il valoroso esercito israeliano |
Nell’ultimo mese la tensione in Palestina e in Israele è cresciuta
fino ad esplodere in scontri, omicidi, esecuzioni sommarie da parte
dell’esercito e fitte sassaiole. Le immagini sono arrivate nelle nostre
case dai telegiornali, con giornalisti che, con funambolica abilità, con
la solita litania ci dicono che gli israeliani si difendono dai
terroristi. Ormai si aggiornano solo i numeri.
E’ diventato questo il conflitto israelo-palestinese per i media?
Ebbene sì un susseguirsi di numeri aggiornati in tempo reale. Le scene
da film di Tarantino in cui feriti palestinesi, bambini o adulti che
siano, vengono ammazzati, o come dice la sicurezza israeliana
“neutralizzati”, non vengono trasmesse dai media internazionali.
Così come non lo sono le immagini del bambino ferito da un colono che
senza pietà gli grida “figlio di puttana” e chiede ai poliziotti, che
calciano il ferito, di finirlo. Le televisioni internazionali non hanno
passato il video in cui con disprezzo un colono israeliano ha sbattuto
sul viso di un ragazzino palestinese ferito che veniva trasportato su
una barella delle fette di carne di maiale, gridando “sappiamo quanto a
voi musulmani piace il maiale.” Le immagini di questi attacchi brutali
si trovano su Facebook e Twitter, ad uso di coloro che la causa
palestinese la seguono da anni e sanno già molto bene quale sia la
situazione.
Il linguaggio usato dai media, che non pronunciano mai la parola
occupazione e riportano cifre e fatti senza contesto, contribuisce
nuovamente ad isolare i palestinesi, a beneficio di Israele. Un’altra
porta in faccia a persone che da generazioni hanno fatto della
resistenza, del restare attaccati alla propria terra ad ogni costo una
ragione di vita.
“Esistere è resistere”, si legge sul Muro che Israele ha costruito
oltre la Linea Verde per prendersi terre e risorse idriche palestinesi.
Ma oggi i giovani palestinesi pensano che forse anche esistere non sia
più sufficiente perché la loro è diventata una realtà che è al di sotto
della sopravvivenza. Soffocati dall’oppressione del regime militare di
occupazione che controlla le loro vite fin dalla nascita, dal numero
sempre crescente di coloni, oggi oltre 600,000 di cui circa 300,000 solo
a Gerusalemme Est, i giovani palestinesi hanno rotto le fila
dell’immobilismo imposto dalla politica di contenimento dell’asservita
autorità palestinese.
Con i leader politici di un certo calibro dietro le sbarre delle
carceri israeliane e i burocrati neoliberisti dell’Autorità Palestinese
al potere impegnati a far quadrare i conti per ingraziarsi i generosi
donatori stranieri, occidentali o arabi che siano, i giovani palestinesi
non hanno trovato che se’ stessi come ultima ed unica “arma” per
contrastare l’occupazione. E non si può dire che non abbiano provato a
farlo con mezzi pacifici.
Forse in pochi ricordano quando nel 2011 tentarono azioni di
disobbedienza civile salendo sugli autobus riservati agli israeliani che
attraversano la Cisgiordania con destinazione Gerusalemme e furono
brutalmente picchiati e arrestati. Non fa notizia il fotografo
palestinese che, nonostante abbia avuto entrambe le gambe amputate a
seguito di operazioni militari, continua a chiedere giustizia
pubblicando le foto di Gaza in macerie. Non hanno fatto notizia i
ragazzi e le ragazze vestiti come i personaggi di avatar per protestare
contro il muro che a Bil’in gli porta via le terre che le loro famiglie
hanno coltivato da generazioni, che gli porta via il futuro.
Stanchi anche dell’indifferenza della politica internazionale, che ha
ridicolizzato i timidi tentativi dei burocrati palestinesi di far uso
dei meccanismi di giustizia internazionale, i giovani palestinesi non
possono fare altro che prendere in mano il proprio futuro; è la loro
unica possibilità di sopravvivenza. Non gli resta altro che danzare la
debke mentre lanciano un sasso contro una jeep dell’esercito israeliano o
andare verso morte certa colpendo con un coltello chi è partecipe, più o
meno consapevole, di un sistema coloniale che da decenni li umilia e li
opprime.
Sarebbe miope pensare che quello a cui stiamo assistendo in questi
giorni sia la reazione alle restrizioni che Israele ha imposto un mese
fa all’accesso alla moschea di Al Aqsa o che da parte israeliana la
furia sia stata scatenata dall’attacco in cui hanno perso la vita due
coloni israeliani nei pressi di Nablus.
Le violenze e le manifestazioni di questi giorni sono la cartina
tornasole del fallimento degli accordi di Oslo, della pace economica di
Saeb Erekat, della soluzione a due stati. Da parte palestinese è
tragicamente sfociato in impotenza l’ottimismo di coloro che, non avendo
capito che i lunghi documenti degli Accordi di Oslo altro non erano che
una trappola per sottrarre ai palestinesi il controllo delle proprie
terre, risorse e del proprio destino, vent’anni dopo, si sono solo
trovati inermi e indebitati con le banche.
In questo clima di frustrazione, di slogan politici e nazionalisti
che non erano altro che parole portate via dal vento, sono cresciuti i
ragazzi e le ragazze che, con l’incoscienza e spudoratezza della loro
età, oggi affrontano a volto coperto e con le mani piene di pietre un
nemico crudele e inesorabile. Anche i bambini, cresciuti nei campi
profughi o in una Gerusalemme est intrisa di tensione e paura, che hanno
visto i propri parenti e i compagni di scuola picchiati e arrestati
dalle forze di sicurezza israeliane, si sentono grandi e prendono parte
ad un gioco al massacro più grande di loro.
Chi dovrebbe proteggerli ancora sembra non aver capito che le regole
del gioco sono cambiate e che uccidere a sangue freddo un bambino
palestinese per Israele è ordinaria amministrazione. A Gaza durante
l’attacco dell’estate 2014, Israele ha ucciso oltre 550 bambini e non ha
mostrato rimorsi, tanto meno la comunità internazionale ha alzato la
voce per far capire che certe morti innocenti non possono essere
tollerate, al contrario i dati di quest’anno indicano trend positivi nel
settore industriale bellico israeliano.
Gli israeliani, scampato ogni pericolo che il sogno palestinese di
oslo potesse diventare realtà, stanno dando libero sfogo alla fobia
dell’arabo e alla voglia di vendetta generati dalla propaganda del
terrore e dalla disumanizzazione ideologica dei palestinesi che pervade
il sistema dell’istruzione, l’esercito e i media israeliani e
internazionali.
La disumanizzazione dei palestinesi agli occhi degli israeliani è
ulteriormente rafforzata dalla separazione fisica che i due gruppi hanno
subito a causa delle politiche adottate da Israele e culminate con la
costruzione del Muro e la chiusura di Gaza. In una società profondamente
militarizzata è facile instillare disprezzo e senso di superiorità
verso coloro tenuti sotto il giogo militare e coloniale. I continui
attacchi dei coloni contro i palestinesi, le migliaia di ulivi
sradicati, le case palestinesi bruciate e la morte di famiglie innocenti
sono testimonianza di questi sentimenti.
Negli ultimi giorni questa violenza è sfociata in follia e caccia
all’arabo, per cui il minimo sospetto legittima agli occhi
dell’israeliano e dell’occidentale medio esecuzioni sommarie come quella
avvenuta nella stazione degli autobus di Afula. La gravità della
situazione è confermata dall’impunità con cui tutto questo avviene, ad
ulteriore conferma del fatto che le autorità israeliane sono non solo
complici ma istigatrici di questa violenza.
Gestire il livello di violenza a seconda delle necessità politiche è
una delle tattiche con cui Israele si destreggia abilmente per
assicurarsi la coesione interna e l’appoggio incondizionato delle
potenze occidentali unite nella lotta al terrorismo. Fino a che il
conflitto israelo-palestinese sarà confinato nella retorica del
terrorismo il ciclo di violenza non si arresterà.
Fino a che non si condannerà l’occupazione israeliana in maniera
categorica chiedendone la fine incondizionata, i ragazzi palestinesi
continueranno a morire ammazzati senza che nessun rappresentanza
politica rivendichi queste giovani vite. I ragazzi e le ragazze
palestinesi che in questi giorni hanno accettato di sfidare la morte
anche semplicemente uscendo da casa o da scuola, l’hanno fatto con la
triste consapevolezza di non avere nessun esercito che si mobiliterà in
loro difesa e che nessuna sentenza punirà mai i colpevoli della loro
morte.
E’ difficile prevedere quali potranno essere gli sviluppi di una
situazione in cui i responsabili politici, da un parte gli israeliani
per un piano preordinato e dall’altra la leadership palestinese per
debolezza politica e interesse, hanno rispettivamente voluto e lasciato
che il conflitto sfociasse nella violenza privata. Il sindaco di
Gerusalemme che esorta i propri cittadini ad armarsi e le misure
punitive adottate dal Governo israeliano di chiudere alcuni quartieri di
Gerusalemme Est e di non restituire i corpi dei palestinesi coinvolti
in attacchi contro israeliani sono benzina sul fuoco, ed indicano che
Israele intende far affogare la causa palestinese nel sangue.
Il rappresentante diplomatico palestinese alle Nazioni Unite ieri ha
affermato che i Palestinesi necessitano della protezione delle forze
delle Nazioni Unite, forse dimenticandosi che tale forza può essere
autorizzata solo dal Consiglio di Sicurezza, l’organo delle Nazioni
Unite che da sempre è stato ostile verso l’adozione di misure efficaci
contro le violazioni israeliane a causa del diritto di veto dell’alleato
chiave di Israele: gli Stati Uniti.
Forse avrebbe dovuto prendere nota del comunicato con cui
l’amministrazione americana condannava gli attacchi contro gli
israeliani senza far alcun riferimento ai morti palestinesi, che in meno
di due settimane sono arrivati ad oltre 30. Il resto della comunità
internazionale, impegnata in manovre bellico-diplomatiche
sull’ingestibile fronte siriano, si è limitata a poche frasi di routine
senza mordente.
Il presidente palestinese Abu Mazen ha dimostrato di aver perso
completamente il polso della situazione e ha ribadito il proprio impegno
per la pace e chiesto la fine dell’occupazione. Impegnarsi per la fine
dell’occupazione con ogni mezzo e senza concessioni, per avere libertà,
giustizia e rispetto per i propri diritti per arrivare a parlare di
pace, è invece quello che oggi chiedono i giovani palestinesi, in
Palestina e in Israele.
Ora più che mai sentono che il tempo è loro nemico e che
l’occupazione li sta strangolando. E si sa, chi si sente afferrato alla
gola non può che reagire scalciando violentemente per liberarsi dalla
presa e non soccombere per la mancanza di ossigeno.
Se questa sia una terza intifada o meno poco importa, non è
importante darle un nome, è importante capirne il messaggio: la politica
a tutti i livelli e per ragioni diverse ha fallito, ha lasciato le
persone indifese e gli individui devono far cambiare la politica.
Questo messaggio sembra essere arrivato anche ai palestinesi
cittadini d’Israele e agli arabi israeliani che hanno indetto uno
sciopero generale e in circa 200,000 hanno dimostrato a Sakhnin, nel
nord di Israele, in solidarietà con i palestinesi sotto occupazione. A
questa specifica manifestazione avrebbero dovuto aggiungersi gli ebrei
israeliani, in quanto vittime della manipolazione e delle politiche
coloniali israeliane.
Dovremmo tutti riempire le strade delle capitali europee, di New
York, di Pechino, fare come a Santiago del Cile, avere il coraggio di
esigere dai nostri politici di smetterla con l’ipocrisia di considerare
le parti del conflitto israelo-palestinese come duellanti ad armi pari e
di riconoscere che Israele detiene le chiavi per la soluzione di questo
conflitto, che non è né religioso né lotta al terrorismo, ma un regime
coloniale e razzista camuffato da occupazione militare. Riprendiamoci
anche noi, come stanno facendo i giovani palestinesi il potere nelle
nostre mani e facciamo sentire la nostra voce di dissenso nei confronti
dei nostri stati per la loro connivenza con i crimini commessi da
Israele.
Dobbiamo far in modo che la comunità internazionale sia costretta a
mandare un segnale forte, assordante, che faccia sentire Israele a
disagio con il resto degli alleati di sempre. Non è questo che si fa
anche con un amico quando, dopo ripetute rimostranze, continua dritto
per la sua strada? Ad un certo punto lo si allontana per incoraggiarlo a
riflettere e cambiare atteggiamento.
E allora abbiamo il dovere di chiedere che i nostri stati cessino di
fornire armi ad Israele, di puntare il dito ogni volta che la nostra
politica estera filo-israeliana contribuisce a rafforzare l’occupazione,
di rifiutarci di vedere nei nostri supermercati prodotti delle colonie
israeliane in Palestina. Se alzassimo la testa e facessimo sentire la
nostra voce e il nostro appoggio aiuteremmo questi giovani palestinesi a
non dubitare che “Esistere è Resistere”, insieme.
La terza intifada, per quelli che vogliono chiamarla in questo modo, è
una lotta a mani nude per la libertà e contro l’oppressione, che
dovrebbe andare oltre i confini della Palestina, per dare a tutti noi di
nuovo il coraggio di prendere in mano una pietra per scagliarla contro
il muro d’indifferenza dei nostri politici, per far valere i nostri
diritti.
BDS ITALIA
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