02/06/11

Jules Bonnot e via Fracchia

'Ribellione', mormorò Jules adagiandosi sulla branda.
Ribellione, non rivoluzione. Qualsiasi tentativo di sostituire un governo reazionario con uno rivoluzionario, rifletté, avrebbe comunque lasciato al loro posto, se non gli stessi sfruttatori, sicuramente i metodi di sfruttamento in quanto funzione, rifletteva Jules. Lo stato poteva cambiare i fini, ma non i mezzi. Stirner lo aveva capito. E Nietzsche definiva Stirner « l’intelletto più fertile della sua epoca »... Jules sorrise, scuotendo la testa, e le labbra gli si piegarono in una smorfia amara: l’intelletto più fertile, certo, che però era morto in miseria e solitudine, ignorato dai borghesi, disprezzato e ridicolizzato dai socialisti, abbandonato alla fame che aveva accompagnato buona parte della sua esistenza... A che era servito tanto intelletto, se poi nulla era riuscito a cambiare? La società, lo stato, il mondo intero erano disposti a riconoscergli la qualifica di filosofo, adesso che Stirner era un mucchietto di ossa dimenticate in qualche cimitero del paese più socialista di ogni altro. Già, i socialdemocratici tedeschi, pensò Jules grattandosi con violenza fra i capelli; fu distratto dall’idea che in quella lurida soffitta ci fossero le cimici... Ma no, era solo sporcizia, non si faceva un bagno da troppi giorni, e la polvere ferrosa della fabbrica era peggio delle cimici. Riprese il filo dei suoi pensieri. Dunque, i socialdemocratici erano quel fior di rivoluzionari che, una volta entrati in parlamento, avevano detto chiaro e tondo: « L’operaio tedesco è ormai un cittadino rappresentato al Reichstag, e da adesso ha dei doveri verso la Germania che vanno anteposti a quelli verso la propria classe»... Jules sospirò e subito fu preso da un attacco di tosse. Quella maledetta polvere. Che importava se veniva respirata in nome di Bismarck o della socialdemocrazia, quando l’unico scopo era costruire cannoni per poi sottomettere popoli in Africa o in Asia, o mostrare i muscoli ai vicini europei... E quel vecchio rimbambito di Engels, ricordò Jules, si era persino rimangiato il Manifesto Comunista, dichiarando che i socialdemocratici tedeschi dovevano approvare le spese militari, per difendersi da un attacco della Russia zarista... La solita storia. In quanto alla Russia, poi... Jules gettò uno sguardo ai vecchi giornali accatastati, ai fogli anarchici sparsi un po’ dappertutto nell’angusto spazio della soffitta. Due anni prima, c’era stato l’ammutinamento dell’incrociatore Potëmkin. Una bella cosa, senza dubbio. Magari li avesse avuti lui, i cannoni a lunga gittata da puntare su Lione... Be’, Lione era un po’ troppo distante dal mare. Forse, avrebbe cannoneggiato la Costa Azzurra, giusto per dare una ripulita... Stavolta si mise a ridere, fermandosi però in tempo, prima che i bronchi tornassero a tormentarlo. L’incrociatore Potëmkin, gli ufficiali e i soldati insorti... Ma che accidente di rivoluzione sarebbe mai stata, se a cominciarla erano i militari? Conosceva bene il mondo chiuso e miope dei militari: qualsiasi idea avessero, qualunque fosse il motivo che li spingeva ad ammutinarsi, si sarebbero portati dietro le tare tipiche della mentalità da caserma. No, non c’era speranza. Non nella rivoluzione, almeno. La ribellione era un’altra cosa. Certo, Stirner non aveva mutato nulla. Ma, neppure ci era riuscito quel calzolaio parigino, anarchico pure lui, tale Léon Léauthier, che era entrato in un lussuoso ristorante dell’avenue de l’Opéra e aveva piantato il suo trincetto nella pancia del primo simbolo che gli era capitato a tiro, cioè la faccia da carogna più carogna che aveva visto: casualmente, apparteneva al signor Georgewitch, ministro della Serbia. Roba da incidente internazionale. E a che cosa era servito? Il calzolaio, addio. Il ministro, sostituito da un’altra carogna suo pari. «Se avessi avuto della dinamite, avrei fatto di meglio», era stata la dichiarazione del calzolaio, prima che lo portassero via e cominciassero a massacrarlo di botte. Sì, come no, la dinamite...
L’ultimo barlume si spense, e la candela spirò. Jules accese un fiammifero, in cerca delle sigarette. Ne era rimasta una. La prima boccata lo fece tossire, ma già alla seconda avvertì una piacevole sensazione di stordimento nei polmoni.
Jouin l’aveva lasciato sfogare. E a quel punto riprese con voce sommessa:
«La conosco troppo bene, per chiederle una cosa simile. Io volevo soltanto metterla in guardia. Tentare di spiegarle che l’illegalismo porterà tutti alla rovina, anche quelli come lei che non lo condividono, o addirittura lo avversano. E che personaggi come Platano possono raccontare in giro di essere anarchici, ma sono soltanto delinquenti. Come ormai lo sono Raymond Callemin e Edouard Carouy, per la giustizia. Non si possono svaligiare case e uffici postali e pretendere di sbandierare ideali di amore e fratellanza...

O forse non è d’accordo con me, lei che dedica ogni giorno della sua vita a un’utopia che sta sprofondando nel fango? » Le mani di Victor, posando la tazza del caffè, tradirono il nervosismo.
« I delinquenti servono a mantenere i poliziotti. Senza i delinquenti, nessuno vi pagherebbe uno stipendio », sibilò con le labbra bianche per la tensione. « Lei tende a semplificare troppo le cose, signor Kibalcic. »
« Commissario Jouin, il vero motivo per cui non trovo pace, in questa mia vita, è che non riesco mai a vedere le cose semplicemente. Magari potessi accontentarmi di certe facili parole d’ordine, di ragionamenti elementari... Tutto è così maledettamente complesso, da aggiungere costantemente dubbi ai dubbi. C’è una sola cosa semplice, in questa realtà che ci hanno costretto a vivere: lei e io siamo nemici naturali. »
Il volto di Jouin riassunse quell’espressione dolente che aveva all’inizio del colloquio.
« È libero di non credermi, ma io non mi sento suo nemico. » « Il mestiere che si è scelto la obbliga a esserlo, commissario. » Jouin assunse un’espressione rassegnata. Guardò Rirette, che era rimasta in piedi, appoggiata al ripiano di marmo del lavandino, e distolse quasi subito gli occhi da quelli di lei. Aveva letto una sfumatura di pietà che si mescolava al disprezzo manifestato fino a quel momento. E non riuscì a sopportarlo. Preferì rivolgersi a Victor, che aspettava la sua risposta.
«Perché... perché non esiste una società che possa fare a meno dei poliziotti. Anche dopo una rivoluzione, la prima cosa da fare è riorganizzare la polizia. Lei questo lo sa, signor Kibalcic. È la sua intelligenza che le impedisce di essere del tutto utopista.»
«Ma è la mia sensibilità che mi farà vivere sempre e comunque contro una società che ha bisogno dei poliziotti per conservare il potere. Anche a dispetto dell’intelligenza, commissario. A dispetto di tutto e di tutti. Se il mio destino è di restare eternamente un eretico... tanto peggio. Vorrà dire che morirò senza rimpianti, con tutti i miei dubbi, ma con una sola certezza: di non essere mai stato complice dell’orrore, del sopruso, degli oppressori d’ogni sorta, qualunque sia il colore e l’ideologia che li anima.»
Jules se ne stava seduto sul pavimento in fondo alla stanza. Si era messo a scrivere su un foglio a quadretti, con là matita che aveva trovato nel cassetto del tavolo. Non chiedevo granché. Camminavo con lei al chiaro di luna nel cimitero di Lione, illudendomi che non vi fosse bisogno d’altro per vivere...
Una pioggia di colpi staccò pezzi di intonaco e schegge di legno. Jules chinò il capo e attese pazientemente che si sfogassero. Tornato il silenzio, riprese a scrivere. Era la felicità che avevo inseguito per tutta la vita, senza esser capace neppure di sognarla. L’avevo trovata, e scoperto che cosa fosse. La felicità che mi era stata sempre negata... Uno squillo di tromba annunciò l’ennesima bordata di proiettili. Jules imprecò, mentre una nube di calcinacci e polvere ricopriva il foglio a quadretti. Appena cessarono gli spari, afferrò le due Browning e andò a scaricarle fuori della finestra.
Gli assedianti risposero, e passarono altri 17 minuti d’inferno. Alla fine, Jules, nel suo angolo, scrisse le ultime righe. Avevo il diritto di viverla, quella felicità. Non me lo avete concesso. E allora, è stato peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti..Dovrei rimpiangere ciò che ho fatto? Forse. Ma non ho rimorsi. Rimpianti sì, ma in ogni caso nessun rimorso.



Un ritratto romantico e disperato di un eroe senza voce, un personaggio profondamente legato ai suoi ideali, risucchiato dal dolore e proiettato alla velocità dei suoi sogni verso un mondo migliore. “In ogni caso nessun rimorso” è l’urlo di una bestia ferita, un libro dedicato a chi ha fatto della coerenza, la sua unica ragione di vita.
'Un romanzo che non può essere neppure definito "storico", perché la Storia la scrivono sempre i vincitori, e i protagonisti delle pagine che seguono hanno invece perso tutto: battaglie, lavoro, amici, ideali, la loro stessa vita. L'unica cosa che sono riusciti a non perdere è la dignità. Ma hanno avuto la sfortuna di vivere in un'epoca in cui la dignità era l'ultima delle qualità necessarie per passare alla Storia'. (P.Cacucci)

Solo un racconto quindi; una storia con la "S" minuscola, tragica e coinvolgente, di un gruppo di donne e di uomini condannati dal destino a trasformare la loro sensibilità in violenza.





VIA FRACCHIA

A Via Fracchia ci fu uno scontro a fuoco come dichiarato ufficialmente dai Carabinieri del Generale Dalla Chiesa o venne eseguita la condanna a morte di quattro brigatisti?


28 marzo 1980. Ore 2.42. All’interno 1 del civico 12 di via Fracchia Riccardo Dura, Annamaria Ludman, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli stanno dormendo. La colonna genovese delle BR sta per essere annientata.
Da giorni i carabinieri sono sulle loro tracce grazie alle rivelazioni del pentito Patrizio Peci. Dalla Chiesa non vuole più attendere e ordina il blitz.
Una trentina tra uomini del reparto antiterrorismo, carabinieri e personale del Nucleo operativo irrompe nell'appartamento. Giù la porta, i primi spari. Il maresciallo Rinaldo Benà viene ferito alla testa, colpito forse da fuoco amico. Ai brigatisti, sorpresi nel sonno, non viene dato il tempo per pensare.
Molta parte dell'opinione pubblica ebbe l'impressione si fosse trattata di una esecuzione. Giuliano Zincone, editoralista del “Corriere della sera”, direttore nel 1980 del quotidiano genovese “Il Lavoro”: "Quel giorno il giornale titolò: “Non è una vittoria”. Sostenevo la teoria che lo Stato non doveva rispondere sullo stesso piano dei terroristi.
Giorgio Bocca: "Intervistai il generale Dalla Chiesa alcuni mesi dopo il blitz. Gli chiesi se ai quattro brigatisti fu data la possibilità di arrendersi o furono uccisi subito. Non mi disse chiaramente che li avevano ammazzati ma il tono usato per parlare rivelava intransigenza, durezza. Per me, al di la delle parole, non andò come era stato raccontato nella versione ufficiale".
Nei mesi precedenti a Genova le BR avevano ucciso quattro carabinieri. Forse Via Fracchia fu la risposta decisa dal Generale Dalla Chiesa. Lo Stato gridava: "Ora in guerra ci siamo anche noi".
Ringrazio il Corriere Mercantile per avermi concesso di pubblicare l'inchiesta di Andrea Ferro sui fatti di Via Fracchia. Documenti straordinari e interviste che lasciano al lettore il compito di formarsi una libera interpretazione dei fatti.


Prima puntata Il mistero della bomba a mano. L’orologio fermo alle 2,42, l’ora del conflitto a fuoco

Seconda puntata Una fila di cadaveri a terra. L’immagine choc che riassume l’orrore di un’epoca

Terza puntata Via Fracchia, ricordi indelebili. Adriano Duglio: «Ecco cosa sapevano i carabinieri»

Quarta puntata Dura, il “capo” in prima linea. Bocca: «Dalla Chiesa mi fece capire...»

Quinta puntata Quelle pistole accanto ai cadaveri. Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli, i “bierre” venuti da Torino

Sesta puntata Riccio: «Spararono per primi. Rispondemmo al fuoco, per tre minuti fu l’inferno».

Settima puntata Ecco i covi della colonna Br.

Ottava puntata L’ultima cena dei quattro brigatisti. Una partita a scacchi iniziata, brandine e tanto disordine




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