01/12/13

Don De Lillo

Maestro indiscusso del postmodernismo Americano, Don De Lillo, nato e cresciuto nel Bronx (N.Y.) da genitori italiani originari di Montagano, un paesino in provincia di Campobasso, è senza dubbio uno dei nostri scrittori preferiti e di riferimento, sciamano della letteratura paranoica, osservatore disciplinato e tagliente. Amiamo la sua descrizione della realtà, con una scrittura in cui racconta la società attraverso i media, la religiosità, i riti profani e le liturgie della politica comprese di intrighi tesi alla conquista del potere.
De Lillo è il tipo di scrittore i cui libri producono recensioni da prima pagina, ma riesce comunque a non raggiungere le alte vette della vendita. Da sempre ben noto nei circoli letterari , ha un piccolo , devoto seguito, ma la usa scrittura profondamente politica, la disturbante descrizione del mondo sociale familiare senza nessun accomodamento e il terrore premonitrice dei suoi romanzi lo hanno reso difficile da promuovere. Nei suoi racconti ci sono persone che conosciamo , personaggi intimi e familiari, dominati da un senso di invisibilità , paranoia e terrore . Per molti aspetti sono come noi , tranne che vivono con la consapevolezza inquietante di un mondo che preferiamo ignorare.
Infine amiamo il suo tenersi in disparte, la sua natura al silenzio e all'esilio.
Chiunque si troverà a leggere un suo libro, comincierà a chiedersi , chi è questo tizio ?

SPECIALE DON DE LILLO

UNDERWORLD
recensione di Giorgio Michelangelo Fabbrucci, da Alieni Metropolitani
Underworld è un romanzo monumentale che pretende di essere affrontato con umiltà. Lo scrivo perché convinto che questo testo, una volta invecchiati, lo vedremo tra la ultime pagine dell’antologia di letteratura dei nostri nipoti, alla voce “Postmodernismo”; sarà presentato come un archetipo, come un modello. Delillo con Underworld è riuscito a scolpire le pagine di quello che può essere già considerato un grande romanzo americano ma anche a interpretare lo spirito della fine del secondo millennio, forgiando forse al contempo la chiave di lettura di un’epoca di cui non vediamo l’ora sia decretata (dai fatti, non dalle accademie) la fine.
L’approccio visivo con questo testo è il proemio di un’immersione totale. Un romanzo abnorme, il cui profilo è segnato da linee nere, come luttuosi capitoli di storia e la cui copertina (stampata con la medesima immagine in tutte le edizioni del mondo) possiede qualcosa di tragicamente profetico. Una fotografia scattata da André Kertésez nel 1972 dalla finestra del suo appartamento di New York, la cui quasi totalità è occupata dalle Torri Gemelle, alla base delle quali campeggia una croce romana, installata sulla cima di una vecchia torre campanaria.

Immaginò di osservare la costruzione della grande piramide di Giza – solo che questa [la montagna di rifiuti, ndr] era venticinque volte più grande, con autobotti che spruzzavano acqua profumata sulle strade circostanti. Per Brian era una visione ispiratrice. Tutta questa industriosa fatica, questo sforzo delicato per far entrare il massimo dei rifiuti in uno spazio sempre minore. Le torri del World Trade Center erano visibili in lontananza e Brian percepì un equilibrio poetico tra quell’idea e questa.
Delillo attinge da una delle sue grandi passioni, il baseball, per plasmare l’oggetto che intreccerà le storie di due dozzine di personaggi: una pallina, protagonista dello storico fuoricampo ad opera di Bobby Thomson. Un rifiuto, oppure un feticcio, come chiave di interpretazione di intere esistenze. Un libro in “rewind”, eccezion’fatta per il prologo, l’epilogo e le vicende relative al Signor. Manx Martin, che narra a ritroso le vicende accadute tra il 1992 ed il 1951.
Il testo si apre con un incredibile racconto intitolato “il trionfo della morte” (come il quadro incontrato tra gli stralci di una rivista, a fine partita, da J. Edgar Hoover) nel quale il lettore vivrà la storica competizione tra New York Giants e Brooklyn Dodgers del 3 ottobre 1951 al Polo Grounds di New York. Leggendo questo prologo, per quanto adesso non vogliate crederci, maledirete di non essere americani. Non tanto per affezione, piuttosto per il desiderio di comprendere appieno la magistrale descrizione delle vibrazioni del campo e della folla durante la partita di uno sport pressoché sconosciuto in Italia. Nondimeno, anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un disarmante esercizio di stile; nella fattispecie sull’uso commisto del discorso diretto, indiretto; del cambio improvviso di prospettiva.
Il libro prosegue come detto a ritroso, in un intreccio fittissimo di storie e diversificati livelli di narrazione cuciti sapientemente, come il filo duro che serpeggia nella pallina da baseball. Una pallina che passa di mano in mano, di decennio in decennio, attraversando sentimenti, passioni e riflessioni con l’intento di narrare, al contempo “tenendo assieme”, i tanti tasselli che formano il mosaico di un’epoca. Se è difficile trovare un protagonista principale tra le varie finestre narrative aperte dall’autore, è forse plausibile credere che in Nick Shay vi sia più Delillo che in altri personaggi. Da un lato è l’imprenditore dell’immondizia, l’uomo che dai rifiuti trae il proprio sostentamento e le proprie riflessioni, nonché l’ultimo possessore della famigerata palla; dall’altro a Nick è concesso di parlare in prima persona e la sua esperienza di vita, frastagliata da viaggi, incontri dal sapore religioso, passioni e relazioni familiari, fanno di questo ragazzo del bronx (come non pensare all’autore) un punto di riferimento insostituibile per tutta la narrazione.

Come sempre accade nei testi del maestro del postmodernismo, più che la trama o l’intreccio, ciò che rende potente quest’opera è una sapiente alchimia tra poetica e stile. Di certo le vicende sostengo la volontà di lettura, stuzzicando propedeuticamente la curiosità del lettore. Nondimeno il lucido e dissacrante punto di vista dell’autore, unito ad uno stile introspettivo, attuale ed attualizzante, riesce a catturare il lettore in una situazione che supera la semplice passività dell’ascolto. Perché Underworld, è soprattutto un invito, forse un’imposizione alla riflessione sul cosa sia e rappresenti la nostra epoca. Delillo pare ravvisare una relazione logica tra il nostro modo di produrre ed organizzare rifiuti ed il nostro modo di vivere le relazioni e le esperienze. La disumanizzazione dei rapporti, sempre presente nella poetica Delilliana, approda ad una consapevolezza epistemologica, individuando una simmetria tra un sistema di produzione ipertrofico e uno stile di vita sempre, inconsapevolmente vanaglorioso ed eccessivo, schiacciato dalla paura di morire, “di finire in discarica”.
Un’interpretazione che sono convinto vi vedrà concordi, soprattutto se vorrete leggere nella descrizione del Bronx, e più in generale del passato di ogni personaggio, qualcosa di più che semplice nostalgia.

Moltissimi europei parlano di questo libro relegandolo ad un’opera d’arte conchiusa nei confini degli States. Io ritengo, per quel che può valere, che Underworld sia un testo dal respiro globale e che sia riuscito meglio di altri a fotografare i sentimenti di coloro che nel mondo vivono o subiscono il fascino e l’influenza del sistema di produzione occidentale. Underworld scavando nei rifiuti è riuscito a spiegare i nostri sogni, le nostre paure.


RUMORE BIANCO
Don De Lillo non è un recluso assoluto come Thomas Pynchon o come Salinger – ma non è poi tanto lontano dall’esserlo. Ha scelto, in un certo senso, la via dell’invisibilità relativa . Poca biografia, poche fotografie, interviste concesse con prudenza e scarso entusiasmo ( una alla sottoscritta, tre anni fa, divisi da un tavolo, nell’ufficio della sua agente nuovayorkese, asciutta e professionale, senza sorrisi, senza cedimenti a qualche tocco personale).

Preferisce che a parlare di lui siano i suoi libri e pochi dati “ufficiali”.
Si sa dunque che è nato nel ’36, che è di origine italiana ( padre e madre sono originari della provincia di Campobasso) e che è cresciuto nel Bronx, vicino a Arthur Avenue, detestando la scuola che considerava una perdita di tempo e una gran noia e adorando “ogni forma di baseball immaginabile”, giocando a basket e a calcio, se necessario con una palla fatta di carta di giornale. Che il territorio dei suoi giochi, come per tanti italo-americani, è stata la strada. Che non si sente legato in maniera particolare alle sue origini italiane. Che si è laureato in Scienze della Comunicazione. Che per qualche tempo ha fatto un lavoro che non amava , il copywriter pubblicitario.
E che si è ” imbarcato nella mia vita, nella mia vera vita”, scrivendo il primo dei suoi dodici romanzi , Americana, a ventinove anni (” allora a New York si poteva vivere con poco, io non avevo famiglia, e sono campato per tre anni con i miei risparmi”, raccontava per spiegare l’inizio della sua storia letteraria). Che ora è sposato, senza figli, e vive da qualche parte nel New Jersey. Che ha una faccia pallida, seria , intenta, sottile, un po’ spettrale. Che è sempre intenso ( almeno durante le interviste), come se ci fosse poco tempo. Che è universalmente considerato come uno dei grandi scrittori contemporanei. Tanto che Thomas Pynchon, il recluso, il sofisticato Pynchon, lo definisce ” la voce più eloquente della letteratura americana”.

De Lillo , dunque, vuole che al posto suo parlino i suoi libri. Dodici, appunto ( ma ce n’è anche uno scritto sotto lo pseudonimo di Cleo Birdwell, Amazons, e testi teatrali, pezzi giornalistici, racconti ) , che dalla critica sono stati prontamente rubricati sotto la voce “postmoderni”- ma non sarebbe meglio parlare di “postmodernismo”, prendendo come punto di riferimento quel modernismo che nei primi decenni del secolo passato ridisegnò la mappa e le ambizioni della scrittura letteraria? Sono grandi libri, i suoi, per dimensioni, ambizioni, stile, risultati. Lontanissimo dal cosiddetto minimalismo, generoso e abbondante, Don De Lillo è uno scrittore alla ricerca del Grande Romanzo Americano – l’araba fenice inseguita da ogni scrittore Usa che si rispetti, il romanzo che dirà tutto dell’America, la rappresenterà, parlerà con la sua voce.

E’ il progetto di Don De Lillo. Che romanzo dopo romanzo- salvo la breve, strana parentesi, un po’ gotica un po’ modernista un po’ assolutamente personale di L’artista del corpo – parla di America, per l’America, per le sue ossessioni, passioni, storia, in un accumulo brillante, terrificante, doloroso, minuzioso, ridondante, geniale, linguisticamente stravolgente ( che fatica devono aver fatto i suoi bravissimi traduttori) di pezzi di vita, di cultura , di esperienza, di ossessioni, di “trivia” americani, quei dettagli minuziosamente annotati che sembrano cataloghi delle cose di cui ci circondiamo nella vita quotidiana – e soprattutto va ricostruendo letterariamente l’America contemporanea, dandole un corpo e un peso che l’autoreferenzialità di tanti suoi contemporanei le ha negato.

Come in Rumore bianco, White Noise. Un romanzo di quindici anni fa che parla dell’oggi – pubblicato in Usa nel 1984, è uscito la prima volta in Italia nel 1987 edito da Pironti, poi da Einaudi – , e che con Libra ( un impressionante ricostruzione a metà tra realtà e fantasia dell’assassinio di Kennedy visto dalla parte di Oswald) e Underworld ( un grandioso affresco di cinquant’anni di vita) è uno dei tre “grandi romanzi americani” di De Lillo.

Di cosa ci parla ? Diceva a suo tempo il brillante traduttore del romanzo, Mario Biondi, che Rumore bianco ci parla ” di storia contemporanea americana”. Ci parla del fatto che vivere nella torre di avorio di un ambiente privilegiato non ci salva dai veri problemi della società, destinati a toccarci comunque. Della paura della morte che ci insegue e ci inseguirà ovunque, travestita da eleganza, indifferenza, nevrosi, maniacalità, salutismo, riti – quello che più tardi nella storia diventeranno la base per la cultura/ incultura della “new age”.

In Rumore bianco l’ambiente privilegiato è quello di una piccola università americana , presso la quale il protagonista , Jack Gladney, insegna ( immaginate un po’, ma non stupitevi, tutto è possibile nell’America postmoderna ) “studi hitleriani”. D’altra parte, un suo collega non tiene forse un fortunatissmo corso su Elvis Presley ? e tra i due personaggi oggetti di studio non vengono regolarmente fatti confronti e collegamenti?e la fama e il culto dell’uno non sono accostati in una continua analisi del ” mito” relativo? E vogliamo aggiungere a questo piccolo ritratto di vita di futilità da campus il fatto che Jack, l’hitlerologo, non legge e non parla il tedesco?
Jack è con sua moglie Babette ( la quarta) al centro di una complicata famigliastra di figlie e figlie adolescenti provenienti dai precedenti matrimoni di entrambi ( ma ogni tanto qualcun altro arriva da lontano, da un’altra casa, un altro matrimonio, un’ altra ex moglie o marito). Una vita protetta, opulenta , tranquilla, colta, dentro il gran fiume del benessere consumistico e della pax americana, in mezzo al rumore bianco, al basso continuo di radio, tv, sirene, elettrodomestici, traffico, informazioni , notizie. Una vita perfetta e affettuosa. Fino al giorno in cui una gigantesca nube tossica prodotta da un incidente allo scalo ferroviario cittadino non costringe l’intera città e lo stato a un’evacuazione in massa, che si svolge sotto la neve e la pioggia, secondo i folli rituali , il disordine, gli ordini , i contrordini, le bugie ufficiali, le verità nascoste, l’inefficienza del caso.

E’ da questo incidente , raccontato da De Lillo con una prosa al tempo stesso minuziosa e apocalittica, notarile e fantastica, che prende le mosse un giallo familiare destinato a trasformarsi in tragedia e poi di nuova nell’accettazione della vita com’è. Jack è( probabilmente) colpito dalla nuvola tossica quando scende dall’auto per fare il pieno di benzina. O no? Una delle simpaticamente pestifere figlie della coppia scopre, o forse solo intuisce, che Babette assume un farmaco che, pensa la ragazzina, è potenzialmente dannoso. Un farmaco sconosciuto, che si chiama Dylar.
Pronunciare Dailaaa. Un nome strano che De Lillo , in un’antica intervista a Mario Biondi, ha spiegato voler dire “muori” e “ridi”. Perché il Dylar della sua invenzione è un farmaco ( come forse, a ben vedere, in proporzioni diverse, tutti i farmaci ) destinato a cancellare la nostra grande paura, la paura della morte, l’ossessione che, sotto la sua aria paciosa di mater familias e di compagna affettuosa, tormenta la placida Babette e suo marito Jack, che dopo tutto esercita il suo sapere sull’archetipo dell’orrore e della morte rappresentato da Hitler.

L’orecchio attento e magistrale di De Lillo per i dialoghi, le parole, le banalità del parlato quotidiano si intreccia in questo libro in un “rumore bianco” di intelligenza e frivolezza, di metafisica e di pettegolezzo ( che, ebbe a dire Cioran, sono le due sole cose importanti), di ironia e di tragedia, di costume e di storia delle nostre angosce rimosse e delle nostre ossessioni. Dico nostre perché anche le angosce così americane di Jack e Babette si sono globalizzate, assieme ai supermercati, ai corsi sul portamento, alle assurdità del bla bla accademico. In quindici anni il rumore bianco di De Lillo ci ha conquistati.
di IRENE BIGNARDI, tratto da “la biblioteca di Repubblica”


BIBLIOGRAFIA ITALIANA DI Don De Lilllo
Americana (Americana, 1971) (Einaudi, 2008)
Great Jones Street (Great Jones Street, 1973) (Einaudi, 2009)
Giocatori (Players, 1977) (Einaudi, 2005)
Cane che corre (Running Dog, 1978) (Einaudi, 2006)
I nomi (The Names, 1982) (Einaudi, 2004)
Rumore bianco (White Noise, 1985) (Einaudi, 1999)
Libra (Libra, 1988) (Einaudi, 2000)
Mao II (Mao II, 1991) (Einaudi, 2003)
Underworld (Underworld, 1997) (Einaudi, 1999)
Body art (The Body Artist, 2001) (Einaudi, 2001)
Cosmopolis  (Cosmopolis, 2003) (Einaudi, 2003)
L'uomo che cade (Falling man, 2007) (Einaudi, 2008)
Punto omega (Point Omega, 2010) (Einaudi, 2010)
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