Bell'articolo su Jack London di M. Raffaeli, (Alias 23-11-013)
In una delle scene meno rammentate di C’era una volta in America
il protagonista, un Noodles ancora adolescente, si barrica nel gabinetto del
suo condominio in Lower East Side e prende in mano un libro che penzola dalla
finestra legato a una catena: il breve fermo-immagine indugia sul fronte-spizio
in caratteri liberty con foto dell’autore nel foglio di guardia e attesta che
quello e un romanzo di Jack London, Martin Eden. La sceneggiatura del
capolavoro di Sergio Leone colloca la scena nel 1922, quando London é morto da
appena sei anni e il romanzo è uscito da tredici ma, paradossalmente, e già
tempo di oblio per lo scrittore che aveva inaugurato il secolo americano raffigurandolo
in emblema coi caratteri della schiettezza primordiale, di un vivere generoso e
dispendioso, incline con la spavalderia tradotta nella presa diretta di una scrittura
che di colpo cancellava il formalismo e il rugiadoso sentimentalismo dell’età
vittoriana. In appena quarant’anni di esistenza, Jack London (1876-1916) era
divenuto un mito letterario ma anche politico, l’erede di Melville e Stevenson
o di Poe nell’arte del racconto e nel frattempo il militante del Partito
socialista, firmatario per esempio di una favola-incubo, Il Tallone di ferro
(1907) che era piaciuta a Trotsky e a lungo, in Europa, sarebbe stata letta
come la più lucida profezia del nazifascismo.
Morto probabilmente suicida, in un gorgo di dissipazione e
di totale sperpero di se, fra megalomanie e presenzialismo narcisista, sospettato
di abiura e conversione al credo americano del successo dai suoi stessi
compagni, ‘la belle époque’ non sa dunque che farsene nel 1922 di uno scrittore
da bassifondi che molti giudicano rudimentale e populista, ma presto anche i
detrattori dovranno ritrovarlo e per la prima volta interrogarne il lascito in tempi
di crisi acutissima tra la Grande Depressione e il New Deal: é li che Irving
Stone (nel '38, reduce da un fortunato lavoro su Van Gogh, Brama di vivere,
’34) pubblica un profilo uscito in Italia solo nel ’79 dagli Editori Riuniti e
ora riproposto col semplice titolo di Jack London (traduzione di Massimiliano
Reggia, Castelvecchi - Ritratti, pp,
374, € 22,00). Se non è per fortuna una cosa romanzata o ammanierata come
quelle che firmarono la seconda moglie di London, Charmian Kittredge, nel '21,
e sua figlia Joan nel '39, qui non si tratta nemmeno di una biografia in senso
storico-accademico: oggi inevitabilmente datata, quella di Irving resta una biografia-ritratto
che però utilizza moltissime testimonianze di prima mano e, se non ha
particolari ambizioni interpretative, comunque sa discriminate con equilibrio e
chiarezza espositiva l’opera di London, che fu grande e diseguale, da un
decorso biografico che tutto aveva invece per alterarne la reale fisionomia e
confonderne la ricezione in un’aura mitologica. Va sempre ricordato che la bibliografia di London é un
prodigio produttivo, nel quale si contemplano qualcosa come 41 volumi pubblicati
(fra romanzi, racconti, interventi teorici e saggistici, pamphlet) in 15 anni o
poco pin di attività e a un ritmo gestatorio, di cui l‘autore si vantava, di
1.000 implacabili parole scritte al giorno. Il bilancio che Irving Stone
suggerisce nel '38 dopo tutto é lo stesso che potrebbe sottoscrivere un lettore
di oggi. Alcuni titoli, alla lettera, restano indelebili: fra i racconti, in
blocco quelli dedicati al Grande Nord e alla febbre dell’oro (senza i quali non
avremmo The Gold Rush di Charlie Chaplin, un dickensiano ma anche Londoniano ad
honorem), cosi come in dittico Il richiamo della foresta e Zanna Bianca
(1903-’06), o quelli sulla boxe, vera e propria epopea darwiniana, che
includono lo splendido Una bistecca; fra gli scritti di ispirazione sociale,
oltre al menzionato Tallone di ferro, un presago reportage sul proletariato
dell’East End londinese, Il popolo degli
abissi (1903), che non sfigura accanto alla classica inchiesta di Friedrich
Engels; e poi, ovviamente, Martin Eden, il romanzo americano per eccellenza, un
testo di evidente proiezione autobiografica dove il senso più avventuroso della
ricerca esistenziale si vincola a una lucida, impietosa, critica dell’american
way of life. Irving Stone, ed è questa la parte più interessante del suo
lavoro, indugia sugli anni di formazione di London: non tanto sui mille
mestieri del ragazzo di Oakland dai dubbi natali ma senz’altro di origine
irlandese, bello e atletico, gaudente e spaccone che, afflitto dalla malattia
cronica della “miseria”, fu via via un marinaio razziatore di ostriche, mozzo,
fochista, operaio, inviato di guerra, cercatore d’oro, proprietario di ranch,
esploratore dei Mari del Sud, quanto, specialmente, sul suo apprendistato
culturale che si è soliti ascrivere all’eclettismo di un autodidatta.
Eclettico
e autodidatta, senz’altro, ma fino a un certo punto perché l'orizzonte culturale di London (che
pure fu per tutta Ia vita un lettore vorace, onnivoro) si calcola meglio in
verticale che non in orizzontale: a dispetto delle apparenze non c’é grande affollamento, perché suoi maestri
risultano da ,un lato i campioni del realismo/naturalismo (Balzac, Zola, Melville,
Stevenson, Kipling), dall'altro alcuni scienziati e filosofi riuniti dal credo materialista
come Darwin, Spencer, Marx, Nietzsche. Il determinismo o persino il monismo del
suo sguardo sulla realtà é in effetti e di continuo contraddetto dagli impulsi
libertari di chi vuole scampare alla regola ferrea (interesse, profitto,
destino di classe) che governa ‘le cose del mondo’: rimane una contraddizione,
precisamente rilevabile negli scritti politici, ma è la stessa che in un bilico
vertiginoso fissa la verità di Martin Eden, un personaggio scisso e fisicamente
sacrificato dalla dinamica dello struggle for life nel momento medesimo in cui
il suo individualismo, il sogno americano, ambirebbe a trionfare. (Tutti
ricordano il finale del romanzo, che è un’ultima discesa agli inferi, anzi un
annientamento travestito da apoteosi; cosi nella versione di Giovanni Baldi,
Garzanti 1989: <<Dov’era? Gli sembrò di trovarsi in un faro; era invece
il suo cervello che emanava una luce bianca, accecante, che roteava sempre più veloce. Seguì un suono cupo e rombante che lo precipitò giù
per una smisurata tromba di scale, al fondo della quale, a un certo punto,
cadde nella tenebra. Questo solo capì. Di essere caduto nella tenebra. E nell’istante
in cui seppe, cessò di sapere>>).
London fu o volle
essere o presunse di essere, pari a qualunque scrittore americano fra il XIX e
il XX secolo, un testimone della realtà codificata in Natura ma seppe essere, a
momenti, uno straordinario interprete della Storia che in quella stessa
immagine, presuntamente naturale, era invece cifrata o occultata. London non é
affatto uno scrittore innocente ma, semmai, un eterno ritorno per gli
americani: Ernest Hemingway, John Dos Passos e compagni, nella Grande Depressione,
torneranno a lui e a lui tornano, più o meno onestamente, più o meno
astutamente, i seguaci della docufiction nella nuova Depressione ormai
globalizzata. Ha da offrire come sempre le sue pagine spoglie, un ritmo libero
e sghembo, un’idea del sublime dal basso che lega in istantanea, e in massa, lo
scrittore e il lettore. Tutto questo, a sua volta, non è affatto innocente:
tuttavia, nello stato di cose presenti, come si fa a non amare Jack London,
come è possibile dimenticarlo?
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