Marchi, elaborazioni grafiche, simboli, immagini. Grazie al contenuto espressivo e alla capacità di sintesi sono in grado di scuotere, coinvolgere e mobilitare le masse. La cultura delle multinazionali impiega sempre più forze e denaro sul logo e sulla proposta di una serie di valori immateriali ed ideali da collegare ad esso, mentre le le tecniche di branding sono in continuo cambiamento: si cerca in tutti i modi di mettere in campo un immaginario simbolico per attrarre e sedurre, con lo scopo finale di rendere sempre più fedele i clienti e creare così una propria fetta di monopolio. Intanto cultura del marketing si espande anche fuori dalle aziende, in luoghi un tempo protetti come le scuole, i musei e i parchi, producendo gadget e false speranze.
Le aziende sembrano sfornare ormai marchi, e non prodotti. Molte aziende che prima producevano nelle loro fabbriche e avevano
tanti dipendenti a tempo indeterminato
hanno chiuso le fabbriche, affidato la produzione a una rete di
appaltatori e subappaltatori e hanno investito nel design e nel
marketing necessari a diffondere il più possibile la loro grande idea, il loro brand. (modello Nike)
Altre aziende hanno scelto invece di conservare un
nucleo strettamente controllato di azionisti-dipendenti che gestiscono
“l’attività centrale” dell’azienda ed esternalizzare tutto il resto,
dalla gestione della posta alla scrittura del codice informatico,
affidandolo a lavoratori precari. (modello Microsoft) Alcuni le hanno chiamate hollow Corporation,
imprese vuote, perché queste aziende ristrutturate sembrano avere un
unico obiettivo: trascendere il mondo fisico per trasformarsi in un
marchio incorporeo. Come ha detto l’esperto di gestione aziendale Tom
Peters: “È da stupidi possedere cose!”. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano, molto lontano, abbracciando non solo i settori della pubblicità, (grafica, arte..), ma dell'economia, della politica, della morale..e che sicuramente affronteremo. Parliamo invece del mondo del pop e del rock, che vive si di musica ma anche di apparenza: la musica oggi non solo si ascolta, ma si vive e si indossa, e in molti casi contribuisce a creare un mondo parallelo in cui riconoscersi. Alcuni dei marchi di artisti rock sono diventati veri e propri brand mondiali, con un valore artistico e commerciale straordinario..
BLACK FLAG
Semplice, ma memorabile. Il logo dei Black Flag é uno di quei simboli la cui popolarità ha di gran lunga oscurato la fama della band a cui faceva riferimento. Il gruppo nacque in California nel 1976 e si sciolse dieci anni dopo (andrebbe steso un velo pietoso sulle successive reunion). Furono anni turbolenti. Guidati dal chitarrista Greg Ginn e caratterizzato da una line up totalmente instabile, i ”bandiera nera”, che a dispetto del nome erano anarchici antifascisti, dal 1981 ebbero come frontman Henry Rollins e divennero una forza dirompente nella nascente scena hardcore americana. Il loro segno distintivo era un punk isterico ed eclettico contaminato dal jazz. Le loro esibizioni live finivano quasi regolarmente in rissa. ll loro simbolo divenne inconfondibile: 4 barre nere parallele, uguali in altezza e larghezza, ma non allineate e leggermente spostate una rispetto all'altra. I Black Flag furono il primo vero brand dell'hardcore punk. Presentavano i loro concerti con locandine disegnate che oggi fanno pane della storia iconografica del rock. Erano disegni dissacranti, vignette comiche o grottesche che se la prendevano con i benpensanti, la società borghese, la religione, la polizia e che sembravano preannunciare che dove c’erano i Black Flag c’erano guai in vista. L’immaginario della band fu una delle scelte vincenti del gruppo ed era il prodotto della fantasia tormentata di uno di loro, membro-ombra: Raymond Ginn. Fratello di Greg, era stato uno dei fondatori del gruppo di cui fu per breve tempo il bassista. Lasciò presto gli strumenti per dedicarsi all'arte e alla grafica con il nome di Raymond Pettibon. Da lui nascevano le locandine dei concerti e le copertine dei dischi. Fu lui a inventare lo storico logo che non rappresenta come tutti pensano quattro barre, bensì una bandiera nera mossa dal Vento. Pettibon ha poi flrmato negli anni decine di copertine di lp, la sua più celebre é forse quella di Goo lo storico album dei Sonic Youth del 1990. E’ ormai un nome noto nel mondo dell'arte contemporanea e ha esposto nei maggiori musei d'arte moderna e alla Biennale di Venezia. Al suo lavoro é stato dedicato anche un breve documentario realizzato dal Museum of Contemporary Art di Los Angeles. “Ancora prima di sapere chi fossero i Black Flag” dice Flea dei Red Hot Chili Peppers in una scena del corto – “mi ricordo che camminavo per le strade di Hollywood e vedevo le loro locandine e mi chiedevo: ma che cazzo sono? Questa é roba pesante”. Si narra che il logo dei Black Flag sia uno dei tatuaggi I' rock più riprodotti in assoluto. Esiste un intero libro fotografico, intitolato Barred for Lyfe che raccoglie storie e foto di chi ha scelto di marchiarsi a vita con il simbolo della band. Tra le celebrità che hanno sulla pelle il marchio, oltre a Henry Rollins, Dave Grohl (che se lo fece da solo a 12 anni), Bryan Adams, Frank Tumer e gli attori Edward Norton e Johnny Depp.
LA MELA DEI BEATLES
Il logo ufficiale dei Beatles, quello con la B maiuscola e la T allungata, nacque per puro caso. Fu Ivor Arbiter, gestore del negozio di strumenti musicali Drum City di Londra a metterlo giù di fretta quando vendette, nel 1963, una batteria a Ringo Star. Schizzò il logo perché la band aveva espressamente richiesto, qualora fosse comparso in evidenza il nome della batteria (una Ludwig) che ci fosse anche il nome del gruppo. Arbiter scrisse su un pezzo di carta Beatles e mise in risalto la B e la T per enfatizzare il “beat”. Vendette la batteria a Ringo. Per l'ideazione grafica passò alla storia, ma non divenne ricco visto che intascò un extra di appena 5 sterline. Ma c’è un altro logo, oggi onnipresente, per cui i Beatles sono forse responsabili: quello della mela. La Apple, ideatrice di iPhone e iPad è oggi un‘azienda che raggiunge una capitalizzazione di 400 miliardi di dollari. Nel 1968 la Apple Electronics era una divisione della Apple Corps Ltd: fondata dai Fab Four. Il legame tra i due marchi è stato a lungo dibattuto, anche in ambienti legali. I Beatles si trovarono “costretti” a fondare un'azienda dopo una consulenza fiscale che spiegò come creare un proprio marchio di business avrebbe fatto loro risparmiare due milioni di sterline. Nacque cosi, nel 1967, la Beatles Ltd. Paul McCartney però penso che fondare qualcosa dal nulla fosse come tornare all'abc e quindi, ripescando tra i suoi ricordi d'infanzia, immaginò qualcosa di estremamente semplice: <<A come Apple>>. Per il logo McCartney si ispirò ai quadri di René Magritte La camera d’ascolto e Il figlio dell'uomo che rappresentano mele verdi. Il disegno fu alla fine fatto da Gene Mahon, un designer pubblicitario, in collaborazione con l'illustratore Alan Aldridge, autore di tanti disegni beatlesiani. Nel gennaio 1968 la Beatles Ltd. diventava `ufficialmente la Apple Corps Ltd. e il marchio della mela venne registrato in 47 paesi e in tutte le sue possibili declinazioni tra cui anche la Apple Electronics. Di fatto fini per istoriare soprattutto i dischi dei Beatles, ma come tutte le cose prodotte dal quartetto entrò nel mito. Il primo aprile del 1976 a Cupertino in California nasceva la Apple Computer Company fondata da due giovani genietti dell’informatica Steve Jobs e Steve Wozniak con l’imprenditore Ronald Wayne. I due Steve erano fan dei Beatles, ma l'idea della mela, si disse, veniva dalle manie dietetiche di Jobs. Non appena la Apple emerse come azienda promettente lo scontro legale con la mela beatlesiana fu quasi inevitabile. Nel 1981 un primo accordo fu stipulato con il pagamento da parte di Steve Jobs e soci di 80 mila dollari e la promessa di starsene fuori dal mercato musicale. Con I Tunes alla fine la Apple è diventata il mercato musicale e si é mangiata la mela sempreverde dei Beatles. Dal 2007 la compagnia fondata dai Fab Four ha dato in licenza i marchi alla compagnia californiana.
LA LINGUA DEI ROLLING
Quando i Rolling Stones decisero di identificarsi con un logo, i Beatles erano già storia e loro, rimasti la più grande rock band del pianeta, cercarono di dare un marchio alla loro leggenda. Gli Stones non erano soddisfatti dal design troppo blando che la loro casa discografica dell'epoca, la Decca, gli imponeva e cercavano qualcosa che li distinguesse. Jagger si rivolse cosi al Royal College of Arts di Londra dove incontrò uno studente che stava conseguendo un Master of Arts. ll giovane artista, chiamato John Pasche, appena vide di persona il rocker rimase visivamente impressionato dai tratti del volto e dalla sua caratteristica più celebre, la bocca smisurata. Da quel momento per l’illustratore fu un gioco da ragazzi. La caricatura della bocca e della lingua di Mick era un misto di sensualità, ironia e ribellione e divenne la nuova firma della band che in quel periodo si era definitivamente staccata dalla Decca e aveva fatto nascere una propria etichetta, la Rolling Stone Records. Il disegno fu stampato per la prima Volta all'interno del disco Sticky Fingers, il celebre album con la zip in copertina, e accompagnerà il gruppo fino ad oggi diventando un brand universale che ha dato anche fortuna commerciale al costosissimo merchandising degli Stones. John Pasche divenne negli anni Settanta uno dei grafici di riferimento della scena rock firmando i poster delle tournée dei Rolling Stones nei primi anni Settanta, ma anche copertine e locandine per band come The Stranglers, The Who, Judas Priest, Art of Noise e Jethro Tull. Il disegno originale del logo fu acquistato a un'asta negli Stati Uniti per 92.500 dollari nel settembre del 2008 a un'asta dal Victoria and Albert Museum di Londra dove oggi è esposto. <<E un logo iconico – ha detto uno dei responsabili del museo - uno dei più dinamici e innovativi loghi mai creati. Un'opera di un artista inglese per una band inglese. E’ bello che abbia trovato ora la sua definitiva casa a Londra>>.
Un logo celebre come quello di tante rock band, ma appartenuto a un locale. Il Cbgb é stato, dagli anni Settanta fino al decennio scorso, il tempio underground della musica newyorkese. L'indirizzo 315 Bowery era il luogo sacro del punk e della new wave americana, la Mecca dell'underground della Grande Mela. Ma nella frizzante scena di Manhattan nessun locale di successo dura in eterno. Nel 2006 ha chiuso i battenti trasforrnandosi in una boutique dello stilista John Varvatos (vedi). La sigla Cbgb vive nella leggenda e in un brand ormai onnipresente sulle magliette dei giovani che oggi frequentano concerti e festival punk. Nel locale tutto era un po' paradossale, si sono consumati concerti epici e risse incontrollabili, ma il posto era nato, nelle intenzioni del fondatore Hilly Kristal, per ospitare “country, bluegrass e blues” da cui lo storico acronimo Cbgb. L'insegna, disegnata da Karen la moglie di Kristal, era una scritta assai vicina a un certo clima western e sarebbe stata perfetta per un saloon frequentato da cowboy. Ma è diventato un vessillo del punk e un marchio che riporta all'età dell'oro della ribellione rock newyorkese. Curiosamente il locale sfoggiava un'altra sigla sotto l'acronimo Cbgb: Omfug che significa “Other Music for Uplifting Gormandizers” cioè ‘altra musica per ispirati buongustai’. Insomma un posto per palati fini che amavano gruppi e artisti come Ramones, Patti Smith, Television, Dead Boys, Fleshtones, Cramps, B-52's, Blondie e Talking Heads.
PUBLIC ENEMY E L’UOM0 NEL MIRINO
C'era un'epoca in cui l'hip hop faceva paura. C'era un'epoca in cui i rapper non celebravano se stessi, ma cantavano la rivolta. E il loro simbolo era un uomo in un mirino: il logo dei Public Enemy. L'immagine iconica associata al gruppo rap guidato da Chuck D e Flavor Flav é stato parte della loro leggenda e riassumeva in un sigillo perentorio la loro visione di un`America in cui i giovani neri finivano troppo spesso nella linea di fuoco delle armi delle gang o della polizia. Il logo fu pensato dallo stesso Chuck D. <<Lo disegnai nel 1986 – ha ricordato il rapper -. Ero diplomato in grafica e Io ideai per altre formazioni, ma quando i Public Enemy furono scritturati dalla Def Jam quello divenne il nostro logo. L'artista di New York, Eric Haze lo mise a posto per l'uscita dell'album Yo! Bum Rush the Show nell'87. Per molto tempo il simbolo fu frainteso e si pensò che l'uomo nel mirino fosse un poliziotto, in realtà era un giovane nero vestito alla moda dell'epoca e ricalcato da Chuck sul profilo di E-Love, rapper che faceva parte dell'entourage di LL Cool J. <<All'epoca i b-boy amavano indossare cappelli modello fedora o quelli sportivi della Kangols, io semplicemente ricalcai la silhouette di E-Love da un'immagine presa da una fanzine chiamata Right On. Da quel momento in poi il partito del rap aveva il suo simbolo>>.
G.M.
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