07/04/15

Bellezza e tristezza, River Phoenix

Direttamente dagli anni '90..

BELLEZZA E TRISTEZZA
La morte di River Phoenix ha sorpreso e depresso tutti quelli che conosco, persino chi liquidava il divismo cinematografico come una forma di ipnosi di massa indotta dalle corporation. Circa settantadue ore dopo il collasso fatale, io e un amico disincantato ci siamo imbattuti in una recente intervista televisiva dove il coscienzioso giovane attore illustrava i suoi progetti futuri, e siamo scoppiati a piangere sconvolti. Strano. Quello che ripetiamo di continuo: strano che sia morto; strano che ci colpisca tanto. E come se in segreto lo ammirassero in molti: la sua arte di attore incontrava il favore degli spettatori, indipendentemente dalla debolezza del film o dall’iniziale freddezza del pubblico. Mentre scrivo, Hard Copy, che non è certo un programma noto per il suo rigore morale, sta coprendo di lodi un paparazzo che non se l’e sentita di fotografare le convulsioni dell’attore agonizzante.
Le voci che giravano, anche nelle rubriche di gossip, garantivano che Phoenix conducesse un’esistenza abbastanza integra e decorosa, rispetto ai suoi colleghi: progressista, vegetariano e appassionato di poesia, senza l’antipatia di Shannen Doherty, l'autodistruttività di Judd Nelson, la boria di Mickey Rourke. Ugni tanto qualcuno giurava di averlo visto in disparte, teso e solitario, all’inaugurazione di qualche galleria d’arte: il perfomer sadomaso Bob Flanagan, ex componente della compagnia di improvvisazione comica Groundlings, ricorda Phoenix barcollare ubriaco sul palco durante uno dei loro sketch. Bella scoperta, era un ragazzino. Quasi sempre, invece, sembrava troppo serio, incapace di rilassarsi, di liberare la mente. In un recente numero della rivista Detour, Phoenix criticava aspramente l'egocentrismo di molti suoi colleghi, e diceva di voler lasciare non solo Los Angeles, ma addirittura questo miserabile paese. Eppure, continuava a vivere qui, ed è qui che è morto, in un locale trendy, sotto l’effetto di stupefacenti. Quindi ai difficile farsi un’idea. La morte concentra l’attenzione sulle persone anche se in alcuni casi il processo di demistificazione richiede anni. Non dovrebbe essere il caso di Phoenix, visto che la sua sincerità e la sua franchezza non sono mai state in dubbio. In definitiva, salvo rivelazioni imprevedibili, il suo nome, le sue interpretazioni, acquisiranno quella sacralità che la gente attribuisce d’istinto per riempire il vuoto lasciato da chi scompare prematuramente.
Come tanti esperti vanno gia predicando, Phoenix diventerà il nostro James Dean. Mentre i suoi colleghi “outsider” come Keanu Reeves, Matt Dillon e altri, se saranno fortunati, saranno costretti automaticamente a diventare i nostri Marlon Brando. E questo perché gli attori non possono competere con i loro fan, e le vette interpretative che finiremo per attribuire a un immaginario Phoenix maturo inevitabilmente supereranno le eventuali prodezze di un Phoenix ancora vivo. Messa cosi la vita sembra strana, e anche un po’ nauseante. I paragoni tra Phoenix e James Dean sono ridicoli, oltre che inflazionati, sebbene i due abbiano effettivamente in comune molte delle qualità che distinguono i grandi attori dai semplici prodotti mediatici. Tutti e due erano grandi perfezionisti, anche se incapaci di reprimere le proprie emozioni dietro una personalità artificiale. Anche in ruoli secondari - il giovane hippie scervellato di Ti amerò . .. fino ad ammazzarti, il poeta/ Casanova di Le mgazze di Jimmy, il figlio devoto e terrorizzato del megalomane Harrison Ford in Morquiio Coast - Phoenix è sempre stato un po’ piu sensibile e ispirato - più vero - di chiunque altro sullo schermo. Persino nel contesto atipico e problematico delle marchette di Portland in Belli e Dannati, il Mike di Phoenix si distingueva per il suo insolito appartarsi - spaventato e meravigliato dallo squallore della sua situazione, alla ricerca disperata di affetto e al tempo stesso allergico alla compassione altrui. Un’interpretazione che, come la maggior parte di quelle di Dean, sembrava distillare il disagio e la malinconia di una generazione emergente.

Phoenix era figlio di hippie. A volte descriveva il proprio stile di recitazione come lo sforzo di rappresentare i suoi sentimenti nel barattare l’umanesimo della propria famiglia con l’odio dell’industria cinematografica per l’individuo. L’attrice/ performer Ann Magnuson, protagonista con Phoenix di Le mgazze di Jimmy, una volta mi ha fatto notare con un certo stupore come anche nella fase teen idol della sua carriera, avesse sempre un’aria seria e rigorosa. Entrata nello showbiz con sentimenti contrastanti, si era chiesta come, o addirittura se, Phoenix sarebhe sopravvissuto alle sue molteplici forme di corruzione. Forse proprio questa lacerazione spiega perché, col tempo, le sue interpretazioni esprimevano una crescente tristezza e un evidente disagio. Nelle sue ultime e migliori prove, interpretò ragazzini cresciuti troppo in fretta, costretti, per vivere, ad aggrapparsi agli ideali giovanili di un amore romantico e/ o familiare.
In una professione che cataloga gli esordienti in “estrosi, marginali, ma integri”, come Crispin Glover e John Lurie, oppure in “fotogenici e iper-commerciali” come Christian Slater e Robert Downey Jr., Phoenix era la classica eccezione, abbastanza sincero per stabilire un forte legame con i suoi coetanei, e abbastanza bravo per ricordare alle generazioni precedenti l’intensità che avevano perduto.
Dennis Cooper


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