02/02/16

Daniele Luttazzi Vs quella nullità di Andrea Scanzi

Il grande, si..il grande Daniele Luttazzi risponde ad Andrea Scanzi detto "Slurp", uno dei peggiori giornalisti (?!) italiani: ignorante, arrogante, offensivo, fazioso, servile. Lo avevamo già incrociato tempo fà, quando sulle pagine del Mucchio Selvaggio tentava disperatamente di parlare di musica: inconcludente, patetico, noioso. Scanzi e il Rock'n'Roll,  e sembra che Frank Zappa abbia parlato del giornalismo musicale dopo aver letto due righe dello "slurp": <Buona parte del giornalismo rock è gente che non sa scrivere, che intervista gente che non sa parlare, per gente che non sa leggere>. Luttazzi dal suo blog risponde dopo che Scanzi  se le presa con Benigni, reo di essere fiancheggiatore del governo, perchè voterà Sì al referendum che distruggerà la Costituzione, e a una filippica sulla satira che, secondo il nostro, sarebbe ormai defunta. Lasciamo parlare Luttazzi, che ritorna anche sulla censura a cui ancora è sottoposto e alla campagna diffamatoria sui suoi "presunti plagi".

Conosco Andrea Scanzi da quando era un giovane giornalista di belle speranze che scriveva di musica sul Mucchio Selvaggio e seguiva tutte le date toscane dei miei tour. Lo ricordo, con la dolce Linda, ospite squisito nella loro bella villa di Rigutino (AR). Un giorno mi chiese se potevo scrivere la prefazione al suo primo libro di racconti. In tono affettuoso, la mia introduzione parodistica sgamava un difetto di Andrea che, purtroppo, col tempo è peggiorato: il kitsch sentimentale. Luogo classico della retorica bassa, il kitsch sentimentale si compiace del patetismo, ed è l’errore artistico che vizia la cultura popolare, cui reca successo: ne originano quegli aspetti ridicoli che sono eufemizzati dal gusto camp (Luchino Visconti che guarda Sanremo per sghignazzare con gli amici).
Tollerabile nella cultura di massa, il kitsch sentimentale diventa, quando contagia un giornalista, una vera disgrazia: non per lui, che ne lucra consensi facili, ma per i suoi lettori. Forma e sostanza dei suoi pezzi, infatti, ne vengono così influenzati che la realtà raccontata non corrisponde più al vero.

Forma e sostanza del contenuto
Ogni pezzo di Andrea Scanzi ha la forma e la sostanza di un necrologio. Non solo quando si occupa di grandi artisti defunti che non hanno alcun bisogno della sua commemorazione commossa (Gaber e De André, da lui usati come vetrina personale come Koons ha fatto con Piazza della Signoria), ma soprattutto quando prende di mira fenomeni ancora vivissimi, di cui descrive una decomposizione che solo lui vede, e che non c’è. Il modello, che una volta notato diventa stucchevole (la stucchevolezza è il principale indizio di kitsch sentimentale), è sempre lo stesso: X, che una volta era un grande, ora non lo è più. Variante: anche se ora non lo è più, X era un grande. Il modello gli serve per denigrare, la variante per esaltare; ma l’effetto ricercato è sempre lo stesso: il kitsch sentimentale.

Andrea Scanzi, il Mogol dei coccodrilli
Gli ultimi due pezzi di Andrea sono un esempio flagrante del suo modus operandi. Il titolo del primo è tutto un programma: “Benigni, quel che resta di lui”. Siamo già all’ossario.
Andrea comincia accusando Benigni di incoerenza: “voterà sì al referendum che vuole sancire lo sfascio della Costituzione, lui che faceva sermoni sulla sacralità della Costituzione”. E’ un errore di ragionamento piuttosto comune: la petizione di principio. Che il referendum sfasci la Costituzione, infatti, lo sostiene Scanzi. Benigni la pensa diversamente. Non c’è incoerenza.
Posati i binari della premessa fallace, Andrea può farvi procedere il suo solito trenino a due vagoni. Nel primo, fa sedere l’artista che una volta gli piaceva; nel secondo, l’artista di oggi, che non gli piace più. Al suo fermodellismo manca il treno in cui l’artista evolve secondo criteri propri, non quelli scanziani, e quindi il lettore non può giungere ad altre destinazioni. Come se non bastasse, il tono del capostazione Andrea è spesso paternalistico (“voglio essere buono”): ma considerarsi superiori agli artisti è un pregiudizio giornalistico piuttosto diffuso, e non si possono addossare a uno le colpe di tutta una categoria. Sostenere però che un artista, siccome non la pensa più come te, non è più un grande artista, è un salto logico da purismo grillino.

Satira R.I.P.
Nell’altro pezzo, in un’esagerazione di pompe funebri, Andrea fa addirittura il necrologio a tutta la satira televisiva italiana. Infatti il titolista, che ha capito il trucchetto, compone un fenomenale “Pace alla satira sua”; ma la materia è troppo vasta per l’articolista, e la sua corona di fiori non basta per tutte le bare.
Come da modello, sul primo vagoncino di Andrea troviamo la satira tv di una volta, sul secondo quella di oggi. Il viaggio comincia con la domanda: “Che fine ha fatto la satira in tv?”, e procede bene nel ridente panorama storico ricostruito, ma a un certo punto il trenino scambia le cause con gli effetti, e deraglia. Per riportarlo sui binari, allora, occorre precisare che la nostra assenza dalla Rai, prima, e da altre emittenti, poi, non fu un fenomeno accidentale, di quelli atmosferici, ma un atto di censura, deciso ed eseguito da dirigenti scelti alla bisogna; e quindi sottolineare quali, fra le cause elencate da Andrea, sono invece conseguenze: alcune strategiche (le tv invase da programmi e intrattenitori comici dissimulano l’avvenuta censura alla satira), altre inevitabili, ma che non c’entrano con la sparizione della satira dalla tv italiana (all’estero, il ruolo meno dominante della tv e i gusti delle nuove generazioni non hanno intaccato la quantità e la qualità della satira tv), altre comprensibili, ma non determinanti (l’autocensura dei comici, poiché la censura funziona e stronca carriere; o l’impreparazione satirica dei nuovi). Se nella tv italiana non c’è più satira, ma solo divertimento e caricature irrilevanti, la colpa è esclusivamente della censura di questi anni di inciucio. Dirigere l’attenzione altrove è una mistificazione che sminuisce la portata dell’azione censoria.
Scrive Andrea: “Berlusconi era il nemico e il tuo pubblico naturale lo accontentavi quasi sempre. Oggi è tutto più complicato.” Le cose non stanno così. Innanzitutto non fai satira per accontentare il tuo pubblico naturale: il pubblico naturale non esiste, e la satira non è consolazione. Inoltre, l’unico nemico della satira è il potere, di cui i bersagli non sono che incarnazioni. Ieri si faceva satira su politica, sesso, religione e morte; e oggi pure. Il problema ce l’ha solo chi si serve della satira per fini partitici, cioè di propaganda; ma non c’entra con la scomparsa della satira dalla tv italiana.
Andrea lamenta giustamente la mancanza di una satira tv urticante, per esempio sui teo-con che organizzano manifestazioni contro i diritti civili. Ovvio, la satira la fai sull’attualità. Per questo dà fastidio ai politici, che le impediscono l’altoparlante tv. Riportami in tv e te ne faccio quanta ne vuoi. Nel frattempo, è ancora democrazia?
Scrive Andrea: “Il satirico si sostituiva al politico (…) e a quel punto c’era chi si fermava prima di diventare politico (Luttazzi, Corrado Guzzanti), chi si fermava a metà (Sabina Guzzanti), e chi si faceva megafono di una protesta trasversalmente condivisa (Grillo).” Ahi ahi ahi, qui il giornalista si fa propagandista grillino. Grillo infatti è un megafono solo su Gaia: in Italia, ha fondato un movimento partitico.
Sulla distinzione fra politico e partitico i giornalisti italiani, per vari motivi, hanno serie difficoltà. Repetita juvant: la satira è sempre politica, ma non è più satira quando diventa propaganda partitica. La differenza è che la satira è arte, e lascia l’uditorio libero di decidere sul da farsi, mentre la propaganda partitica è marketing del potere, e ti dice per chi votare. Se fondi un partito, sei encomiabile: ma da quel momento non riuscirai più a fare satira. Non perché lo dico io, ma perché satira e propaganda partitica sono inconciliabili.
Che io mi sia fermato “prima di diventare politico” è, dunque, una riduzione dell’angolo visivo; mi fermai, chiudendo il blog nel 2006,* perché vedevo la deriva del pubblico che cercava nel satirico un leader senza macchia. Mi fermai per non favorire un circuito perverso di cui vedevo tutti i pericoli. Invitai anche Grillo a chiudere il suo blog, ma non lo fece: abbiamo capito perché.
* Lo riaprii nel 2007 per denunciare pubblicamente la chiusura pretestuosa di Decameron. Lo chiusi nel 2011. La storia completa del mio blog è qui: https://luttazziflashback.wordpress.com
Ma Andrea mi ha già messo nel secondo vagone, quello patetico: “Il satirico si è sostituito al politico (…) situazione anomala e scivolosissima che ha visto negli anni smarrirsi lo stesso Luttazzi, tornato in tv con il monologo strepitoso a Raiperunanotte (2010) e poi inciampato nella querelle plagio e in un ostinato mutismo rancoroso che fa male tanto a lui quanto a noi.”
Non mi sono mai smarrito in vita mia, caro Andrea, e sono alquanto prodigo di ciarle, per un muto ostinato e rancoroso. Ho continuato a fare satira, politicamente: come ho spiegato in tutte le interviste possibili, ho deciso di non fare teatro finché non potrò tornare in tv. La censura, eseguita nell’ombra, va portata alla luce: è il senso politico della mia assenza dalle scene, che nessun giornalista ha ancora raccontato. Nel frattempo ho scritto due bei libroni satirici. Li hai letti?
Oh, certo, ricevo proposte per nuovi programmi tv ogni anno, ma tutto si incaglia sempre su scogli di natura legale: le tv vogliono poter tagliare il materiale che non condividono, poiché temono le cause giudiziarie, anche se le mie vittorie giudiziarie dimostrano ampiamente che non sono un irresponsabile. Io tengo il punto: la satira o è libera, o non è.
Raiperunanotte fu uno squarcio nella censura: riuscì grazie alla determinazione di Michele Santoro, ma la stampa italiana minimizzò il più possibile il risultato del mio monologo, trattandolo alla stregua degli altri interventi. Quei 15 minuti di monologo non solo raddoppiarono lo share del programma, ma crearono alcuni record in Rete, compresi le 800mila visualizzazioni in un giorno su YouTube e i 5700 tweet/ora su Twitter. Nessuno ne parlò. Per capire l’anomalia del trattamento: quando Corrado Guzzanti, con Aniene, totalizzò su YouTube 600mila visualizzazioni in una settimana, Repubblica dedicò due pagine al suo successo (meritatissimo).
Non commettere anche tu l’errore di confondere la realtà vera con la realtà creata dai media. E’ il caso della querelle plagio. Dopo quel monologo che denunciava l’inciucio bipartisan, alla minimizzazione seguì una campagna stampa diffamatoria che strumentalizzava falsità diffuse in Rete da anonimi incompetenti. Non c’era alcun plagio, né i comici stranieri gentilmente informati dai diffamatori mi hanno fatto causa. L’orda considerava plagio, fra l’altro, la mia battuta su Giuliano Ferrara, che fu il pretesto con cui Campo Dall’Orto chiuse Decameron; ma una sentenza del 2012 afferma che non era affatto plagio: mi hanno risarcito con un milione di euro. Parlare ancora, dopo sei anni, di generica querelle plagi, è un modo per continuare la gogna a mezzo stampa, parandosi il culo. Continua pure. Se però vuoi approfondire davvero la materia, nelle mie interviste sul Fatto trovi tutti i riferimenti utili. Scoprirai, fra l’altro, che uno dei responsabili di quel killeraggio ha confessato la mascalzonata (nascosero la parte rilevante della vicenda per darmi del disonesto) e mi ha chiesto perdono.
Che bella storia, eh? Puro kitsch sentimentale. Buon appetito.

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