registrazioni sonore.Oggi il panorama è confuso, anche per una strana combinazione tra generazioni diverse: vecchi produttori che vedono scomparire ciò che ritenevano normale, utenti che hanno a disposizione strumenti potentissimi e vengono denunciati perché li usano, musicisti stufi di sentir parlare di soldi che non hanno mai visto. C’è un’altra novità, però: in ballo non c’è più solo la musica. Stiamo parlando del futuro di un network che ormai usiamo per tutto: per rimanere in contatto con la famiglia,per controllare che i nostri politici si comportino onestamente,per alimentare le rivoluzioni nel MedioOriente, magari anche per innamorarci. Oggi la trincea è immensa e le guerre di copyright,specie sul fronte musicale, mettono in pericolo l’intera Internet.
Sei più ottimista o pessimista?
Incredibilmente pessimista, se penso a come potrebbero andare male le cose se non facciamo qualcosa. Altrettanto ottimista,quando mi rendo conto che se combattiamo finiremo per vincere.
Prima hai detto che la guerra del copyright non riguarda solo la musica. Da diretto interessato, pensi che stia pian piano coinvolgendo anche l’industria libraria?
Il cambiamento riguarda tutti, ma con modalità differenti. Il libro è una forma più consolidata della canzone registrata, è vecchio quantol’Egitto. E mentre sono chiarigli aspetti che rendono un MP3 preferibile rispetto a un brano su disco, non esistono ancora ragioni evidenti che ci portino a preferire gli ebook ai libri di carta. Inoltre, nel mondo dei libri girano meno soldi che nella musica. Le case editrici non hanno lo stesso potere delle etichette, non possono permettersi certe cause legali, non hanno influenza sui legislatori. Alla maggioranza della gente,per di più, non frega nulla dei libri. Le guerre di copyright coinvolgono anche il design del punto croce, ma chi si preoccupa del punto croce? Sono diversi i livelli di scontro e le reazioni.
Pensiamo ai videogiochi, in quel settore l’industria è terrorizzata dalla pirateria fin dalla nascita, ma ha dovuto vedersela con un dato di fatto: la classe dirigente non li vede di buon grado.Quando un produttore di videogiochi si rivolge a un politico e gli dice “ aiuto, la pirateria ci uccide ”, il politico risponde “ fantastico, morite! ”. Per questo, negli ultimi vent’anni l’industria ha dovuto inventarsi nuove formule, immuni alla pirateria. Come World Of Warcraft: tu non puoi piratarlo, devi pagare quindici euro al mese per giocarci. E infatti è diventato il videogioco più redditizio della storia.
Il termine “copyright” rimanda al diritto di copiare un contenuto.È possibile regolamentare tale azione su una fotocopiatrice extra-large come Internet?
Il copyright in realtà ha una storia complessa. Nasce come “controllo della copia” perché quello sembrava un ottimo modo per regolare - anche dal punto di vista economico - la catena di distribuzione dell’industria dell’intrattenimento. Ma dovremmo concentrarci su un altro aspetto: il rapporto tra creatori e produttori. Quando ho iniziato a scrivere libri, i colleghi più anziani mi hanno subito avvertito che il momento in cui cedevo il copyright all’editore era quello in cui gli davo la possibilità di fregarmi.
Bisognerebbe recuperare alcuni aspetti del diritto d’autore origi-nario. In America, il copyright copriva inizialmente un periodo di quattordici anni, che solo l’autore poteva rinnovare di altrettanti.
Se tu, giovane scrittore, andavi da un editore e glidicevi“ ho scritto un capolavoro, pubblicamelo! ”,lui ti rispondeva “certo, te lo pubblico, come compenso eccoti un acino d’uva”. Ma se dopo quattordici anni il tuo libro continuava a vendere, era lui che veniva a implorare:“ dai, rinnoviamo il copyright?” .E tu potevi rispondergli: “come no, però in cambio mi dai un rene ”.È nell’equilibrio tra autore ed editore che bisogna intervenire, senza preoccuparsi troppo di quello che il pubblico fa con le opere.


"Più blindiamo il copyright, più lo rafforziamo, più diventa difficile che opere come Paul’s Boutiquedei Beastie Boys vengano alla luce"


Più che tornare ai quattordici anni, sembra che ci stiamo muovendo nella direzione opposta. Di recente, il copyright musicale in Europa è stato portato da 50 a 75 anni.
È il balletto intercontinentale: l’Europa dice che deve raggiungere gli Stati Uniti,gli Stati Uniti diranno che dovranno raggiungere qualcun altro e così via. Bisogna coinvolgere gli artisti. Bisogna che sappiano tutto ciò che c’è in ballo. Prendi due album come Paul’s Boutique dei Beastie Boys e It Takes A Nation Of Millions To Hold Us Back dei Public Enemy. Sono stati registrati durante l’età d’oro dell’hip hop (rispettivamente nel 1989 e nel 1988 ,NdI),quando non c’erano regole e gli artisti inserivanonegli album tutti i sample che desideravano. Oggi non è più così, bisogna chiedere e pagare autorizzazioni su tutto,a fare il prezzo sono le etichette e per registrare quei dischi servirebbero rispettivamente 16 e19 milioni di dollari. Nessun artista o
produttore potrebbe mai permetterseli. Quella musica non esisterebbe. C’è una quantità potenziale di arte che nessun musicista può comporre e che noi non potremo mai ascoltare. Più blindiamo il copyright, più lo rafforziamo, più diventa difficile che opere del genere vengano alla luce. Gli artisti dovrebbero rendersi conto che anche dal punto di vista creativo è nel loro interesse un cambiamento. In Inghilterra,dove il tema è molto dibattuto, Billy Bragg e altri musicisti hanno formato la “Feature Artist Coalition”  proprio con questo obiettivo. Sono d’accordo nel diminuire il copyright, ma vogliono più potere nelle mani degli artisti.
Pensi che gli artisti a volte siano un po’ troppo naif?
Lo è Lily Allen quando si scaglia contro la pirateria e il giorno doposi scopre che sta ancora distribuendo online dei mixtape di canzoni altrui, non autorizzate, che aveva realizzato qualche anno prima.
Molti le hanno dato dell’ipocrita, sbagliando. Le si doveva spiegare che quello che aveva fatto era naturale: chiunque ami lamusica, condivide i suoi brani preferiti. Se non fosse stato per un mixtape, io a ventun anni sarei stato ancora vergine. È parte del nostro modo di comunicare.
A proposito di mixtape, nell’iPod ho una playlist chiamata “Cory Doctorow’s recalling friends”, basata sulla tua prefazione al libro Sound Unbound di DJ Spooky. Seguendo il tuo esempio, quella playlist sfrutta l’ intelligenza artificiale di iTunes per raccogliere brani a cui ho attribuito un voto alto e che non ascolto da almeno tre mesi. Mi permette di non perdere contatto con i miei “amici musicali”, insomma. Molto bello, sentimentale, ma non è un po’ troppo meccanico? Non è che le tecnologie, più che aiutarci a scegliere cosa ascoltare, stanno decidendo cosa farci ascoltare?
Clay Shirky dice che non esiste information overload: oggi abbiamo solo un problema di filtri . Noi abbiamo sempre usato dei filtri: una radio, un negozio di dischi, un dj, il direttore artistico di un’etichetta. Ancor prima, era la geografia: tua scoltavisolo i musicisti che passavano dalle tue parti. Oggi ci serviamo di una nuova generazione di filtri. Alcuni umani, come possiamo essere io e i miei colleghi su Boing Boing . Altri automatizzati, come le smart playlist degli iPod. Non possiamo vivere senza, sono necessari. Onestamente, io preferisco che siano legati al gusto e al desiderio, che non dipendenti da limitazioni fisiche, coincidenze o ancor peggio da un monopolio. Per questo vivo molto meglio oggi. In Inghilterra si dice che“ le leggi sono come salsicce: è meglio che tu non sappia come vengono fatte ” (Wikipedia attribuisce la citazione, con il beneficio del dubbio, a Otto Von Bismarck, NdI). Significa che le leggi sono belle quando le trovi su un libro di diritto, un po’ meno quando scopri come sono nate. Per i filtri è lo stesso. Quelli del passato forse ci sembrano naturali, semplici, puliti, mentre dietro c’era parecchia sporcizia. Io preferisco la trasparenza, preferisco avere tuttosotto controllo, preferisco una Wikipedia dove di ogni articolo ti viene mostrato anche il retrobottega, con le discussioni , i tagli, i cambiamenti, che un quo ti diano dove si leggono solo gli articoli definitivi. Scrivo per dei quotidiani, so benissimo che molto spesso vengono pubblicati testi che gli stessi redattori considerano pieni di sciocchezze. Ti è mai capitato di trovare, vicino a un articolo sul “New York Times”, un box in cui un redattore esprime le sue perplessità sul contenuto? Per qualcuno,l’assenza di retroscena è un indicatore di qualità. Per me è opacità. Preferisco sapere cosa c’è nelle salsicce, piuttosto che far finta che siano sempre pure.
Quali filtri usi quando devi decidere cosa leggere o ascoltare?
Per i libri, sono la persona sbagliata a cui chiederlo.Sono un recensore, adotto criteri diversi da quelli di qualsiasi lettore normale. Ricevo un centinaio di libri a settimana in una casella postale.
Quando vado a ritirarli, non posso portarmeli tutti dietro. Allora faccio una prima cernita in base alla copertina: quelli che non mi sembrano troppo stupidi, vengono con me. In ufficio scatta la seconda selezione: due pagine a testa. I libri interessanti vanno a formare una nuova pila,gli altri finiscono in beneficenza.Quindi inizio a leggere e mi fermo solo se trovo una ragione che mi impedirebbe di consigliare un libro. Ho deciso di parlare solo di ciò di cui voglio consigliare la lettura. Poi ci sono criteri extra. Per esempio, viaggio parecchio e leggo anche velocemente: fino a cinque libri per viaggio.
Ma in aereo porto solo dei paperback, per questo spesso impiego molto più tempo per i volumi a copertina rigida. Non credo che questi criteri possano essere molto utili ai tuoi lettori! E lo stesso vale per la musica, sono di nuovo la persona sbagliata. Perché ho quarant’anni e i quarantenni non vanno a caccia di dischi nuovi come i ventenni. I miei gusti ormai sono definiti. Certo, ogni tanto scopro qualche nuovo artista, qualche sonorità che mi intriga, ma la stragrandemaggioranza dei miei ascolti riguarda quelle canzoni -più di mille ore di musica - che già conosco e di cui non mi stanco mai.
Anch’io, però, ho dei consiglieri di riferimento: un amico che lavora in un negozio di dischi di Toronto e un ex-dipendente di Universale Sonycheoggista a Last.fm.
Su Internet sei conosciuto soprattutto per Boing Boing (www.boingboing.net). Il blog è collettivo, ci scrivete regolarmente in sei. Come vi organizzate?
Semplice, non ci organizziamo. E non abbiamo nemmeno aree di competenza riservate, anche se ognuno segue soprattutto i suoi interessi, quindi è facile che gli articoli su copyright o fantascienza siano miei. Viviamo in città,anzi continenti diversi: io a Londra ,Xeni Jardin a Los Angeles, Mark Frauenfelder e David Pescovitz a San Francisco, Maggie Koerth-Baker a Minneapolis, Rob Beschizza a Pittsburgh. Una volta su un milione capita ch euno di noi avverta gli altri via email che sta lavorando su una storia, “prenotandola”, ma è più facile che arriviamo in due o tre contemporaneamente sulla stessa notizia. Due giorni fa io e Xeni abbiamo pubblicato una storia identica, ma lei è arrivata dieci secondi prima, allora ho cancellato la mia versione.
Il successo planetario del blog ti ha sorpreso?
Mi ha reso felice. Soprattutto perché su Boing Boing scrivo solo di cose che mi interessano  e nel modo che preferisco. A differenza che nei giornali, dove cerchi sempre di immaginare chi possano essere i tuoi lettori e di andare incontro ai loro gusti,sul blog ti limiti a sperare che siano i lettori a scoprirti e a venire da te.
Da editorialista per il “Guardian”, come vedi il rapporto tra vecchi e nuovi modelli di informazione?
La differenza più grande mi sembra a livello di costi. Prima mi chiedevi come gestiamo la coordinazione su Boing Boing. Figurati che sono passati sei anni dal giorno in cui ha aperto il blog alla prima volta in cui ci siamo incontrati, tutti i collaboratori, nella stessa stanza. Anche adesso,ci vediamo sì e no una volta all’anno.
Lo staff è ridotto: oltre a noi che scriviamo,ci sono un redattore a tempo pieno, due tecnici part-time, tre
moderatori per i commenti, di cui solo uno full-time. Facendo le debite proporzioni, per ogni soldo che spendiamo, di sicuro ne entrano più che al “Guardian”. Credo che in generale avranno un futuro su Internet solo i business che saranno in grado di ridurre al massimo i costi di gestione.
Avete mai pensato di passare a pagamento?
Sì, ma non siamo mai riusciti a trovare una ragione per cui la gente dovrebbe pagare per le cose che scriviamo. O il vantaggio che potremmo riceverne. Alcontrario, ci conviene lasciare aperti i contenuti: più gente legge,meglio è. Sia a livello diretto, per la pubblicità, che indiretto: da chi ti scopre e compra i tuoi libri alla possibilità di mantenere i contatticon persone interessanti e una traccia pubblica di tutto ciò che scrivi. Non è ideologia, non pensiamo che tutto debba essere gratis. Semplicemente,non vediamo alcun beneficio nel trasformare Boing Boing in un club privato.
I guadagni del blog arrivano dalla pubblicità?
Sì,laquasitotalitàarrivadallapubblicità.L’aperturaagliads èdiventata necessaria intorno al 2003, quando abbiamo varcato una soglia di contatti tale che ha fatto balzare i costi della banda di connessione da cinquanta a mille dollari al mese. Non potevamo permetterceli. Ci siamo rivolti a John Battelle, che lavorava a “Wired”, e gli abbiamo chiesto aiuto per vendere spazi pubblicitari. In pochi giorni abbiamo scoperto l’incredibile: riuscivamo a vendere molta più pubblicità di quella necessaria per coprire i costi. Improvvisamente, Boing Boing è diventata una buona fonte di reddito.
Tu fervente copyfighter, iperattivo giornalista-blogger, ma anche prolifico scrittore di fantascienza. Un paio d’anni fa, in un’intervista, Bruce Sterling (amico di lunga data di Doctorow e padrino di sua figlia, NdI) mi ha confessato di non aver idea su come facessi a organizzarti tra tutte queste attività. Dove trovi il tempo e la concentrazione?
La risposta è già nella domanda. Se hai una buona concentrazione,il tempo non è un problema. Io ho la fortuna di scrivere molto rapidamente, quindi è davvero solo questione di concentrazione.Subito prima di questa intervista ho lavorato un po’ al sequel di Little Brother . Tra poco, tornerò a scrivere. Sto cercando di mantenere un ritmo regolare: 2000 parole al giorno. Oggi ne ho già scritte circa 1500,quindi mi basta tirarne giù altre 500 prima di andare a dormire ( avendo fatto l’intervista alle due di pomeriggio, non dovrebbe aver avuto troppi problemi,NdI). Per trovare la concentrazione, uso anche qualche trucco. Per esempio, quando smetto di scrivere lascio una frase a metà. Così, quando riprendo non devo essere subito pazzescamente creativo: ho un aggancio e le prime parole vengono da sole. Rispetto al passato, la novità è che adesso riesco a farlo ogni giorno. Una volta, di fronte all’idea di “scrivere un’ora al giorno”, pensavo fosse qualcosa di triste, un po’come l’obbligo di fare aerobica trenta minuti ogni mattina. In realtà, la regolarità quotidiana cambia radicalmente il tuo rapporto con la scrittura. Rende tutto molto più automatico.
Niente solitudine e fughe nella capanna sul lago, insomma?
Conosco diversi colleghi che hanno bisogno di qualcosa del genere e molti di loro producono del materiale fantastico: ma non ne conosco uno che sia contento di questa necessità. Anche perché vuol dire perdere il controllo su uno strumento essenziale, psicologicamente ed economicamente, per la tua vita: non sei più tu a decidere, ma è l’ambiente. E la distrazione diventa uno spauracchio: potrebbe essere una canzone che passa alla radio nel momento sbagliato, il desiderio di fumare una sigaretta o anche un boscaiolo fuori della tua capanna che accende una sega elettrica. Tutto diventa un alibi per non scrivere: ti alleni quasi a ridurre le tue capacità di scrittura. Mio padre è nato in un campo profughi in Azerbaijan. Quando arrivò in Canada e fu ammesso all’università, mia nonna impose un rigidissimo regime domestico: ogni volta che mio padre studiava,non doveva volare una mosca. Il risultato è che oggi mio padre non riesce più a lavorare se non c’è il silenzio assoluto. Si blocca. Per me è fondamentale riuscire a scrivere anche in mezzo al caos. 


Interview: MUCCHIO SELVAGGIO

04/01/12

Noi..come voi

Non si può..Non si può fumare, non si può amare, non parlare nè ricordare. Allo stesso tempo, chi dice che non si può rifiuta limitazioni e controlli sul proprio potere.Timori diffusi. E paralizzanti. Ma anche accettare l'indegnità come destino, non si può.
Una bambina indigena segue come un ombra un reporter francese, venuto a filmare con un equipe francese la vita quotidiana della sua tribù, nella foresta amazzonica. Il reporter ha gli occhi azzurri, bellissimi e chiede alla bambina perchè mai lo seguisse cosi insistentemente,e la bambina risponde che vuole sapere di che colore vede il mondo. "Del tuo stesso colore.." risponde il reporter. La bambina, indispettita, replica:" E tu,cosa ne sai di che colore vedo io le cose?"..
La più grande ricchezza risiede nella diversità degli occhi che guardano il mondo e nella quantità di mondi che il mondo contiene. Per questo bisogna salvare la pluralità degli sguardi e dei mondi che,giorno dopo giorno, questa che viene chiamata globalizzazione stà massacrando,riducendo dei punti di vista ad un unico punto di vista.


Ci piace la città e l'aria aperta, le città sul mare, dove hai la sensazione che puoi sempre fuggire anche se poi non lo fai mai, alla ricerca di un ri-equilibrio e della facoltà di slegarsi e legarsi liberamente in spazi che possono offrire a ciascuno una dimensione intima, privata e che però sia aperta all'esterno, al movimento,alla possibilità di farsi vedere e ascoltare. I buoni libri, la musica e un po' di televisione. Ci piace il welfare e non i valori morali, il political correct e non l'orgoglio nazionale, ci piace l'individuo e non la famiglia, la ragione e non la religione, la comunità e non la patria. Non ci piace la saldatura tra capitale economico e chi non ha capitale culturale, tra ricchezza di denaro e povertà di cultura. Ci piace pensare che la battaglia da combattere ora sia sulla scuola e sull'università. Ci piace la minoranza e non la maggioranza,perchè la maggioranza tende a fare..maggioranza. E detesta minoranze e avanguardie. Ci piace essere connessi, ma dove c'è comunicazione.
Ci piace dormire,quando ci riusciamo e bere il caffè per tirarci sù e pensare che la pigrizia sia sexy, anche se non stiamo mai fermi. Ci piace il nostro appartamento, il  disordine e il nostro animale. Noi siamo sempre gli stessi, cucina di casa nostra, computer, banconi dei bar, sala da concerti e siamo quelli che si fanno sempre la stessa domanda: "Se crescendo diventi un po' più stupido, vuol dire che diventi anche un po' più felice?"

Se vi piace cenare a lume di candela, esplorare il mondo, fare l'amore tutti i giorni o semplicemente condividere i vostri pensieri, ci potremmo incontrare. Noi siamo esattamente come voi.




02/01/12

Street Art

street art: Destroy
Ennio Ciotta
Street Art 
La rivoluzione nelle strade

Basterà alzare la testa al cielo mentre si cammina per strada in città per gli angoli e i muri si riempiono di figure dalle sagome familiari e interessanti pronte a rubare la nostra attenzione anche solo per un attimo. Ci sono scritte, slogan, stencil, poster, stickers che ci seguono ovunque. Sono tanti e si moltiplicano sempre di più. Stanno cercando di dirci qualcosa? Cosa sta succedendo?
Con la street art l’arte scende in strada trasformando gli angoli della nostra quotidianità in beni comuni dal tono familiare e accattivante. Le città si aprono e si trasformano in vetrine dalle possibilità illimitate. La strada è viva. La rivoluzione parte dalla tecnica, ora veloce, strappata e piena di adrenalina, indispensabile per comunicare messaggi chiari e indelebili. Messaggi che dai muri entrano nel cervello e nel cuore. Una vera e propria rivoluzione raccontata dai protagonisti della scena italiana attraverso dialoghi, racconti e immagini.
Ennio Ciotta analizza e fotografa questa urgenza artistica, sociale, culturale e antropologica in maniera lucida e disincantata. Street art: la strada e l’arte sono di tutti. 

“interviste esclusive ai protagonisti della scena italiana:
Lex & sten,
Morkone, ozmo, Gec art,
il Korvo, Lucamaleonte,
Martin, omino 71, run,
Yap Willy, Chekos’art”.



Ennio Ciotta, giornalista, scrittore, critico musicale e dj da oltre quindici anni vive e analizza dall’interno gli ambienti controculturali. Con suoi articoli supporta principalmente il do it yourself, la tutela dei beni comuni, l’ecologia radicale e i movimenti underground
pagine  170 euro 15,00
Bepress edizioni in movimento