Uno dei pochi, rari casi in cui libro e film quasi si equivalgono. Il libro ha sempre qualcosa in più, è espanso, ricco di quei particolari che non possono entrare nella pellicola: si dice infatti della storia di un libro portata sullo schermo che è una "riduzione" cinematografica. Lasciami entrare, scritto dallo svedese John Ajvide Lindqvist è una storia bellissima. Toccante. E il film che ne ha tratto Tomas Alfredson rende giustizia al libro, e ha il merito di lasciare aperta la storia ad innumerevoli chiavi di lettura.
Oskar, dodicenne timido e ansioso, protagonista della della scoperta adolescenziale, del lato oscuro, un ingresso nell’età adulta sancito dalla scoperta dell’amore e della morte. In una Svezia gelida, prevalentemente notturna, dalle atmosfere cupe e fredde, che si presta inaspettatamente al genere horror, vessato dalla prepotenza e dalla violenza, troverà il modo di rispondere, di reagire alla legge del più forte grazie all'incontro con Eli e proprio all’amore per il più debole. Un atteggiamento di apertura nei confronti dell’altro
più che mai attuale in un periodo di rigurgiti razzisti e fascisti nelle periferie estreme delle nostre città..
Blackeberg.
Fa pensare a quei dolci rotondi di pasta di cocco, magari fa venire in mente la droga. Una vita decente. Si pensa alla metropolitana, ai sobborghi. Poi probabilmente non viene in mente nient’altro. Anche li, come dappertutto, ci abita della gente. E per questo che il quartiere è stato costruito, perché le persone avessero un posto dove abitare. Non e un luogo cresciuto in modo naturale, no. Qui, tutto è stato predisposto sin dall’inizio. La gente ci è andata a vivere non appena tutto era pronto. Edifici di cemento, scagliati nel verde. Quando questa storia ha inizio, il quartiere di Blackeberg esisteva gia da trent’anni. Si potrebbe pensare allo spirito dei pionieri. Al Mayflower, a una terra sconosciuta. Si. Immaginare case vuote che aspettano la gente. Ed eccola che arriva. Passando sul ponte di Traneberg con il sole e le visioni davanti agli occhi. L’anno è il 1952. Le madri portano i loro piccoli in braccio e spingono le carrozzine o li tengono per mano.
I padri non portano zappe e badili, ma elettrodomestici e mobili funzionali. Con tutta probabilità stanno cantando qualcosa. Forse l’Internazionale. Oppure un salmo, a seconda del credo religioso. Il quartiere e grande. E nuovo. E moderno. Ma non è andata Cosi. A Arrivavano con la metropolitana. O con le auto, 0 con i furgoni dei traslochi. Uno dopo l’altro. Entravano negli appartamenti vuoti con le loro cose. Le sistemavano sugli scaffali e negli armadietti su misura, disponevano i loro mobili sui pavimenti di linoleum. Ne compravano di nuovi per riempire i buchi. Quando finivano alzavano gli occhi e guardavano la terra che gli era stata data. Uscivano dai portoni e trovavano gli spazi già predisposti. Bisognava solo adattarsi a quello che c’era. C’era un centro. C’erano spaziosi parchi gioco per i bambini. C’erano ampie aree Verdi fra le case. C’erano molte stradine per i pedoni. Un bel posto. Questo si diceva la gente seduta al tavolo della Cucina qualche mese dopo che si era trasferita.
<<Siamo arrivati in un bel posto.>>
Una sola cosa mancava. Una storia. A scuola, dato che non esisteva, i bambini non dovevano scrivere temi sul passato di Blackeberg. Si. C’era la storia di un mulino. Un personaggio strano. Sorgevano strane case giù, vicino all’acqua. Ma era tanto tempo fa e non c’era alcuna relazione con il presente. Dove ora ci sono le case a tre piani, prima era tutta foresta. Erano lontani dai misteri del passato, non avevano neppure una chiesa. Un sobborgo di diecimila abitanti senza una chiesa.
Fa capire molto sulla modernità e la razionalità del luogo. Un luogo dove si poteva essere liberi dalle calamità e dal terrore della storia. Tutto questo spiegava perfettamente quanto fossero impreparati. ` Nessuno li vide quando si trasferirono. A dicembre, quando alla fine la polizia riuscì a rintracciare il trasportatore che aveva effettuato il trasloco, questi non aveva molto da raccontare. Nella sua agenda del 1981, aveva soltanto scritto <<18 ottobre: Norrkoping-Blackeberg (Stoccolma)>>
Ricordava che si trattava di un uomo e di sua figlia, una ragazza carina. <<Ah, si, fra l’altro. Non avevano molte cose. Un divano, una poltrona, dei letti. Un lavoro facile. E ricordo che... si, volevano andarci di notte. Ho detto all’uomo che sarebbe stato più costoso. Ma non ha fatto storie. Voleva che ci andassimo di notte. Sembrava importante. E' successo qualcosa?>>
La polizia gli raccontò quello che era successo, chi aveva portato nel suo camion. Sbarro gli occhi e fisso l'appunto sulla sua agenda. <<Che mi venga un colpo..>>L’uomo fece una smorfia come se la sua calligrafia lo disgustasse. 18 Ottobre. <<18 ottobre: Norrkoping-Blackeberg (Stoccolma)>>: Era stato lui a portarli lì. L’uomo e sua figlia. Non lo avrebbe detto a nessuno. Mai
<<Allora, Cosa credete che sia questo?>>
Gunnar Holniberg, commissario della Centrale di polizia di Vallingby, alzò un piccolo sacchetto di plastica con dentro della polvere bianca. Forse eroina, ma nessuno ebbe il coraggio di rispondere. Nessuno voleva essere sospettato di conoscere roba simile. Specialmente chi aveva un fratello o un amico del fratello che la usava. Che si iniettava horse. Persino le ragazze erano rimaste in silenzio. Il poliziotto scosse il sacchetto.
<<Credete che possa essere lievito per dolci? Farina?»
Un mormorio negativo. Il poliziotto non doveva credere che quelli della classe 6B fossero degli idioti. In verità, era impossibile decidere cosa c’era all’interno del piccolo sacchetto, ma la lezione era sulla droga, quindi era possibile trarre delle conclusioni. Il poliziotto si rivolse all’insegnante.
<<Ma non imparano l’economia domestica?>>
L’insegnante sorrise e scrollò le spalle. La classe scoppiò in una risata, il piedipiatti era okay. Prima dell’inizio della lezione, aveva persino lasciato che alcuni ragazzi toccassero la sua pistola. Scarica naturalmente, però... Qskar era eccitato. Conosceva la risposta. Odiava stare zitto quando conosceva la risposta giusta. Sapeva che quello che stava per fare era stupido, ma alzo la mano ugualmente.
<<Si?>>
<<E eroina, non e vero?»
<<Proprio così>> disse il poliziotto con uno sguardo gentile.
<<Come hai fatto a indovinarlo?>>
I compagni si girarono Verso di lui, curiosi di sentire quello che rispondeva.
<<Be’, io... leggo molto.>>
Il poliziotto annui.
<<Leggere è una bella abitudine>> disse scuotendo il sacchetto.
<<Ma se uno usa questa roba non ha molto tempo per farlo. Quanto pensate che valga questo sacchetto?>>
Oskar non aveva bisogno di aggiungere altro. Aveva avuto il suo momento di attenzione. Aveva persino potuto dire che leggeva molto. Era molto più di quanto sperasse (….)
(….) Rimase immobile. Gli era sembrato di sentire un rumore. Si guardò intorno, il coltello pronto all’altezza dell’anca. Poi lo alzò e lo fissò. La punta della lama era lucida come prima. Usò la lama come uno specchio e la rivolse verso il castello di tubi. C’era qualcuno li. Qualcuno che prima non c’era. Una silhouette incerta. Abbasso il coltello e si giro verso il Castello. Si. Ma non era l’assassino di Vallingby. Era una ragazzina. C’era abbastanza luce per stabilire che era una ragazzina che non aveva mai visto prima nel cortile. Oskar fece un passo avanti. Lei non si mosse. Rimase immobile continuando a fissarlo. Fece un altro passo avanti e improvvisamente ebbe paura. Per cosa? Per se stesso. Si stava avvicinando alla ragazzina con il coltello stretto in mano per colpirla. Non era cosi. Ma per un attimo era stato cosi. Ma lei non aveva paura? Oskar si fermò, infilò il coltello nella guaina e lo mise sotto la giacca.
<<Ciao.>>
La ragazzina non rispose. Adesso, Qskar era abbastanza vicino da vedere che aveva capelli scuri, un volto minuto e grandi occhi. Occhi spalancati ma calmi. Teneva le mani chiare sui tubi del Castello.
<<Ho detto ciao.>>
<<Ti ho sentito>>
<<Perché non hai risposto, allora?>>
Lei scrollò le spalle. La sua voce non era acuta come si era aspettato. Era la Voce di qualcuno della sua stessa età. Aveva un aspetto strano. Capelli neri lunghi fino alle spalle. Un volto rotondo e un piccolo naso. Come una di quelle bambole che vendevano nel reparto giocattoli del supermercato. Era molto... carina. Ma c’era qualcos’altro. Non portava né giacca né berretto. Soltanto una sottile felpa rosa, anche se faceva piuttosto freddo. La ragazza fece un cenno con il capo in direzione dell’albero nel quale Oskar aveva piantato il coltello.
<<Cosa stavi facendo?>> Oskar arrossì, ma lei probabilmente non poteva notarlo al buio.
<<Mi sto allenando.>>
<<Per cosa?»
<<Nel caso arrivi l’assassino.>>
<<Quale assassino?>>
<<Quello di Vallingby. Quello che ha fatto a pezzi quel ragazzo.>>
La ragazza sospirò, alzò gli occhi e guardo la luna. Poi si chinò in avanti.
<<Hai paura?>>
<<No, ma c’è un assassino, e... e bene se uno può... difendersi. Abiti qui?>>
<<Si.»
<<Dove?>>
<<Li>> indicò il portone accanto a quello di Oskar. <<Nella casa di fianco alla tua.>>
<<Come fai a sapere che abito li?>>
<<Ti ho visto dalla finestra.>>
Le guance di Oskar si infiammarono. Mentre cercava di pensare a cosa doveva dire, lei sali sul Castello e, arrivata in cima, saltò giù, atterrando proprio davanti a lui. Un salto di due metri. Probabilmente fa ginnastica o qualcosa di simile.
Era alta quasi quanto lui, ma più magra. Sotto la maglia rosa si intravedeva un accenno di seno. I suoi occhi erano scuri e il pallore del volto li faceva sembrare più grandi. Alzò una mano davanti a lui quasi a bloccare qualcosa che si stava avvicinando. Aveva dita lunghe e sottili come ramoscelli.
<<Non possiamo diventare amici. Volevo solo dirtelo.>>
Oskar incrociò le braccia e sentì il contorno del coltello sotto la giacca.
<<Perché?>>
Un angolo della bocca della ragazza si alzo in una specie di sorriso.
<<C’è bisogno di un motivo? Volevo che tu lo sapessi e basta.>>
<<Si. Ho capito.>>
La ragazza si girò e si diresse verso il suo portone.
<<Credi veramente che voglio diventare tuo amico? Devi essere proprio stupida.>> ,
La ragazza si fermò. Rimase ferma un attimo. Poi si girò, tornò da Oskar e lo fissò incrociando le dita.
<<Cosa hai detto?>>
Oskar strinse ancora di più le braccia intorno al torace e mise la mano sul manico del coltello.
<<Ho detto che sei stupida... a dire quello che hai detto.>>
<<Sono stupida?»
<<Si.>>
<<Mi dispiace. Ma è cosi.»
Rimasero immobili a mezzo metro l’uno dall’altra. Oskar teneva lo sguardo fisso a terra. Dalla ragazza fluiva uno strano odore. Un anno prima, Bobby, il suo cane, aveva avuto un infezione alle zampe ed erano stati costretti a portarlo dal veterinario per mettere fine alle sue sofferenze. Il giorno prima, Oskar non era andato a scuola ed era rimasto disteso per ore accanto al cane per dirgli addio. Quel giorno Bobby aveva lo stesso odore della ragazza. Oskar arricciò il naso.
<<Sei tu che hai questo odore strano?»
<<Se proprio vuoi saperlo, si.>>
Oskar alzò lo sguardo da terra. Si era pentito di quello che aveva detto. Aveva un aspetto cosi... fragile, con quella sua maglia leggera. Oskar staccò le braccia dal torace e fece un gesto verso di lei.
<<Non hai freddo?>>
<<No.>>
<<Come mai?>>
La ragazza inarcò le sopracciglia, per un attimo sembrò molto più vecchia della sua età. Come una donna anziana che sta per scoppiare in lacrime.
<<Ho dimenticato come si fa ad avere freddo.>>
Si girò e si, avviò a passo svelto verso casa. Oskar rimase fermo a osservarla. Quando la ragazza arrivò davanti al pesante portone, Oskar si aspettò che usasse tutte e due le mani per aprirlo. Ma al contrario, lei lo spinse con una sola mano, entrò, e se lo richiuse alle spalle. Oskar infilò le mani nelle tasche della giacca. Era triste. Pensava a suo cane Bobby. Alla bara di legno che il papà aveva costruito. Alla croce che aveva fatto durante l’ora di falegnameria a scuola e che si era spezzata quando avevano cercato di piantarla nella terra gelida. Avrebbe dovuto farne un’altra.
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