15/06/12

Teofilo Stevenson

Qui a Interzone la Boxe piace, tanto. Pubblichiamo questo articolo di  Claudio D'Aguanno, scritto il 2 aprile del 2006 per l'Unita', in occasione della visita di Teofilo Stevenson, prematuramente scomparso a l'Avana, l' 11 giugno 2012. Il grande pugile venne in Italia, a Roma come accompagnatore della nazionale juniores cubana.

IN GIRO PER ROMA CON TEOFILO STEVENSON LAWRENCE
Per trecento e passa incontri non ha mai sfilato la canotta del pugile dilettante, rossa o blu delle competizioni ufficiali, col nome Cuba scritto sul cuore. E non è mai salito da professionista sui ring più importanti del mondo, quelli pieni di dollari verdoni e tante illusioni. Ma ancora oggi, a trentanni di distanza, è quel suo mancato match con Ali a fare testo nelle discussioni degli avvelenati aficionados della noble art. Correva l’anno 1976 e Teofilo Stevenson, dopo aver messo a sedere il camionista nero John Tate, aveva appena regolato Mircea Simon nella sfida per il titolo dei massimi alle olimpiadi di Montreal. Il romeno per due round aveva preferito girare al largo spazzolando il quadrato con il classico abile “gioco di gambe in fuga” ma al primo vero affondo del caraibico, poco più d’ottanta chili di muscoli per un metro e novanta di fresca agilità, c’avevano pensato i suoi secondi, col getto dell’asciugamano, a togliere ai giudici l’imbarazzo del verdetto. Nel parterre del palazzetto canadese c’era Foreman, trionfatore otto anni prima a Mexico City, c’erano Consell e Steward commentatori esperti e smagati, c’era soprattutto, con la sua zazzera elettrica tirata a mille volts, quella volpe di Don King che non esitò a timbrarlo al volo come “un fenomeno degno di battersi con Frazier o Ali”. E fu forse in quell’occasione che nacque l’idea del confronto “del secolo” tra il dilettante dominatore di tutte le competizioni mondiali e il “più grande”, l’ex “labbro di Lousville”, quel Muhammad Ali che sapeva “danzare come una farfalla e pungere come un’ape”.
Cinque milioni di biglietti dello zio Sam furono messi sul piatto per convincerlo a passare tra i prof ma, dicono i suoi estimatori, bastarono meno di cinque minuti a el Pirolo, come lo chiamano ancora dalle sue parti di Puerto Padre a Las Tunas, per rispedire al mittente quella tipica proposta indecente da american way of life. Rapida come il suo micidiale destro la battuta di allora che nell’isola, dall’Avana a Santiago, tutti sono ancora in grado di citarti a memoria: “Prefiero el cariño de ocho millones de cubanos… Preferisco l’affetto di otto milioni di cubani ai milioni di dollari americani.”
Per Teofilo è questo il match che mai smetterebbe di raccontare. Un match ben più suggestivo di quello epico con cui a Monaco aveva messo orizzontale il marine Duane Bobick, speranza bianca attesa da anni e finita out in pochi minuti. “Non lo so come sarebbe finita con Ali –si lascia andare mentre in macchina dalla Pineta Sacchetti caliamo sul Foro Olimpico direzione Flaminio- Lui una volta ha detto che sarebbe finita pari. Comunque avrei dovuto studiarmela bene. Ali aveva battuto tutti. Dopo Kinshasa aveva messo in fila Bugner, Frazier, Norton. Non aveva rivali. E un match da titolo mondiale WBC durava quindici asaltos mentre i dilettanti si affrontavano per soli tre round. Però io ero più giovane e fresco di lui. Il problema era che non volevo passare professionista anche se ero disposto a battermi. E così, a un certo punto, la mia Federazione fece pure la proposta di disputare il confronto in cinque incontri da tre riprese ciascuna e in cinque città diverse degli Stati Uniti. Oppure tres combates da cinque. Ma niente. Fu Ali a rinunciare e, con onestà poi ammise che aveva solo da rischiare da un incontro del genere perché, diceva, peleando con un dilettante aveva nada que ganar, aveva tutto da perdere.”
Non è la prima volta che il tre volte campione olimpico, attuale vicepresidente della Federación de boxeo de Cuba, è a Roma ma oggi c’è venuto in compagnia della squadra juniores del suo paese, terza tappa d’un tour d’allenamento che dopo Milano e Firenze si chiuderà a Napoli. Nella palestra del Flaminio, selezionati dal maestro Zonfrillo, le nostre speranze si chiamano Blandamura e Biagiotti, Califano e Ernesti, Di Savino o Spada, ma devono vedersela con plurititolati iridati del calibro di Yordan Gendry, Julio Jglesias Dunque o il massimo Munos Francia che di nome fa Robert Marx e che, con tanto richiamo al filosofo di Treviri sulla carta d’identità, guida il gruppo con l’autorità d’un leader. “La base pugilistica a Cuba –riprende a dirmi Teofilo- è forte di quindicimila praticanti. Gli agonisti sono molti meno e tutti, prima di pensare a lottare per le medaglie, devono preoccuparsi di andare avanti con gli studi. Sport e cultura a Cuba vanno insieme. Sono due diritti che la rivoluzione di Fidel ha portato a tutti. Non sono una cosa per pochi. Io avevo pochi anni quando Batista fu cacciato ma me li ricordo i vecchi e i bambini che morivano di fame. Me le ricordo le ingiustizie e le prepotenze. Da un giorno all’altro, con Fidel, è cambiato tutto. E da allora, la salute, lo sport, l’istruzione, sono diventati a Cuba un bene comune. E questa cosa neanche tanti anni di embargo decisi dai governi americani sono riusciti a cancellarla.”
Nel ‘98 a volare nell’isola con un carico di medicinali e di aiuti ci andò proprio Muhammad Ali in persona e l’amicizia tra i due fu benedetta tra finte e jab simulati su un ring improvvisato. “Con Ali sono grande amico. E’ stato un grande pugile. Ma ancor di più lui è un grande personaggio della nostra epoca. Tutti mi chiedono di boxe, di come è andato quell’incontro o quell’altro e di quale avversario ho un ricordo più duro. Ma a me piace parlare di sport anche in altra maniera. Mi piace dire cosa rappresenta sul piano sociale e come può aiutare il popolo del mio paese. E poi, se mi chiedi di pugilato, di incontri difficili e di prove superate, ti dico che il match più duro per me è sempre stato l’allenamento. Scendere in palestra, combattere col sacco, darsi una disciplina. Questi sono i primi round, quelli más difíciles da vincere. Dopo viene l’umiltà di saper apprendere dalle sconfitte: de las derrotas se sacan experiencias. Queste sono lezioni della nostra scuola cubana. Così si insegna a vincere la paura, ad avere dei valori, ad affrontare le prove.”
Dalla Farnesina la fisionomia dell’Olimpico stacca bianca sullo sfondo verde di Monte Mario. Il più forte pugile dei nostri anni ’70, un mito della mia giovinezza stradarola e movimentista, quello che buttava al tappeto los americanos, sobbalza buttando l’occhio alla tribuna che si vede da Ponte Duca d’Aosta. “Mi piace il calcio –sorride serio- Seguo tutti gli sport ma il calcio mi piace molto. Maradona è stato il più forte al mondo ed è un grande amico mio come di tutto il popolo cubano. Mi piace pure la nazionale del Brasile e dell’Argentina. E poi Ronaldinho del Barcellona ma anche il vostro Totti… è di Roma no?” La citazione del capitano di Porta Metronia meriterebbe da sola un abbraccio curvarolo ma c’è poco tempo di parlare di lupacchiotti e virtù sangueoro. Sulla porta del palazzo della Fpi, assieme a Marcello Stella, c’è Gianni Minà che lo branca in clinch e l’accompagna alla conferenza stampa. Su uno schermo scorrono le immagini d’un cuento de boxeo, un film di Alessandro Angelini ritmato dalla rumba dei pugni che hanno fatto la felicità di un’epoca mentre in sala già suona la campana d’un altro match fatto di flash, parole e ricordi.


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