16/09/12

Jean Genet: Sabra e Shatila

Trenta anni fa, nella notte tra il 15 e il 16 settembre si scatenò il massacro contro i profughi palestinesi nei campi in libano.Tremila morti tra Sabra e Chatila. Una strage mai giudicata da un tribunale internazionale ma neanche dimenticata Anche il degrado dei luoghi ha un peso. I cumuli di rifiuti nascondono esistenze e drammi, i vicoli stretti e bui allontanano persino i più curiosi. Un campo profughi palestinese è così e tanti in Libano li evitano, fingono di non vederli più. Nulla però potrà nascondere e annullare la memoria di tremila uomini, donne e bambini, massacrati trent'anni fa a Sabra e Shatila. Quei volti rimarranno scolpiti nella storia se la scrittura, come avvenne la prima volta con il grande scrittore Jean Genet, ne testimonia l'orrore.

Quattro ore a Shatila

Una fotografia a due dimensioni, e anche lo schermo televisivo - né l'una né l'altro si possono percorrere. Da un muro all'altro di una via, curvi o inarcati, i piedi contro un muro e la testa appoggiata all'altro, i cadaveri neri e gonfi, che dovevo scavalcare, erano tutti di palestinesi o libanesi. Per me come per quello che restava della popolazione, la circolazione a Chatila e a Sabra somigliava a un gioco di "saltacavalletta". Un bimbo morto, a volte, può bloccare le strade, che sono così strette, quasi sottili e i morti sono così tanti. Il loro odore è indubbiamente familiare ai vecchi: non mi infastidiva. Ma quante mosche! Se sollevavo il fazzoletto o il giornale arabo posato su una testa, le disturbavo. Inferocite dal mio gesto, arrivavano a sciami sul dorso della mia mano, cercando nutrimento.

Il primo cadavere che ho visto è stato quello di un uomo di cinquanta, sessant'anni. Avrebbe avuto una corona di capelli bianchi se uno squarcio (un colpo d'ascia, mi è parso) non gli avesse aperto il cranio. Una parte nerastra del cervello era a terra, accanto alla testa. Il corpo era accasciato in un mare di sangue, nero e coagulato. La cintura non era allacciata, i pantaloni tenuti su da un solo bottone. Piedi e gambe del morto erano nudi, neri, violacei, forse era stato sorpreso durante la notte o all'alba. Si stava mettendo in salvo? Era steso in una viuzza a destra, subito dopo l'entrata del campo di Chatila che è di fronte all'Ambasciata del Kuwait. Il massacro di Chatila si è compiuto nel brusìo o nel silenzio totale, se gli israeliani, soldati e ufficiali, sostengono di non aver sentito nulla, di non aver dubitato di niente mentre occupavano questo edificio, da mercoledì pomeriggio?

La fotografia non coglie le mosche, né l'odore bianco e greve della morte. Non racconta il salto che si deve fare quando si passa da un cadavere all'altro.
Se si guarda attentamente un morto, si può cogliere un curioso fenomeno: l'assenza di vita di questo corpo equivale a una assenza totale del corpo o piuttosto al suo ininterrotto distacco. Anche se ci si avvicina, si pensa, non lo toccherà mai. Questo se lo si contempla. Ma un gesto fatto nella sua direzione, che ci si abbassi verso di lui, che gli si sposti un braccio, un dito, ed è all'improvviso presente e quasi amichevole.

L'amore e la morte. Questi due termini, quando uno dei due viene scritto, si associano subito. Sono dovuto andare a Chatila per percepire l'oscenità dell'amore e l'oscenità della morte. I corpi, nei due casi, non hanno più nulla da nascondere: posture, contorsioni, gesti, segni, i silenzi stessi appartengono all'uno e all'altro mondo.
Il corpo di un uomo dai trenta ai trentacinque anni era steso sul ventre. Come se tutto il corpo non fosse altro che una vescica dalla forma umana, sotto il sole e a causa del processo di decomposizione si era gonfiato fino a tendere i pantaloni che rischiavano di esplodere alle cosce e alle natiche. La sola parte del viso che sono riuscito a vedere era violacea e nera. Un po' sopra il ginocchio, sotto la stoffa lacerata, la coscia piegata mostrava una ferita. Origine della ferita: una baionetta, un coltello, un pugnale? Mosche sulla ferita e attorno ad essa. La testa più grossa di un'anguria - un'anguria nera. Ho chiesto il suo nome, era musulmano.

- Chi è?
- Palestinese, - mi ha risposto in francese un uomo sulla quarantina - Guardi quello che gli hanno fatto.

Ha tolto il velo che copriva i piedi e una parte delle gambe. I polpacci erano nudi, neri e gonfi. I piedi calzavano stivaletti neri, non allacciati, e le caviglie erano strette, fortemente, dal nodo di una corda resistente - la sua robustezza era ben visibile - lunga circa tre metri, che ho disposto in nome che la signora S. (americana) potesse fotografarla con decisione. Ho chiesto all'uomo se potessi vedere il viso.

- Se vuole, ma se lo guardi da sé.
- Mi aiuta a girargli la testa?
- No.
- L'hanno trascinato per le strade con questa corda?
- Non so.
- Quelli del comandante Haddad?
- Non lo so.
- Gli israeliani?
- Non lo so.
- I kataeb?
- Non lo so.
- Lo conosce?
- Sì.
- L'ha visto morire?
- Sì.
- Chi l'ha ucciso?
- Non so.
In tutta fretta si è allontanato dal morto e da me. Mi ha guardato da lontano, ed è scomparso in un vicolo laterale.
Quale vicolo prendere adesso? Ero strattonato da cinquantenni, da giovani ventenni, da due vecchie arabe, e avevo l'impressione di essere al centro di una rosa dei venti i cui raggi contenevano centinaia di morti.
Annoto quanto segue, senza sapere bene il perché, a questo punto del mio racconto: "I francesi hanno l'abitudine di usare questa scialba espressione: 'lavoro sporco'; ebbene, come l'esercito israeliano ha ordinato il 'lavoro sporco' ai Kataeb, o agli hassadisti, i laburisti lo hanno fatto portare a termine dal Likud, Begin, Sharon, Shamir, questo 'lavoro sporco'". Ho appena citato R., giornalista palestinese, ancora a Beirut domenica 19 settembre.

In mezzo a tutte le vittime torturate, la mia mente non può disfarsi di questa "visione invisibile": come era il carnefice? Chi era? Lo vedo e non lo vedo. Mi acceca gli occhi, e non avrà mai altra forma che quella disegnata da pose, posture, gesti grotteschi dei cadaveri divorati, sotto il sole, da schiere di mosche.

Jean Genet - Quattro ore a Shatila
Gamberetti Editrice (L'alfabeto Umano) - Euro 5,16


La mostra
“Notte Molto nera, Sabra e Chatila una memoria scomoda”




Io sono stato nel Libano. Ho visitato i cimiteri di Chatila e Sabra. E’ una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le vittime di quel massacro orrendo. Il responsabile di quel massacro orrendo è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro fatto. E’ un responsabile cui dovrebbe essere dato il bando della società.
Sandro Pertini, messaggio di fine anno agli italiani, 31.12.1983



 DIARIO DI UN MASSACRO, di Valentina Perniciaro

LIBERAZIONE, 16 SETTEMBRE 2008


«Il problema che ci poniamo: come iniziare, stuprando o uccidendo? Se i palestinesi hanno un po’ di buonsenso, devono cercare di lasciare Beirut. Voi non avete idea della carneficina che toccherà ai palestinesi, civili o terroristi, che resteranno in città. Il loro tentativo di confondersi con la popolazione sarà inutile. La spada e il fucile dei combattenti cristiani li seguirà dappertutto e li sterminerà, una volta per tutte». Il settimanale Bamaneh , organo ufficiale dell’esercito israeliano, due settimane prima del massacro di Sabra e Chatila, riporta le parole di un ufficiale delle Falangi cristiano-maronite.

Ma proseguiamo con ordine.

Martedì 14 settembre ’82

Un’esplosione devasta la sede di Kataeb (partito delle Falangi cristiane) durante una riunione di quadri. Tra i 24 corpi anche quello di Bashir Gemayel, presidente della Repubblica libanese da appena tre settimane. E’ un colpo pesante per Israele: muore il nemico numero uno dei palestinesi in Libano, l’uomo che li aveva definiti «il popolo di troppo», ricordato come «il presidente sostenuto dalle baionette israeliane». La sua elezione era la prima grande vittoria di Sharon: le sue milizie erano state aiutate militarmente, addestrate in campi speciali, garantite di servizi di intelligence e organizzazione. Il generale Eytan, capo di stato maggiore israeliano, poco dopo l’attentato dichiarerà: «Era uno dei nostri».

Il giorno prima, il 13 settembre, gli ultimi 850 paracadutisti e fanti della forza di pace internazionale (per lo più francesi, italiani e americani) lasciano il paese. Non sono nemmeno le 18 quando parte l’operazione “Cervello di Ferro”: inizia un fitto ponte aereo israeliano, uomini e carri armati arrivano all’aereoporto internazionale di Beirut e il generale Eytan dichiara: «Stiamo per ripulire Beirut-Ovest, raccogliere tutte le armi, arrestare i terroristi, esattamente come abbiamo fatto a Sidone e a Tiro e dappertutto in Libano. Ritroveremo tutti i terroristi e i loro capi. Ciò che c’è da distruggere lo distruggeremo».

Mercoledì 15 settembre

Prima dell’alba si tiene una riunione decisiva al quartier generale delle milizie unificate della destra cristiana: per Israele sono presenti i generali Eytan e Druri, per le milizie falangiste il comandante in capo Efram e il responsabile dei servizi di informazione Hobeika. Si discute un piano d’entrata delle falangi nei campi profughi palestinesi di Beirut; un capo militare alla fine della riunione dichiarerà: «Da anni aspettiamo questo momento». Durante tutto il giorno le strade che vanno verso i campi vengono riempite con la vernice di enormi frecce che indicano la direttrice di penetrazione, Sabra e Chatila devono essere facilmente raggiungibili da chi non conosce la città. Dalle 5 in poi lo Tsahal (l’esercito israeliano ndr ) avanza su cinque direttrici, circondando completamente Beirut-Ovest: Sharon arriva sul posto a dirigere le operazioni alle 9 del mattino, sul tetto di un enorme edificio, al settimo piano, da dove può osservare benissimo i campi. Il primo ministro Menahim Begin dirà poche ore dopo che il loro «ingresso in città è solamente per mantenere l’ordine ed evitare dei possibili pogrom, dopo la situazione creatasi con l’assassinio di Gemayel».

Dalle 12 i campi di Sabra e Chatila sono circondati dai tank israeliani: la popolazione si chiude in casa. Tutti i combattenti sono partiti pochi giorni prima, nelle viuzze strette sono rimasti solamente bambini, donne e anziani.

Giovedì 16 settembre

Bastano 30 ore per completare la missione: è la prima volta che Israele conquista una capitale araba. Per tutta la mattinata è un formicaio di bande armate, munite anche di asce e coltelli, che percorrono le strade a bordo di jeep dello Tsahal; alle 15 il generale Druri chiama Sharon: « I nostri amici avanzano nei campi. Abbiamo coordinato la loro entrata». La risposta è secca: «Felicitazioni».

Il tempo a Sabra e Chatila si fermerà alle 17 per ricominciare a scorrere 40 ore più tardi, alle 10 del sabato successivo. Gli israeliani seguono le operazioni dal tetto del loro quartier generale, forniscono in aiuto razzi illuminanti sparati con una frequenza di due al minuto: non calerà mai la notte sopra i campi. Le falangi cristiano-maronite non si limitano a sterminare la popolazione; il loro accanimento, soprattutto verso i bambini, ha pochi precedenti nella storia, la loro crudeltà supera ogni aspettativa. Sfondano le porte delle case e liquidano intere famiglie ancora nei letti o a tavola, tagliano le membra delle loro vittime prima di ucciderle, stuprano ripetutamente donne e bambine, evirano, assassinano a colpi d’ascia. Solitamente lasciano viva una bimba per famiglia che, dopo ripetuti stupri, ha il solo compito di raccontare e far scappare chi resiste. Una donna al nono mese di gravidanza verrà ritrovata con il ventre aperto, uccisa con il feto messogli tra le braccia. Le teste dei neonati vengono schiacciate sulle pareti. I miliziani saccheggiano tutto: si troveranno molte mani di donne tagliate ai polsi per impadronirsi dei gioielli.

Venerdì 17 settembre

Il venerdì nero. Il tenente Avi Grabowski dirà davanti alla commissione d’inchiesta «Ho visto falangisti uccidere civili…Uno di loro mi ha detto: dalle donne incinte nasceranno dei terroristi». Ma i soldati israeliani ricevono ancora l’ordine di non intervenire su ciò che sta accadendo, di non entrare nei campi; il loro compito rimane quello di sorvegliare gli accessi per rispedire dentro chi prova a fuggire e illuminare l’area, al calar della notte. Sono le milizie di Haddad quelle che incutono più terrore, quelle che legano i feriti alle jeep e li trascinano fino alla morte, quelle intente a torturare e a non lasciare nessuno in vita; i metodi si fanno più rapidi rispetto all’inizio del massacro, ora si spara a bruciapelo e spesso si incide una croce sul petto dei cadaveri. Più di 1500 persone spariranno salendo sui loro camion: non si è più saputo niente di loro. Entrano anche nell’ospedale di Akka e di Gaza, medici e infermieri palestinesi sono giustiziati, così come i feriti. Al confine del campo gli uomini delle milizie cristiane sono euforiche, non si vergognano di urlare in faccia ai giornalisti che iniziano ad arrivare: «Andiamo ad ammazzarli, ci inculeremo le loro madri e le loro sorelle». Sharon è l’unico invece che continua a dichiarare, mentre sovrasta il massacro, «l’entrata di Tsahal a Beirut porta pace e sicurezza ed impedisce un massacro della popolazioni palestinesi. Stiamo impedendo una catastrofe».

Sabato 18 settembre

Il massacro continua; la puzza di cadaveri, sotto il caldo sole di Beirut, inizia a superare i confini dei campi palestinesi. E’ il momento dell’ultima trappola: le milizie dalle 6 del mattino girano sulle jeep urlando alla popolazione di arrendersi, di uscire di casa. Più di un migliaio saranno uccisi sulla strada Abu Hassan Salmeh, principale arteria di Chatila. Chi viene arrestato e portato nello stadio sarà ritrovato morto ancora ammanettato, spesso buttato in piscina. Gli ultimi abitanti vengono portati via sui camion.

Alle 10 cala il silenzio su Sabra e Chatila. Le milizie sono uscite; non si scorge anima viva nel fetore di quelle strade. Solo qualche ora dopo i sopravvissuti inizieranno ad uscire dai rifugi, e il dolore si trasformerà in grida, mentre osservano più di 2000 cadaveri mutilati, dilaniati, stuprati, lasciati marcire al sole. I riconoscimenti avverranno solo in parte, visto che molti erano stati già gettati in fosse comuni. C’è una donna che urla… ha intorno a se i cadaveri dei suoi 7 bambini, tiene tra le braccia il corpo dilaniato della più piccola, di soli 4 mesi. Si tira la terra in testa, urla, «E ora? Dove andrò? E ora?».

Sulle mura delle poche case rimaste in piedi si leggono gli slogan della Falange “Kataeb”: «Dio, Patria, Famiglia».

«Quali assassinii di donne? Si fa una storia per niente. Da anni uccido palestinesi e non ho ancora finito. Li odio. Non mi considero affatto un assassino. Ne verranno ancora assassinati migliaia, ed altri creperanno di fame», le parole di Hobeika saranno difficili da dimenticare. Neanche per il popolo israeliano è facile accettare l’idea di essere corresponsabili di una simile azione, l’indignazione popolare è profonda. Un corteo di 400mila persone invaderà Tel Aviv con slogan diretti contro il governo e Sharon.

Il 20 settembre, Amos Kennan sulla più importante testata israeliana, Yedioth Ahronot , scriverà: «In un sol colpo, signor Begin, lei ha perduto il milione di bambini ebrei che costituivano tutto il suo bene sulla terra. Il milione di bambini di Auschwitz non è più suo. Li ha venduti senza utile».

Oggi ci sarà ancora una commemorazione, sulla piazza della fossa comune, all’ingresso di Chatila. La popolazione dei campi andrà a salutare, a portare avanti il ricordo di quei giorni neri in cui si è cercato casa per casa il più innocente per trucidarlo, in cui si è perpetrato uno sterminio scientifico e atteso da molto tempo. Il giorno più bello per le falangi cristiano-maronite, l’ennesima nakba (tragedia) per i palestinesi che malgrado tutto continuano a lottare, a sperare in un ritorno, ad esistere.

Come diceva Mahmud Darwish, grande poeta palestinese da poco scomparso, «Il mio popolo ha sette vite. Ogni volta che muore rinasce più giovane e bello». Basta passeggiare per le vie dei campi profughi del medioriente per capire che grande verità è questa.

Nel 2002, il tribunale dell’Aja prova ad accusare Sharon di crimini contro l’umanità per le evidenti responsabilità durante il massacro. Il processo nasceva dalle accuse del comandante Hobeika, che aveva deciso di far luce sui fatti. Avrebbe dovuto farlo i primi di febbraio,testimoniando in aula. Ma non ha fatto in tempo: è saltato in aria il 24 gennaio 2002.

La verità su Sabra e Chatila, comunque, non ha bisogno di tribunali per essere sancita. E’ chiara, scritta, visibile ancora oggi ad occhio nudo.

Nel 2004 l' Fplp ricordava in questo modo l'evento.
Ventidue anni fa, tra il 16 ed il 18 settembre 1982, il popolo di Palestina ed il mondo intero, furono colpiti da un orrendo crimine: i sanguinosi massacri dei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut, in Libano.

A Sabra e Shatila, abitavano migliaia di rifugiati palestinesi cacciati dalla Palestina nel 1948 durante l'occupazione Sionista delle loro case e delle loro terre. Furono circondati e rinchiusi durante l'aggressione Sionista e l'occupazione di Beirut. Noi ora leviamo le nostre voci in onore di quei nostri martiri che morirono lottando per la nostra libertà nei campi di Sabra e Shatila e per la loro continua dedizione per la giustizia e la libertà.

Le forze Sioniste, sotto il comando di Ariel Sharon, prima ministro della difesa ed oggi primo ministro dello stato Sionista, hanno accerchiato i campi ormai svuotati dai combattenti della resistenza e abitati soprattutto da donne e bambini palestinesi e libanesi. A questo punto, Sharon ha ordinato l'entrata a Sabra e Shatila delle Forze libanesi, una milizia di falangisti di destra con stretti legami con gli occupanti Sionisti, e l'Esercito del Libano del Sud, l'esercito manovrato dell'entità Sionista in Libano. Per i due giorni che sono seguiti, aiutati dall'illuminazione dei razzi notturni e da altri appoggi dell'esercito Sionista che circondava i campi, queste milizie hanno torturato, stuprato ed assassinato migliaia di rifugiati palestinesi, con la piena approvazione ed appoggio degli invasori Sionisti.
Il sangue di migliaia di rifugiati palestinesi dei campi di Sabra e Shatila è rimasto impresso sulle mani di Ariel Sharon, che continua tutt'oggi il suo brutale massacro di Palestinesi.

Le radici del massacro di Sabra e Shatila sono da ricercare nel 1948 e nell'espropriazione ed espulsione di centinaia di migliaia di Palestinesi durante la colonizzazione Sionista e l'occupazione della nostra terra. I Palestinesi furono costretti a riparare in campi profughi sparsi in tutta la nazione Araba, gli furono negati i loro diritti e la loro identità, e furono le vittime designate dello sterminio di una nazione.

Dal 1948, i Palestinesi sono stati dappertutto oggetto di attacchi alle loro vite, ai loro diritti e vivono sotto costanti e barbare aggressioni; i crimini di guerra ed il massacro di Sabra e Shatila è solo uno dei più terribili esempi.
Comunque, i massacri non sono finiti il 18 settembre 1982; non si sono mai fermati e continuano tutt'oggi. Ed i crimini continueranno fino a che non verrà realizzata la vera giustizia e la liberazione per tutti i rifugiati palestinesi con il riconoscimento del diritto a ritornare nelle proprie case e terre, e finché non verranno realizzati i diritti alla liberazione nazionale, alla sovranità e all'autodeterminazione.

L'unica difesa per i rifugiati palestinesi è l'esercizio del loro fondamentale diritto al ritorno. Le migliaia di assassinati nei campi di Sabra e Shatila sono morti lottando per quel diritto, e quello è un diritto che ancora oggi è vitale e fondamentale per i Palestinesi.
Sì, il sangue ed il massacro di Sabra e Shatila sono i crimini di Ariel Sharon; ma rappresentano di più di un crimine di un solo individuo.

Sono i crimini del Sionismo, i crimini dell'entità Sionista ed i crimini del progetto Sionista basato sull'espulsione e lo sterminio del popolo palestinese. Quindi nello stesso momento in cui Ariel Sharon è un criminale di guerra, lo sono anche Ehud Barak, Benjamin Netanyahu, Shimon Peers, Yitzhak Rabin, Yitzhak Shamir, Menachem Begin, Golda Meir, ed ogni altra persona coinvolta in quel progetto razzista di sterminio ed oppressione. La sola esistenza dell'entità Sionista in Palestina è un crimine di guerra; è basata sul massacro continuo e sull'espropriazione dei Palestinesi, la rapina e lo sfruttamento continuo delle loro risorse, e la colonizzazione continua della loro terra.

Inoltre, i crimini del Sionismo, in quanto progetto di insediamento coloniale, fanno parte dei crimini commessi dall'imperialismo degli Stati Uniti nella nazione Araba ed in tutto il mondo. Così come i Sionisti ed i loro seguaci devastarono Sabra e Shatila, gli Stati Uniti ed i suoi seguaci hanno devastato Guatemala, El Salvador, Nicaragua, Angola, Mozambico, Cambogia e molte altre nazioni - nel loro piano di conquista di potere, controllo e risorse.

L'invasione Sionista del Libano ebbe la piena approvazione ed appoggio degli USA; oggi, l'entità Sionista riceve miliardi di dollari ogni anno dal governo degli USA, e continua la sua aggressione furiosa contro il popolo palestinese col patrocinio dell'imperialismo USA. Nello stesso tempo gli Stati Uniti occupano, opprimono e terrorizzano il popolo dell'Iraq, Afghanistan, Haiti, Colombia, Filippine e numerosi altri nel mondo. La brutalità ed i crimini del colonialismo Sionista e dell'imperialismo degli Stati Uniti non possono e non dovrebbero essere separati l'uno dall'altro da chi lotta contro quei crimini.

Noi stiamo lottando per la giustizia e la liberazione contro l'enorme brutalità del progetto coloniale Sionista, testimoniata a Sabra e Shatila e a Deir Yassin; a Safsaf, Lydda, Tantura e Kufr Qasem; a Qibya, Qana, Jenin, Nablus, Rafah ed in tutta la Palestina occupata. Noi ci stiamo adoperando per assicurare che crimini come quelli di Sabra e Shatila e i crimini del 1948, e tutti quelli prima, dopo e durante, non colpiscano più la nostra gente e la nostra terra; e che tutti i rifugiati palestinesi ottengano il loro pieno, incondizionato e non negoziabile diritto al ritorno alle loro case e terre d'origine.

Per ottenere la giustizia, la vittoria, la liberazione ed il ritorno, per noi è imperativo che l'unità nazionale del popolo palestinese, della sua leadership e delle sue istituzioni sia rafforzata e sviluppata. Noi abbiamo bisogno di un comando nazionale unificato, che coinvolga tutte le forze, le organizzazioni e le istituzioni Nazionali ed Islamiche di tutta la Palestina; e di rianimare la struttura dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) - dentro e fuori la Palestina - su una base democratica che comporta la rappresentanza per ogni Palestinese.

Noi guardiamo indietro con memoria ed orgoglio. Noi guardiamo avanti con costanza, sicurezza e impegno per resistere ai crimini Sionisti, per lottare per il ritorno di tutti i nostri rifugiati e per la liberazione della nostra terra.

Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina - FPLP




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