19/09/14

Wattstack: Questa sera..Radical - Chic!

Felicia-Leonard Bernstein-Donald-Cox-NYC-1970
I recenti eventi di Ferguson, il quartiere della città di St. Louis in Missouri, Stati Uniti, dove la polizia locale ha ucciso Michael Brown, un ragazzo nero di 18 anni, portano alla mente altre importanti risposte della comunità artista nera. Nel 1972 si tenne ai Coliseum di Los Angeles lo storico Wattstack, evento passato alla storia come la Black Woodstock: era il 20 agosto e sette anni dalle drammatiche rivolte di Watts, il quartiere ghetto di Los Angeles. Il concerto fu organizzato dalla Stax, etichetta black fondata da due impresari bianchi nota per aver privileggiato band interetniche (Booker T. & the M.G.‘s) e aver lavorato su un suono più soul (Rufus Thomas, Otis Redding) e radicale (Isaac Hayes) rispetto, ad esempio, a quello "black pop" lanciato dalla Motown. Le caratteristiche della label si strutturarono ulteriormente sotto la direzione di Al Bell a cui si deve il lancio di nomi come The Stapies Singers o Isaac Hayes che insieme ad Albert King, Rufus e Carla Thomas e il rev. Jesse Jackson parteciparono al festival. L’idea fu proprio di Bell che puntava ad attirare l'attenzione sul locale Watts Summer Festival e a "creare, motivare e instillare un senso di orgoglio nei cittadini della comunita di Watts". Parteciparono oltre 100mila persone con bighetti a un euro ciascuno: tutti, ricchi e poveri, dovevano esserci. Un anno dopo usci l’altrettanto storico documentario  girato da Mel Stuart con irresistibili interviste (anche a Richard Pryor) tra le canzoni. Il film, considerato troppo di parte, politico e nero, non ebbe ampia distribuzione. Imperdibile.
F.A.




Ma da dove arriva questo modo di dire, questo che ormai era (ed è) quasi un marchio, una definizione usata con e per disprezzo? Me lo sono sempre chiesto e ora arriva il bel articolo di A. Colombo sul Manifesto a chiarirci le idee e a raccontare la genesi di Radical - Chic, il famoso articolo pubblicato da Tom Wolfe sul New York Maga­zine nel  giu­gno 1970 e ora riproposto in un libro da Castelvecchi, una delle case editrici più apprezzate da queste parti..



Quando, il 4 gen­naio 1970, Leo­nard Bern­stein, cele­brato com­po­si­tore e diret­tore d’orchestra, e sua moglie Feli­cia orga­niz­za­rono nel loro lus­suoso appar­ta­mento di Park Ave­nue un party di soste­gno al «Black Pan­ther Party», con tanto di pan­tere doc in giacca di pelle e occhia­loni scuri a pre­sen­ziare, non imma­gi­na­vano che la sim­pa­tica serata, oltre a pro­cu­ra­gli ton­nel­late di guai social-mondani, avrebbe rega­lato al mondo una defi­ni­zione desti­nata a soprav­vi­vere per decenni e a tutt’oggi in voga: radical-chic. La for­tuna di una defi­ni­zione appro­priata la si misura facil­mente: basta con­si­de­rare quanti uomini e donne la la adoperano senza imma­gi­nare da dove pro­venga, o sapen­dolo solo per sen­tito dire. Quanti tra gli innumerevoli che dopo quella serata hanno bol­lato qual­cuno accu­san­dolo con ade­guato disprezzo di essere «radical-chic» avranno mai dav­vero letto il ful­mi­nante arti­colo dedi­cato da Tom Wolfe all’evento politico-mondano?

Già pub­bli­cato in Ita­lia anni fa ma ormai intro­va­bile, il cele­bre pezzo uscito sul New York Maga­zine nel lon­ta­nis­simo giu­gno 1970, These Eve­nings Radi­cal Chic, è di nuovo a dispo­si­zione insieme al suo pezzo gemello, ambien­tato però sull’altra costa, «Mau-mauizzando i para­palle». Lo pub­blica Castel­vec­chi rias­su­mendo giu­sta­mente il tutto col secco titolo Radi­cal Chic: 135 smilze pagine che val­gono fino all’utimo cen­te­simo i 12 euro che ti costano.
All’epoca Tom Wolfe era un gior­na­li­sta ele­gante, eccen­trico e affer­mato, ma ancora distante dall’icona del new jour­na­lism e poi dallo scrit­tore ecce­zio­nale che sarebbe diven­tato. Aveva scritto alcuni arti­coli che dire bril­lanti è poco sulla cul­tura pop, rias­sunti nel volume La baby aero­di­na­mica kolor kara­mella, e un capolavoro, L’acid-test al rin­fre­scko elet­triko, che coglie e resti­tui­sce la con­tro­cul­tura hip­pie dei Six­ties, Ken Kesey, i Prank­sters e il loro leg­gen­da­rio auto­bus, gli acid-test, la nascita dei Gra­te­ful Dead, come più nes­suno ha fatto. E che a riu­scirci sia stato un gior­na­li­sta che non aveva mai ingo­iato un acido in vita sua prova quanto spe­ciale fosse il suo talento. In Ita­lia è fuori com­mer­cio dai Ses­santa, e vedi mai che Castelvec­chi, che del Wolfe gior­na­li­sta ha già ripub­bli­cato molto, facesse l’opera buona di resu­sci­tarlo.

Rac­con­tando lo scan­da­loso party, subito rim­bal­zato nelle cro­na­che e negli edi­to­riali da un capo all’altro degli sta­tes, Wolfe addenta fino all’osso i suoi sog­getti, gli stra­ric­chi di Park Ave­nue amma­liati dal ful­gore abbagliante ma effi­mero di quella rivo­lu­zione. Immor­tala con­trad­di­zioni macro­sco­pi­che, vezzi ridi­coli, tic grot­te­schi. Però non cede mai alla cat­ti­ve­ria, non si lascia ten­tare dal sar­ca­smo facile della stron­ca­tura, non ricorre nep­pure in una vir­gola alla per­fi­dia della denun­cia mora­li­sta.. Prende sul serio il mondo che descrive. Inse­ri­sce l’ascesa del radical-chic nella sto­ria sociale di New York, ne rin­trac­cia la genea­lo­gia e ne spiega le ragioni. L’impossibile radi­ca­li­smo dei pri­vi­le­giati non è solo una que­stione di moda pas­seg­gera, non è fac­cenda da «Oddio, c’è la rivo­lu­zione e io non so cosa met­termi», come nella ver­sione ita­liana del radicalismo chic rias­sunta all’epoca in una cele­bre vignetta. Ha le sue moti­va­zioni pro­fonde, riflette una stra­ti­fi­ca­zione sociale e accom­pa­gna un cam­bio della guar­dia ai ver­tici della pira­mide mon­dana new­yor­chese che pro­voca con­flitti che pos­sono far ridere ma non privi di sin­cera dram­ma­ti­cità.
Non a caso, a gui­dare la ten­denza sono gli ebrei, gruppo etnico-sociale che ancora alla fine dei Ses­santa coniu­gava, come ere­dità dell’apartheid di fatto subito nella scala sociale ma non in quella eco­no­mica, lo stile di vita della upper class con una ideo­lo­gia ancora for­te­mente attenta ai diritti civili e sociali. Osten­tando uno stile fal­sa­mente super­fi­ciale, Wolfe scava invece nelle spe­ci­fi­cità e nella con­flit­tua­lità latente di una società mul­tiet­nica, per con­clu­dere che i nababbi pre­stati alla rivo­lu­zione sono sin­ceri sia quando si infiam­mano per le pan­tere o per i loro gemelli por­to­ri­cani, gli «Young Lords», sia quando si scal­mano per tro­vare una seconda baby sit­ter nel giorno di libertà della prima. E se l’ansia di tro­vare dome­stici bian­chi, per non urtare i sentimenti dei rivo­lu­zio­nari neri, è grot­te­sca, nel com­plesso i ric­chis­simi radi­cali di Uptown risul­tano figure a modo loro tra­gi­che.

È la prova gene­rale di quello che sarà 17 anni più tardi il primo e migliore romanzo del Tom Wolfe autore Il falò delle vanità, dove il giornalista-scrittore-dandy rive­lerà i segreti della New York yup­pie con iden­tica capa­cità di descri­vere e rac­con­tare senza indul­gere ma anche senza giu­di­care, pren­dendo sul serio e per­sino rispet­tando le stesse figure delle quali evi­den­zia impie­toso i limiti grot­te­schi. Del disprezzo di cui oggi carichiamo l’accusa di sciccheria-radical, nel testo ori­gi­nale non c’è trac­cia.
Ma per quanto a tutt’oggi fre­quen­te­mente ado­pe­rata, la bril­lante defi­ni­zione inven­tata dal gior­na­li­sta dandy sem­pre vestito in bianco è pro­ba­bil­mente soprav­vis­suta a se stessa, anche se non si esclude che possa ritornare in voga. Ma sarà sto­ria di domani: al momento nulla è più fuori moda del radi­ca­li­smo. Il mode­ra­ti­smo, sopra­tutto a sini­stra, ha preso il suo posto. Fa ten­denza. Detta le regole di ciò che può essere detto, e pen­sato, mostrando buon gusto, e lo distin­gue dalle parole e dalle idee che ti bol­lano senza appello di anticaglia poco pre­sen­ta­bile in società.

Gli stessi ambienti, se hanno l’età giu­sta le mede­sime per­sone, che ave­vano ali­men­tato all’epoca la voga radical chic insi­ste­ranno oggi, con aria non meno ispi­rata, sulle mera­vi­glie del mode­ra­ti­smo, sulla neces­sità, per una sini­stra non giu­ras­sico e vol­gare, di accet­tare le dise­gua­glianze, rico­no­scere che i diritti sociali e in par­ti­co­lare quelli del lavoro sono spesso, se non sem­pre, una sacca di resi­stenza con­tro la sma­li­ziata moder­nità. Non è che pro­prio lo pen­sino, è che, appunto, solo il mode­ra­ti­smo lo sfoggi in società senza fare la figura del cafone. È sem­pre scic­che­ria, figu­rarsi, antica come il mondo. Ma senza quella con­trad­di­zione, in fondo reale, che resti­tuiva qual­che dignità per­sino agli ospiti del mae­stro Leo­nard Bern­stein, in quella serata new­yor­chese del gen­naio 1970.

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