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I recenti eventi di Ferguson, il quartiere della città di St. Louis in Missouri, Stati Uniti, dove la polizia locale ha ucciso Michael Brown, un ragazzo nero di 18 anni, portano alla mente altre importanti risposte della comunità artista nera. Nel 1972 si tenne ai Coliseum di Los Angeles lo storico Wattstack, evento passato alla storia come la Black Woodstock: era il 20 agosto e sette anni dalle drammatiche rivolte di Watts, il quartiere ghetto di Los Angeles. Il concerto fu organizzato dalla Stax, etichetta black fondata da due impresari bianchi nota per aver privileggiato band interetniche (Booker T. & the M.G.‘s) e aver lavorato su un suono più soul (Rufus Thomas, Otis Redding) e radicale (Isaac Hayes) rispetto, ad esempio, a quello "black pop" lanciato dalla Motown. Le caratteristiche della label si strutturarono ulteriormente sotto la direzione di Al Bell a cui si deve il lancio di nomi come The Stapies Singers o Isaac Hayes che insieme ad Albert King, Rufus e Carla Thomas e il rev. Jesse Jackson parteciparono
al festival. L’idea fu proprio di Bell che puntava ad attirare l'attenzione sul locale Watts Summer Festival e a "creare, motivare e instillare un senso di orgoglio nei cittadini della comunita di Watts". Parteciparono oltre 100mila persone con bighetti a un euro ciascuno: tutti, ricchi e poveri, dovevano esserci. Un anno dopo usci l’altrettanto storico documentario girato da Mel Stuart con irresistibili interviste (anche a Richard Pryor) tra le canzoni. Il film, considerato troppo di parte, politico e nero, non ebbe ampia distribuzione. Imperdibile.
F.A.
Ma da dove arriva questo modo di dire, questo che ormai era (ed è) quasi un marchio, una definizione usata con e per disprezzo? Me lo sono sempre chiesto e ora arriva il bel articolo di A. Colombo sul Manifesto a chiarirci le idee e a raccontare la genesi di Radical - Chic, il famoso articolo pubblicato da Tom Wolfe sul New York Magazine nel giugno 1970 e ora riproposto in un libro da Castelvecchi, una delle case editrici più apprezzate da queste parti..
Quando, il 4 gennaio 1970, Leonard Bernstein, celebrato compositore e direttore d’orchestra, e sua moglie Felicia organizzarono nel loro lussuoso appartamento di Park Avenue un party di sostegno al «Black Panther Party», con tanto di pantere doc in giacca di pelle e occhialoni scuri a presenziare, non immaginavano che la simpatica serata, oltre a procuragli tonnellate di guai social-mondani, avrebbe regalato al mondo una definizione destinata a sopravvivere per decenni e a tutt’oggi in voga: radical-chic. La fortuna di una definizione appropriata la si misura facilmente: basta considerare quanti uomini e donne la la adoperano senza immaginare da dove provenga, o sapendolo solo per sentito dire. Quanti tra gli innumerevoli che dopo quella serata hanno bollato qualcuno accusandolo con adeguato disprezzo di essere «radical-chic» avranno mai davvero letto il fulminante articolo dedicato da Tom Wolfe all’evento politico-mondano?
Già pubblicato in Italia anni fa ma ormai introvabile, il celebre pezzo uscito sul New York Magazine nel lontanissimo giugno 1970, These Evenings Radical Chic, è di nuovo a disposizione insieme al suo pezzo gemello, ambientato però sull’altra costa, «Mau-mauizzando i parapalle». Lo pubblica Castelvecchi riassumendo giustamente il tutto col secco titolo Radical Chic: 135 smilze pagine che valgono fino all’utimo centesimo i 12 euro che ti costano.
All’epoca Tom Wolfe era un giornalista elegante, eccentrico e affermato, ma ancora distante dall’icona del new journalism e poi dallo scrittore eccezionale che sarebbe diventato. Aveva scritto alcuni articoli che dire brillanti è poco sulla cultura pop, riassunti nel volume La baby aerodinamica kolor karamella, e un capolavoro, L’acid-test al rinfrescko elettriko, che coglie e restituisce la controcultura hippie dei Sixties, Ken Kesey, i Pranksters e il loro leggendario autobus, gli acid-test, la nascita dei Grateful Dead, come più nessuno ha fatto. E che a riuscirci sia stato un giornalista che non aveva mai ingoiato un acido in vita sua prova quanto speciale fosse il suo talento. In Italia è fuori commercio dai Sessanta, e vedi mai che Castelvecchi, che del Wolfe giornalista ha già ripubblicato molto, facesse l’opera buona di resuscitarlo.
Raccontando lo scandaloso party, subito rimbalzato nelle cronache e negli editoriali da un capo all’altro degli states, Wolfe addenta fino all’osso i suoi soggetti, gli straricchi di Park Avenue ammaliati dal fulgore abbagliante ma effimero di quella rivoluzione. Immortala contraddizioni macroscopiche, vezzi ridicoli, tic grotteschi. Però non cede mai alla cattiveria, non si lascia tentare dal sarcasmo facile della stroncatura, non ricorre neppure in una virgola alla perfidia della denuncia moralista.. Prende sul serio il mondo che descrive. Inserisce l’ascesa del radical-chic nella storia sociale di New York, ne rintraccia la genealogia e ne spiega le ragioni. L’impossibile radicalismo dei privilegiati non è solo una questione di moda passeggera, non è faccenda da «Oddio, c’è la rivoluzione e io non so cosa mettermi», come nella versione italiana del radicalismo chic riassunta all’epoca in una celebre vignetta. Ha le sue motivazioni profonde, riflette una stratificazione sociale e accompagna un cambio della guardia ai vertici della piramide mondana newyorchese che provoca conflitti che possono far ridere ma non privi di sincera drammaticità.
Non a caso, a guidare la tendenza sono gli ebrei, gruppo etnico-sociale che ancora alla fine dei Sessanta coniugava, come eredità dell’apartheid di fatto subito nella scala sociale ma non in quella economica, lo stile di vita della upper class con una ideologia ancora fortemente attenta ai diritti civili e sociali. Ostentando uno stile falsamente superficiale, Wolfe scava invece nelle specificità e nella conflittualità latente di una società multietnica, per concludere che i nababbi prestati alla rivoluzione sono sinceri sia quando si infiammano per le pantere o per i loro gemelli portoricani, gli «Young Lords», sia quando si scalmano per trovare una seconda baby sitter nel giorno di libertà della prima. E se l’ansia di trovare domestici bianchi, per non urtare i sentimenti dei rivoluzionari neri, è grottesca, nel complesso i ricchissimi radicali di Uptown risultano figure a modo loro tragiche.
È la prova generale di quello che sarà 17 anni più tardi il primo e migliore romanzo del Tom Wolfe autore Il falò delle vanità, dove il giornalista-scrittore-dandy rivelerà i segreti della New York yuppie con identica capacità di descrivere e raccontare senza indulgere ma anche senza giudicare, prendendo sul serio e persino rispettando le stesse figure delle quali evidenzia impietoso i limiti grotteschi. Del disprezzo di cui oggi carichiamo l’accusa di sciccheria-radical, nel testo originale non c’è traccia.
Ma per quanto a tutt’oggi frequentemente adoperata, la brillante definizione inventata dal giornalista dandy sempre vestito in bianco è probabilmente sopravvissuta a se stessa, anche se non si esclude che possa ritornare in voga. Ma sarà storia di domani: al momento nulla è più fuori moda del radicalismo. Il moderatismo, sopratutto a sinistra, ha preso il suo posto. Fa tendenza. Detta le regole di ciò che può essere detto, e pensato, mostrando buon gusto, e lo distingue dalle parole e dalle idee che ti bollano senza appello di anticaglia poco presentabile in società.
Gli stessi ambienti, se hanno l’età giusta le medesime persone, che avevano alimentato all’epoca la voga radical chic insisteranno oggi, con aria non meno ispirata, sulle meraviglie del moderatismo, sulla necessità, per una sinistra non giurassico e volgare, di accettare le diseguaglianze, riconoscere che i diritti sociali e in particolare quelli del lavoro sono spesso, se non sempre, una sacca di resistenza contro la smaliziata modernità. Non è che proprio lo pensino, è che, appunto, solo il moderatismo lo sfoggi in società senza fare la figura del cafone. È sempre sciccheria, figurarsi, antica come il mondo. Ma senza quella contraddizione, in fondo reale, che restituiva qualche dignità persino agli ospiti del maestro Leonard Bernstein, in quella serata newyorchese del gennaio 1970.
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