11/03/13

Morozov: Fuzz, la "People-Power Radio" e il populismo digitale di Grillo

Evgeny Morozov, classe 1984, giornalista, blogger e scrittore bielorusso. È un esperto di tecnologia e di internet. Insegna a Stanford. Scrive su Foreign Policy e collabora con Economist, Washington Post, Wall Street Journal e Financial Times. E' uno dei più giovani e lucidi esperti della Rete che ci siano al mondo. Il suo libro, The Net Delusion è forse la prima seria ricerca su i lati oscuri di Internet: dalle nuove tecnologie che aiutano i regimi totalitari a rimanere tali fino all’altra faccia dei social network non solo strumento per il coordinamento di rivolte spontanee ma anche piattaforme ideali per schedare facilmente dissidenti di ogni genere e provenienza. 

Fuzz: Alla rete serve ancora un DJ 

Di tutte le start up avviate lo scorso anno, Fuzz è probabilmente la più interessante e la meno conosciuta. Si definisce una people-powered radio, una radio fatta dalla gente, assolutamente priva di robot, e in questo modo si oppone alla crescente tendenza a usare gli algoritmi per scoprire nuova musica. A differenza di altre popolari stazioni radio in Internet, che utilizzano algoritmi per scegliere i brani da segnalare agli ascoltatori, Fuzz dà spazio a dj umani, utenti che sono invitati a caricare la loro musica sul sito, creando e condividendo le loro «stazioni radio». L’idea — o forse la speranza — che sta dietro Fuzz è che il fattore umano possa ancora offrire qualcosa che gli algoritmi non riescono a dare. Come ha detto Jeff Yasuda — fondatore di Fuzz — a «Bloomberg News» lo scorso settembre, «si sente il bisogno di tornare a credere che i consigli più interessanti provengano dagli esseri umani».

Ma anche se il lancio di Fuzz è stato in gran parte ignorato, non è più possibile eludere il crescente ruolo degli algoritmi in tutte le fasi della produzione artistica. La questione è stata recentemente affrontata da Andrew Leonard, giornalista di «Salon», in un interessante articolo su House of Cards, una serie televisiva molto discussa che ha segnato il debutto di Netflix, pay-tv in streaming, nella produzione in proprio. L’origine di House of Cards è risaputa: dopo aver analizzato i dati di accesso dei suoi utenti, Netflix ha scoperto che un remake dell’omonima serie britannica avrebbe potuto avere un grande successo, soprattutto se a interpretarla e curarne la regia fossero stati rispettivamente Kevin Spacey e David Fincher. «Nell’età in cui gli algoritmi sono il principale strumento di marketing, gli autori riusciranno a sopravvivere?», si chiedeva Leonard, provando a immaginare in che modo l’enorme quantità di dati raccolta da Netflix mentre gli utenti vedevano in streaming la prima stagione della serie ne avrebbe condizionato il futuro (quante volte avranno premuto il pulsante «pausa»?).

In molti altri settori si affrontano questioni analoghe. Amazon, ad esempio, raccoglie molte informazioni sulle abitudini di lettura dei suoi utenti attraverso il suo e-reader Kindle: quali libri leggano fino in fondo e quali no; quali parti saltino e quali leggano con particolare attenzione; con che frequenza cerchino le parole nel dizionario e quali passaggi sottolineino. Avvalendosi di questi dati, Amazon riesce a prevedere quali siano gli ingredienti che ci faranno arrivare — un click dopo l’altro — alla fine di un libro. Potrebbe magari fornirci dei finali alternativi, per meglio accontentarci. Come diceva un recente articolo sul futuro dell’intrattenimento, il nostro è un mondo in cui «le storie possono diventare algoritmi adattativi, creando un futuro più coinvolgente e interattivo». Proprio come Netflix ha capito — grazie ai dati raccolti — che sarebbe stato stupido non entrare nel business della produzione di film, così Amazon ha scoperto che sarebbe stato stupido non entrare nell’editoria. I dati a disposizione di Amazon sono però più estesi di quelli di Netflix: dato che ha anche un sito che vende libri, conosce molto bene le nostre abitudini negli acquisti e i prezzi che siamo disposti a pagare. Oggi Amazon possiede 7 marchi editoriali e ne ha in progetto altri.

Da diversi anni l’industria della musica ha decisamente adottato metodi analoghi: ricavare informazioni da enormi database di precedenti successi e insuccessi per prevedere se un nuovo brano musicale può sfondare. Il vantaggio è evidente: per ottenere un contratto non occorre più essere introdotti nell’ambiente, come accadeva una volta. Basta avere una canzone che, sulla scorta dei dati raccolti dalle esperienze trascorse, potrebbe piacere. Ma lo svantaggio è altrettanto chiaro: le canzoni finirebbero per essere insipide e assomigliarsi tutte. Come ha detto Christopher Steiner in Automate This, il suo libro del 2012, queste nuove tecnologie «ci possono portare nuovi artisti, ma dato che basano il giudizio su quel che era piaciuto in passato, finiranno col proporci la solita musica banale che conoscevamo. Uno dei punti deboli della tecnologia è che tra i dati che analizza ci sono anche anni e anni di musica mediocre».

Il supercomputer Watson dell’Ibm sta già analizzando migliaia di documenti legali e medici per arrivare a valutazioni che nessun avvocato o docente sarebbe in grado di fare, almeno non basandosi su una tale quantità di informazioni. Se l’obiettivo è studiare quel che si è venduto in passato e, su questa base, cercare di prevedere quel che si venderà nel futuro, Watson potrebbe facilmente allargare il suo campo d’azione alla musica, ai film e ai libri.Purtroppo questo sarebbe un vantaggio per le vendite ma non per l’innovazione culturale. Se allora ci fosse stato un Watson, avrebbe potuto prevedere la nascita della pittura impressionista o della poesia futurista o della Nouvelle Vague al cinema? Avrebbe approvato Stravinsky? Dubito che i Big Data si sarebbero accorti del Dadaismo.

Per comprendere i limiti e i vantaggi degli algoritmi nel contesto della creazione artistica, dobbiamo ricordare che essa è fatta di tre elementi: scoperta, produzione e segnalazione agli utenti. Start up come Fuzz puntano su quest’ultimo fattore — la segnalazione — sperando che qualcuno preferisca ancora essere guidato da esseri umani anziché da algoritmi. FiveBooks applica un metodo simile ai libri. Anche nel suo caso, l’idea è che l’uomo sia preferibile agli algoritmi. Amazon fa molte ottime segnalazioni, ma FiveBooks — con i suoi libri consigliati da Paul Krugman, Harold Bloom e Ian McEwan — si pone su un altro piano. Nelle segnalazioni l’elemento umano e quello matematico possono probabilmente coesistere, almeno nel prossimo futuro: gli utenti possono trovare il giusto equilibrio tra i due. Ma quando si tratta di scoprire nuovi talenti e produrne le opere, le cose sono molto meno facili. Dopotutto, le segnalazioni sono importanti solo se c’è qualcosa di veramente significativo da segnalare. Quando un lavoro artistico viene scelto sulla scia di quanto era già piaciuto e viene creato pensando all’immediato feedback del pubblico, le vendite potranno magari aumentare, ma da tutto questo marketing uscirà qualcosa di veramente innovativo?

Lo scorso dicembre, l’edizione in inglese di «Global Times», giornale cinese pubblicato dal gruppo del «Quotidiano del Popolo », ha pubblicato un articolo sui Bear Warrior, gruppo punk che ha trovato un modo ingegnoso per misurare la reazione del pubblico alle sue canzoni. Il cantante solista è studente presso un’università di Pechino e si sta specializzando in strumenti di precisione. Ha quindi progettato un dispositivo — il «termometro pogo» — che misura l’intensità della danza del pubblico attraverso una serie di sensori applicati alla moquette della sala. I segnali vengono poi trasmessi a un computer che li analizza. Secondo il «Global Times», la band ha scoperto che i fan «cominciavano a muoversi quando entrava in scena la batteria, e ballavano con maggior foga quando il solista cantava su un registro acuto». «Le informazioni — dice il cantante — ci aiutano a capire come migliorare gli spettacoli in modo che il pubblico risponda alla musica secondo le nostre intenzioni». Forse questo sistema li aiuterà amigliorare gli spettacoli, ma come ha fatto la musica punk a diventare così gradevole? Far felice il pubblico deve essere la maggior preoccupazione dei manager, non deimusicisti punk. I Sex Pistols avrebbero usato quel tappeto solo in un modo e, vi assicuro, senza valersi di sensori. Ma i Sex Pistols, senza pensare al feedback, hanno lanciato una rivoluzione, mentre i Bear Warrior, nella migliore delle ipotesi, lanceranno la loro carriera.

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INTERVIEW



Esistono precedenti nel mondo di un movimento nato e cresciuto sul web che raggiunga un successo elettorale di questo livello?
"Ci sono molti esempi di cittadini consultati su come governare o coinvolti in processi decisionali minori ma non mi risultano esempi simili in caso di elezioni politiche. Credo che i partiti Pirata in Svezia e Germania abbiano sperimentato metodi simili, anche se non su questa scala".

Perché è successo in Italia, perché ora?
"Sarei cauto nell'attribuire un ruolo eccessivo alla cultura di Internet in tutto questo. Se parliamo di partiti nuovi nati dal nulla e che in tre anni diventano così popolari - allora sì, ce ne sono altri, e alcuni di questi esempi sono piuttosto orribili. Ora, non per aderire a strani determinismi - non sto dicendo che Internet non ha contato nulla - ma la risposta al perché in Italia, perché adesso ha a che fare con i problemi strutturali della politica e dell'economia italiane più che con le trasformazioni rivoluzionarie suscitate da Internet. Ovviamente, Grillo e i suoi luogotenenti non vogliono essere visti come un partito marginale con programmi ambigui: i paragoni storici, purtroppo, non giocano in loro favore e incuterebbero paura. Così preferiscono giocare la carta di Internet e pretendere di essere solo la naturale e inevitabile conseguenza dell'"era di Internet". Ma io penso che tutto questo parlare di 'era' - lo Zeitgeist e lo spirito di Internet - sia in gran parte privo di senso".

Il motto di funzionamento del movimento è "uno vale uno": niente leader, consultazione diretta su ogni questione, nessuna identificazione destra/sinistra, capacità professionali opposte a professionismo della politica. E' un modello che può funzionare - considerando anche lo stato di deterioramento della credibilità della politica italiana?
"Non vivo in Italia e quel che so della vostra politica mi viene dalla lettura di giornali americani, britannici e a volte tedeschi e da qualche amico italiano. Ma anche con queste mie limitate conoscenze, l'ultima volta che me ne sono occupato il M5S aveva un leader - anche piuttosto buffo - e anche un ufficio in una zona piuttosto costosa di Milano. Non è questa una sorta di gerarchia? Ci sono due modi di pensare al M5S: uno è che il loro tentativo di sfuggire alla politica - con i suoi leader e le sue gerarchie - non possa funzionare perché il motivo per cui abbiamo bisogno di leader e gerarchie non sempre ha a che fare con i costi della comunicazione. Qual è il contributo di Internet? Che riduce i costi della comunicazione. Ma i leader e le gerarchie servono a creare carisma e dare un'idea di coesione e credibilità in fase di negoziazione con gli altri partiti. Questo Internet non può cambiarlo: carisma e disciplina non si fanno con i byte. Qualcuno deve pur rispondere ai commenti al blog, non è che se ne vadano da soli.

"Il secondo punto di vista è che questo deliberato tentativo di sfuggire alle caratteristiche della politica - ideologia, negoziazione, prevaricazione occasionale e ipocrisia - può solo peggiorare le cose. Di fronte a una qualsiasi fluttuazione del sistema politico attuale (e il cielo sa quante ce ne possano essere in Italia), l'imperfezione è meglio di un'alternativa che in questo caso potrebbe essere l'eliminazione di ogni spazio di manovra e la sostituzione della politica con una qualche forma di managerialismo o di totalitarismo populista. L'eccellente libro del 1962 di Bernard Crick "In Defence of Politics" ("In difesa della politica", ed. Il Mulino, 1969, ndr) dovrebbe essere distribuito ampiamente in Italia: è il miglior argomento del perché i sogni populisti e tecnocratici di abbandono della politica siano sbagliati".

Molti osservatori in Italia hanno messo in luce il problema dello stretto controllo esercitato da Grillo e da Gianroberto Casaleggio e la mancanza di trasparenza nelle scelte del Movimento, specialmente nel processo di selezione dei candidati e di votazione. Solo gli aderenti di lunga data possono accedere alle piattaforme di voto, mentre il blog di Grillo è lo spazio pubblico in cui il dibattito si svolge in maniera aperta. Qual è la sua opinione su questo modello?
"Non mi sorprende. Ci sono tutta una serie di miti su come funzionano le piattaforme online. Progetti come Wikipedia, Google e Facebook ci hanno insegnato - e anche condizionato - a pensare che funzionano in modo oggettivo, neutrale e del tutto evidente. Ovviamente non è vero: nel caso di un progetto come Wikipedia, sono molte poche le persone - tra loro c'è il suo fondatore Jimmy Wales - che capiscono come funziona davvero. Nessuno conosce tutte le regole che innescano il meccanismo Wikipedia: ce ne sono troppe. Lo stesso per Google: non sappiamo come funzionano i suoi algoritmi e loro hanno resistito a ogni sforzo di renderli esaminabili. Ed ecco cosa accade: abbiamo una serie di caratteristiche di progetti che pensiamo rappresentino "la Rete" e poi trasferiamo queste caratteristiche dentro la Rete stessa in modo che qualsiasi progetto scaturisca dalla Rete ci sembra avere le stesse caratteristiche. Non mi sorprende che il 5Stelle affermi di essere totalmente orizzontale, trasparente e basato sulla Rete nel momento in cui applica alcune di queste caratteristiche. E' così che funziona la cultura di Internet: conoscono il suo linguaggio e i suoi trucchi retorici. Un altro esempio? Twitter. Tutti pensano che sia una piattaforma che permette a chiunque, dalla sua camera da letto, di essere altrettanto influente di un commentatore di grido a proposito del futuro della Rete. Ma anche questo è un mito: la maggior parte dei commentatori della Rete che si dicono ottimisti sul suo futuro compaiono nelle liste di "chi va seguito" - compilate dalla stessa azienda Twitter e che gli permettono di acquisire molti più follower di tutti noi. Per esempio, le persone con cui io ho i miei scontri intellettuali - come Clay Shirky o Jeff Jarvis - hanno molti più follower di me ma non perché sono più divertenti (non lo sono!), ma perché l'azienda Twitter amplifica deliberatamente il loro messaggio. Dunque cosa c'è di così democratico e orizzontale nell'ecosistema dei nuovi media?

"Secondo me molte delle piattaforme online usate per l'impegno politico funzionano più o meno come scatole nere che nessuno può aprire e scrutare. La gente ha l'illusione di partecipare al processo politico senza avere mai la piena certezza che le proprie azioni contano. Non è esattamente un buon modello per la ridefinizione della politica".

L'Italia ha un grosso problema di infrastrutture digitali. Siamo agli ultimi posti in Europa per l'accesso alla banda larga. Questo è compatibile con l'aspirazione a una "democrazia digitale"?
"Non si può dare la colpa a un partito politico se non riesce a raggiungere tutti. Perciò va benissimo che si cerchi di utilizzare questi nuovi metodi adesso piuttosto che tra 15 anni, quando tutti saranno connessi. Il pericolo vero è che i processi amministrativi ed elettorali siano rivisti in modo da rendere impossibile la partecipazione alla politica senza tecnologie digitali. Non penso che possa accadere presto, ma è una possibilità. Ci sono tanti progetti digitali in questo spazio civico e politico e specialmente in questa prima fase esiste una specie di pericoloso discrimine di autoselezione: si organizzano importanti riunioni per decidere le regole con cui procedere e solo chi ci capisce di tecnologia (i geek) partecipano. E naturalmente se sono solo i geek a decidere le prime regole mi preoccupa l'esito di queste piattaforme e progetti".

Come giudica i software open-source per i processi decisionali come Liquid Feedback - o i sistemi di voto elettronico come il metodo Schulze? Sono strumenti utili anche per partiti politici diciamo così, convenzionali?
"Nel mio nuovo libro (che negli Usa esce il 5 marzo) ho un lungo capitolo su Liquid Feedback. E' un tema complesso. Come strumento per condurre focus group all'interno di un partito è uno strumento piuttosto efficace. Il rischio nasce quando piattaforme di questo tipo vengono lanciate come strumenti nuovi per far politica - tipo cittadini che delegano i loro voto ad altri cittadini su questioni di cui sanno poco. Non credo molto nella delega a questo livello. Nel libro in realtà ricordo che alcune di queste aspirazioni esistevano già negli anni Sessanta - almeno negli Usa, con la Rand Corporation - quando molti consiglieri politici tecnlogici pensavano che - attraverso il telefono e le tv via cavo - i cittadini sarebbero stati capaci di delegare i proprio voti a persone più competenti. Come ho già detto, questa visione nasce dall'idea che il problema da risolvere siano i costi della comunicazione e si cerca nelle tecnologie il salvatore. Se invece non pensassimo che il motivo per cui la politica opera nel modo in cui opera è legato ai limiti della comunicazione, allora avremmo una visione più sensata di quel che la tecnologia può darci. Ora negli Usa abbiamo un grande problema di uso massiccio di big data e micro-targetting, specialmente sulla Rete, perché i politici e i partiti presto saranno in grado di fare promesse ritagliate su misura dell'individuo a tutti noi - facendo leva sulle nostre paure e i nostri desideri più profondi - e ovviamente li voteremo più volentieri grazie a questa strategia. Non sono sicuro che valga la pena costruire una società in cui gli elettori ricevono promesse personalizzate - che nessuno potrà mai soddisfare. Eppure questa è la direzione. Una delle attrattive del vecchio e inefficiente sistema dei media - in cui un partito doveva formulare un messaggio universale mirato a tutti coloro che lo ascoltassero - era che costringeva i politici a prendere sul serio le proprie ideologie. Dovevano suonare coerenti, assicurarsi che le proprie posizioni non si sfaldassero. In un mondo in cui nessuno può controllare i messaggi personalizzati che i politici inviano ai singoli elettori non c'è bisogno di essere coerenti o di sforzarsi di formulare un'idea. E' pericoloso".

L'Italia si trova anche al centro della grande crisi dell'eurozona, con potenziali forti impatti internazionali. Per la prima volta c'è un "movimento digitale" non assimilabile a un partito tradizionale che ha una grande forza in Parlamento. Questo pone una sfida anche alle controparti internazionali, in termini di approccio diplomatico, relazioni, linguaggio?
"Di nuovo, io non vivo in Italia. Non so esattamente cosa significhi 'movimento digitale'. Possiamo chiamarlo 'movimento di dilettanti'? Posso capire perché per esempio il partito Pirata in Germania venga chiamato 'movimento digitale' - non si occupano di altro che non sia la libertà della Rete, la riforma del copyright ecc. Sono tutte questioni tecnologiche, da geek, che la maggior parte della gente chiamerebbe 'digitali'. Se parliamo del M5S non è questo il caso: non so se abbiano posizioni su questioni digitali ma non è questo il motivo per cui la gente ne è attirata. La Rete, nella loro retorica, gioca solo un ruolo di grande legittimatore del loro dilettantismo e della loro attitudine profondamente anti-politica. Dicono di manifestare ciò che un partito politico dovrebbe essere nell'"era della Rete" e ciò mi insospettisce molto perché - di nuovo - non penso che il funzionamento dei partiti si possa spiegare solo in termini di costi della comunicazione.

"Ci sono buoni motivi per cui abbiamo bisogno di gerarchie e di leader che parlino il linguaggio della politica e giochino il gioco fino in fondo: le inefficenze della politica, per usare un linguaggio da computer, non sono un bug (un difetto) ma una feature (una funzione). Per me il test è semplice: dimentichiamoci per un momento che stiamo vivendo una "rivoluzione digitale" e cerchiamo di cimentarci sugli argomenti dei movimenti come il 5 Stelle, basandoci su quel che sappiamo di filosofia e teoria politica. Queste argomentazioni, secondo me, non reggerebbero un'ora di seria discussione in un rigoroso seminario di Scienze Politiche di base. L'unico motivo per cui passano per seri è perché sono ammantati della retorica emancipatoria del sublime digitale. Quanto ai leader internazionali, beh ci sono moltissimi partitini in crescita in Europa: in Olanda, in Gran Bretagna, forse in Grecia. Non sono stati altrettanti bravi nell'utilizzo della retorica di Internet - forse non sono guidati da blogger - ma presto capiranno come fare. Basta guardare a Nigel Farage, tra i leader dell'Uk Independence Party e tra i maggiori euroscettici britannici nel Parlamento europeo. Un uomo che ha usato bene YouTube per le sue operazioni mediatiche e ora ha un seguito pan-europeo. Gli manca qualche ingrediente retorico - "democrazia della Rete" e "consultazioni online" - poi prenderà il volo. Nelle recenti elezioni amministrative britanniche, l'Ukip ha preso rapidamente terreno, il che indica che stanno imparando questo gioco".

In un paese a lungo dominato da un mogul della Tv, l'avvento di un movimento di cittadini informati che rifiutano ogni interazione con i media tradizionali può anche essere visto come un segno di cambiamento sano, l'indicazione di una nuova generazione pronta ad impegnarsi....
"Bè, l'Italia è un caso particolare, ne convengo. Non ho interesse particolare a difendere la Tv e certo non quella italiana - la maggior parte è orribile e renderla un attore meno rilevante nella sfera pubblica è di certo un bel cambiamento. Detto ciò, voi avete ancora buoni giornali, una buona industria editoriale (con un pubblico di lettori tra i più acuti d'Europa, l'accesso a forse il maggior numero di lavori tradotti di tutti i paesi d'Europa) e una delle migliori culture di festival d'Europa. Per cui certo, la televisione non è il meglio ma avete un sacco di altre cose di cui essere orgogliosi. E Internet può mettere a repentaglio queste altre attività e il loro patrimonio culturale e intellettuale? Temo di sì. Odio generalizzare su termini come 'Internet' - ci sono un sacco di risorse buone e utili online, e tante stupidaggini. Ma non voglio assumere per principio che solo perché i giovani tendono a leggere i blog più che a guardare la tv sia necessariamente una cosa positiva. Ci sono tante altre cose buone da leggere!".

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(repubblica.it)

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