05/11/13

Interisti: Interismo/Leninismo


LOU REED: "Per ogni momento nero, ho un momento euforico. Penso che le persone che sono spesso depresse, sanno anche raggiungere una grande euforia".. 
 
"l’lNTER, quel mito che finora si è fatto carico di spiegare l’inspiegabile: che cioè in cent’anni di esistenza l’lnter è sempre stata capace di alternare partite fantastiche a cadute rovinose, imprevedibili le une e le altre e sempre maturate in un brevissimo torno di tempo"..
 
AGLI INTERISTI..
Comunismo è una parola indicibile. <<Se fermi qualcuno per strada e gli dici: “io sono comunista”, quello non ti capisce>>. Cosi si e espresso Fausto Bertinotti, nell’agosto 2008. Qualche mese prima, Massimo Cacciari veniva intervistato a proposito del ventesimo anniversario dello scudetto del Milan di Sacchi. Dopo aver sostenuto che Sacchi doveva ritenersi il simbolo di quella stagione e che nel suo gioco "non conta l’individuo, ma il sistema" (”Contano certamente gli interpreti adeguati, ma devono sapere che non sono assolutamente dei solisti, ma parte di un’orchestra”), all’intervistatore che gli chiedeva se si trattasse di una lezione utile anche per la politica italiana ha risposto: <<Ci sono teorie politiche che sostengono esattamente quello che Sacchi ha realizzato Col Milan>>.

Quali fossero queste “teorie politiche” Cacciari si è ben guardato dal dirlo, ma nel corso dell’intervista ha disseminato indizi gravi, precisi e concordanti. Che poi non abbia tirato le conclusioni può spiegarsi solo supponendo che anche per lui - come per Bertinotti - “comunismo” sia una parola indicibile. Ci sono molte buone ragioni per pensarla cosi e tutte si riannodano alla pesantezza e all’opacità di quel mondo che, fino al 1989, ha preteso di nominarsi con quella parola: un mondo che prima di sgretolarsi e dissolversi si era come pietrificato e ancora minaccia di pietrificare chiunque osi evocarlo, proprio come lo sguardo inesorabile della Medusa. Nelle sue Lezioni Americane, Italo Calvino racconta il mito di Perseo, che per tagliare la testa alla Medusa senza lasciarsi irretire dal suo sguardo cavalca i venti e le nuvole, fino a posare lo sguardo sull’immagine della Gorgone catturata da uno specchio. Cosi, vedendo la Medusa senza però guardarla direttamente, Perseo riesce ad averne ragione; e la sua testa mozzata da li in avanti porterà sempre con sé, nascosta in un sacco: arma micidiale da mostrare ai nemici che meritano di diventare la statua di se stessi.

La forza di Perseo - spiega Calvino - sta nel rifiuto della visione diretta della Medusa, ma il suo rifiuto non equivale ad una fuga nel sogno e nell’irrazionale: quella realtà fatta di mostri, al contrario, egli l’assumerà a proprio perenne fardello. Piuttosto, Perseo comprende che bisogna guardare il mondo con un’altra ottica, avvalendosi di altri metodi di conoscenza e di verifica: ciò che del mondo appare terribile bisogna prima guardarlo attraverso uno specchio. Come il calcio. Del mondo umano esso riproduce anzitutto la dimensione conflittuale: il confronto e il conflitto fra i giocatori è sempre mediato dalla presenza e dal possesso di una “cosa” (la palla, che - va da sé - sta per simbolo di tutte le cose) e, pur svolgendosi secondo una logica intelligibile, e sempre incerto, “aperto” nei suoi esiti ultimi (l’ultima in classifica può battere la prima o magari strapparle un pareggio). Ma del mondo umano il calcio rispecchia anche la potenza e l’inesorabilità della regola (incluso l’errore di quanti son chiamati ad applicarla) e soprattutto la bellezza: quella bellezza che, come sosteneva Roland Barthes, consiste nel dare ritmo alla fatalità, nel fare di un atto difficile un gesto grazioso, nel dare alla necessità la forma della liberta. Non è dunque un caso che il calcio abbia assunto quella funzione sociale che in passato ha svolto il teatro: perché nell’uno come nell’altro caso di altro non si tratta che di riunire tutta la cittadinanza in un’esperienza comune - la conoscenza delle forme e delle passioni della propria vita. <<Tutto ciò che accade al giocatore accade anche allo spettatore>>, concludeva perciò Barthes prima ancora che la scoperta dei “neuroni-specchio” desse una fondazione neurofisiologica alle sue parole: e in effetti, il calcio esprime, libera e brucia quelle stesse forze, quegli stessi conflitti e quelle stesse angosce che tutti noi sperimentiamo nella nostra esistenza. La partita di calcio riduce la lotta per la vita a pura forma, ma ne conserva intatto il significato; detto altrimenti, nel calcio c’è l’intero universo sociale umano. Incluso il comunismo. Lontano dalla pietrificante pesantezza del Gosplan, della burocrazia statale e del Gulag, i suoi “rapporti di produzione” ispirano la struttura dei moduli a zona che si sono affermati dopo la definitiva vittoria del “calcio totale”: moduli in cui, per dirla proprio con Cacciari, <<non conta l’individuo, ma il sistema>> e che possono funzionare solo a patto che tutti i calciatori, in ogni momento, siano capaci di pensare allo stesso modo, cioè di interpretare la partita in base ad una visione collettiva tale per cui nessuno e indipendente dagli altri. Pianificando ex ante i loro movimenti, ma facendo attenzione a rimodularli a partita in corso per tener conto della mutevolezza e contingenza delle situazioni concrete.

Un modulo in cui non esistono più ruoli fissi e in cui ciascun giocatore e insieme difensore, centrocampista e attaccante non presuppone soltanto organizzazione, programmazione e inquadramento, ma favorisce il massimo della libertà espressiva, nel senso che ogni giocatore acquisisce la libertà di seguire la propria ispirazione purché abbia la copertura di uno o più compagni di squadra. E’ un modo di giocare che è fatto di schematizzazione non meno che d’invenzione, di “gabbie” non meno che di “libertà”. Come ha scritto Sandro Picchi, l’essenza del calcio a zona è che <<puoi fare ciò che vuoi, ma non puoi farlo senza gli altri>>. Che poi la fantasia di gruppo possa diventare gruppo senza fantasia dipende dalla scarsa qualità dei suoi interpreti: pressing, possesso palla prolungato e sincronia nei movimenti collettivi richiedono non soltanto bravi calciatori, ma soprattutto atleti polivalenti, che sappiano correre, giocare il pallone e avere senso tattico. Si tratta di qualità che sempre pin spesso vengono esaltate dai giocatori neri, in un felice connubio tra velocità e resistenza, potenza e agilità. E il fatto che molti di coloro che vestono le maglie dei club (e delle nazionali) occidentali arrivino adesso non pin soltanto dal Sudamerica ma anche dall’Africa può costituire un salutare antidoto contro la xenofobia dilagante dei nostri tempi di crisi.

Non lo capiscono quanti - come Toni Negri - “sonnecchiano” di fronte a un calcio fatto di "22 piccoli Materazzi, 22 automi, 22 giocatori di un videogioco di media qualità", e sognano "i padri e i nonni del funambolico Maradona", che negli anni ’30 ei avrebbero insegnato “il metodo”: una difesa dura e un attacco che rilanciava sulle ali, lento e preciso come in un tango. Per non parlare di quegli altri che – come Marco Revelli - lamentano per contro che "le squadre non hanno pin alcuna relazione con i luoghi che rappresentano" (”sono piene di mercenari, basta pensare all’lnter che è fatta solo di latinoamericani”). Gli uni a dolersi che non c’è più métissage, gli altri a lamentare che ce n’è perfino troppo e che <<la globalizzazione ha fatto perdere identità al calcio>>. Gli uni a sperare che si possa “involvere” tatticamente agli anni ’3O, gli altri a rimpiangere i “bei tempi” in cui la giocata del singolo valeva più dell’organizzazione di squadra.

Non sono maestri “cattivi”, ma ormai inutili. Del ’68 hanno assunto fino in fondo la spinta anarchica e spontaneista e la declinazione che calcisticamente ne danno e coerente con l’antistatalismo feroce che esibiscono sul versante politico. L’una e l’altro essendo oggettivamente in ritirata, non varrebbe la pena nemmeno di menzionarli se non fosse che la loro longevità pubblica (specie nell’ambito dell’industria culturale) costituisce uno tra i principali puntelli ideologici alla crisi del capitalismo. Ma più di questo qui non possiamo dire: l’insegnamento che si può trarre dalla spiegazione materialistica del calcio a zona sta nella letteralità del racconto non nelle glosse a margine.

Prendendo le mosse da due milanisti come Bertinotti e Cacciari, abbiamo di fatto riprodotto il mito della fondazione dell’lnter, quel mito che finora si è fatto carico di spiegare l’inspiegabile: che cioè in cent’anni di esistenza l’lnter è sempre stata capace di alternare partite fantastiche a cadute rovinose, imprevedibili le une e le altre e sempre maturate in un brevissimo torno di tempo. La storia è nota: la sera del 9 marzo 1908, una quarantina di dissidenti del Milan, in polemica con la decisione della società di non far giocare gli stranieri, si diedero appuntamento in un ristorante milanese e fondarono un’altra squadra. <<Nascerà qui, al ristorante “L’orologio”, ritrovo di artisti, e sarà per sempre una squadra di grande talento. Questa notte splendida darà i colori al nostro stemma: il nero e l’azzurro, sullo sfondo d’oro delle stelle. Si chiamerà Internazionale, perché noi siamo fratelli del mondo>>: cosi narra il documento fondativo, e poco importa stabilire se il nero e l’azzurro furono scelti per eternare il cielo di quella magica notte o perché il pittore che disegnò lo stemma era a corto di colori. Peppino Prisco, indimenticato dirigente nerazzurro per circa mezzo secolo, soleva ironizzarci su: esser generati da una costola del Milan, diceva, era come ammettere che si veniva fuori dal nulla. Ma sul piano del mito, la cosa ha ben altre implicazioni. Da una costola (di Adamo) nacque la donna, secondo il racconto della Bibbia. E’ una donna nata di 9 marzo è indiscutibilmente Pesci, cioè aggiunge alla fascinosa eleganza del femminile l’instabilità e la volubilità del carattere, che connotano quel segno zodiacale. ln effetti, si è detto spesso che l’Inter è una squadra “femmina”, con ciò maliziosamente contrapponendola a squadre “maschie” (cioè “dominatrici”) come il Milan o la Juventus. Non importa qui stabilire le origini storiche di quell’appellativo. Il punto indiscutibile è che il carattere “femminile” dell’lnter non rimanda affatto alla sposa-madre angelo del focolare di democristiana memoria, col suo carico di frustrazioni e nevrosi piccolo-borghesi, ma piuttosto alla donna emancipata che si afferma durante la Sexual Revolution degli anni ’60. Forse non è un caso che siano proprio quelli gli anni in cui nasce il mito della “Grande Inter”: quel mito, infatti, rimanda ad una donna finalmente padrona della propria sessualità e del proprio corpo, che si è liberata della schiavitù dell’amore per un uomo e perciò non assicura al proprio compagno nessuna di quelle “certezze” che permeavano il dominio maschile nell’età vittoriana. L’lnter è come una compagna che ti ama e che nondimeno ti può “tradire”, perché la sua capacità di amare eccede necessariamente la tua persona. Per questo l’interista e sempre, inevitabilmente, un innamorato un po’ disilluso e un po’ voyeur: il suo rapporto d’amore non è mai in discussione, ma lui sa sempre che la sua amata, pur amandolo, può amare e darsi a un altro. E mai con la meschinità del sotterfugio, ma sempre nella folle gioia del baccanale, della dépense.

Mourinho ha già ricordato che l’evoluzione non procede mai nella stessa direzione (<<Arriva sempre un momento nel quale non si gioca bene e non si vince>>: l’evoluzione ha bisogno di errori e difficoltà), ma soprattutto perché Marx ci ha insegnato che, se è vero che i grandi eventi si ripetono sempre due volte, la seconda, di solito, è una farsa. E dunque, compagni interisti, guardiamo al futuro (e tocchiamo ferro).

per leggere: Interismo Leninismo, Luigi Cavallari (manifestolibri)














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