Siamo inciampati in questa storia, pubblicata dal Il Post e la riproponiamo. D.B. Cooper entra di diritto e per direttissima nelle Spiritual Guidance di INTERZONE. Senza ombra di dubbio. Buona lettura...
Dan Cooper è un poco conosciuto personaggio di fumetti creato in Belgio negli anni Cinquanta: è un aviatore canadese, famoso tra le altre cose per la sua abilità nell’usare il paracadute.
Dan Cooper è anche il nome con cui un uomo si presentò all’aeroporto di Portland, in Oregon, la mattina del 24 novembre 1971. L’uomo andò al banco della Northwest Orient Airlines, e comprò un biglietto sola andata per Seattle, nello stato di Washington: un volo corto, di circa mezz’ora, con un Boeing 727-100. Una volta a bordo Cooper fumò qualche sigaretta Raleighs, ordinò un bourbon e soda e poi chiamò accanto a sé l’assistente di volo Florence Schaffner. Le diede un bigliettino su cui c’era scritto che aveva una bomba e le mostrò una valigetta al cui interno c’erano cavi e cose che sembravano confermarlo: per non farla esplodere chiese 200mila dollari (pari a più di un milione di dollari di oggi) e quattro paracadute, da farsi consegnare all’aeroporto di Seattle-Tacoma. L’aereo atterrò, Cooper ottenne quanto aveva chiesto, lasciò andare quasi tutte le persone che erano a bordo e, tenendo qualche membro dell’equipaggio sull’aereo, ordinò di prendere il volo. A un certo punto, poco dopo, prese un paracadute e si lanciò dall’aereo con i 200mila dollari. Non fu più visto da nessuno.
Sono passati quasi 45 anni e Cooper non è mai stato trovato. Ci sono state indagini, ipotesi e teorie, ma niente di sicuro: non sui soldi, non sulla sua vera identità, non sul fatto che sia o meno riuscito a sopravvivere al lancio. Il 12 luglio di quest’anno l’FBI, l’ente investigativo della polizia federale degli Stati Uniti, ha detto di aver deciso di «destinare altrove le risorse investite richieste dell’indagine su Cooper». Il comunicato dell’FBI sembra quindi essere l’ultima evoluzione di una stramba e spettacolare storia da film. È divisa in due tempi: del primo, quello fino al lancio con il paracadute, si sa quasi tutto; nel secondo ci sono invece molte pochissime cose certe.
Il cognome del protagonista è Cooper, ma già sul suo nome iniziano i problemi: all’aeroporto disse di chiamarsi Dan, quasi certamente con un implicito riferimento al personaggio dei fumetti. Per via di un errore di qualche giornalista nei primi giorni in cui si parlò del caso il suo nome è diventato per tutti D.B.. Persino l’FBI ha sempre parlato di “caso D.B. Cooper”, pur ammettendo che al banco dell’aeroporto lui disse solo di chiamarsi Dan Cooper.
Dan Cooper è un poco conosciuto personaggio di fumetti creato in Belgio negli anni Cinquanta: è un aviatore canadese, famoso tra le altre cose per la sua abilità nell’usare il paracadute.
Dan Cooper è anche il nome con cui un uomo si presentò all’aeroporto di Portland, in Oregon, la mattina del 24 novembre 1971. L’uomo andò al banco della Northwest Orient Airlines, e comprò un biglietto sola andata per Seattle, nello stato di Washington: un volo corto, di circa mezz’ora, con un Boeing 727-100. Una volta a bordo Cooper fumò qualche sigaretta Raleighs, ordinò un bourbon e soda e poi chiamò accanto a sé l’assistente di volo Florence Schaffner. Le diede un bigliettino su cui c’era scritto che aveva una bomba e le mostrò una valigetta al cui interno c’erano cavi e cose che sembravano confermarlo: per non farla esplodere chiese 200mila dollari (pari a più di un milione di dollari di oggi) e quattro paracadute, da farsi consegnare all’aeroporto di Seattle-Tacoma. L’aereo atterrò, Cooper ottenne quanto aveva chiesto, lasciò andare quasi tutte le persone che erano a bordo e, tenendo qualche membro dell’equipaggio sull’aereo, ordinò di prendere il volo. A un certo punto, poco dopo, prese un paracadute e si lanciò dall’aereo con i 200mila dollari. Non fu più visto da nessuno.
Sono passati quasi 45 anni e Cooper non è mai stato trovato. Ci sono state indagini, ipotesi e teorie, ma niente di sicuro: non sui soldi, non sulla sua vera identità, non sul fatto che sia o meno riuscito a sopravvivere al lancio. Il 12 luglio di quest’anno l’FBI, l’ente investigativo della polizia federale degli Stati Uniti, ha detto di aver deciso di «destinare altrove le risorse investite richieste dell’indagine su Cooper». Il comunicato dell’FBI sembra quindi essere l’ultima evoluzione di una stramba e spettacolare storia da film. È divisa in due tempi: del primo, quello fino al lancio con il paracadute, si sa quasi tutto; nel secondo ci sono invece molte pochissime cose certe.
Il cognome del protagonista è Cooper, ma già sul suo nome iniziano i problemi: all’aeroporto disse di chiamarsi Dan, quasi certamente con un implicito riferimento al personaggio dei fumetti. Per via di un errore di qualche giornalista nei primi giorni in cui si parlò del caso il suo nome è diventato per tutti D.B.. Persino l’FBI ha sempre parlato di “caso D.B. Cooper”, pur ammettendo che al banco dell’aeroporto lui disse solo di chiamarsi Dan Cooper.
In
base a quanto raccontato dalle persone che lo videro all’aeroporto di
Portland e poi sul volo verso l’aeroporto di Seattle-Tacoma, Cooper era
alto circa un metro e 80 centimetri, aveva tra i 40 e i 50 anni e
indossava mocassini, un completo scuro con camicia bianca e un
impermeabile. Cooper aveva anche una cravatta nera J.C. Penney con un
fermacravatta di madreperla (cravatta e fermacravatta furono trovati
sull’aereo). L’FBI ha sempre parlato di lui come di un «nondescript man»,
una persona ordinaria, senza nessun segno particolare. Cooper pagò in
contanti il suo biglietto sul volo 305 e salì a bordo con la sua
valigetta. Iniziò così quella che l’FBI ammette essere «uno dei più grandi misteri irrisolti della sua storia».
Il
24 novembre 1971 era il giorno prima della Festa del Ringraziamento e
il volo 305 era pieno circa per un terzo. C’erano 36 passeggeri e 6
membri dell’equipaggio. Il decollo fu alle 14.50 circa, Cooper era
seduto al posto 18C e chi gli era vicino ne parlò poi come di un uomo
tranquillo, rilassato, ordinario. Chiamò con fare gentile Schaffner,
l’assistente di volo, e le diede il bigliettino. Pare che all’inizio lei
non capì, pensando fosse un biglietto da visita di un uomo d’affari.
Lui le chiese allora di avvicinarsi e sussurrò: «Signorina, è meglio che
lo legga. Ho una bomba». Schaffner disse poi di aver visto cavi e fili
collegati a una specie di batteria e cose che potevano effettivamente
far pensare che lì dentro ci fosse una bomba. Cooper disse a Schaffner
di sedersi accanto a lui e le fece scrivere le sue richieste – i soldi, i
paracadute e un’autobotte per fare rifornimento all’aereo, pronta
all’aeroporto di Seattle-Tacoma – dicendole poi di farle avere al
comandante dell’aereo. Non si sa con certezza cosa c’era scritto sul
bigliettino perché a un certo punto Cooper lo richiese indietro per non
lasciare un indizio.
Schaffer andò dal pilota – William Scott – e lui contattò la torre di controllo dell’aeroporto di Seattle, dicendo cos’era successo. Ai passeggeri fu detto che c’era un piccolo problema e l’atterraggio sarebbe stato ritardato: né l’equipaggio né Cooper fecero sapere agli altri passeggeri che – forse – c’era una bomba a bordo. L’aereo restò in aria per circa due ore, girando intorno all’aeroporto in attesa che l’FBI – che nel frattempo aveva acconsentito alle richiesti di Cooper – preparasse tutto il necessario. Schaffner disse che quando ritornò da Cooper lui indossava degli scuri occhiali da sole e che, guardando fuori dal finestrino, dimostrò di conoscere la zona: le disse per esempio che lì sotto c’era la città di Tacoma, indicandola, e che a 20 minuti dall’aeroporto c’era una base militare. Dopo aver saputo che l’FBI aveva detto sì alle sue richieste Cooper ordinò un altro bourbon e soda e lo pagò (insistendo perché l’assistente di volo tenesse il resto).
Schaffer andò dal pilota – William Scott – e lui contattò la torre di controllo dell’aeroporto di Seattle, dicendo cos’era successo. Ai passeggeri fu detto che c’era un piccolo problema e l’atterraggio sarebbe stato ritardato: né l’equipaggio né Cooper fecero sapere agli altri passeggeri che – forse – c’era una bomba a bordo. L’aereo restò in aria per circa due ore, girando intorno all’aeroporto in attesa che l’FBI – che nel frattempo aveva acconsentito alle richiesti di Cooper – preparasse tutto il necessario. Schaffner disse che quando ritornò da Cooper lui indossava degli scuri occhiali da sole e che, guardando fuori dal finestrino, dimostrò di conoscere la zona: le disse per esempio che lì sotto c’era la città di Tacoma, indicandola, e che a 20 minuti dall’aeroporto c’era una base militare. Dopo aver saputo che l’FBI aveva detto sì alle sue richieste Cooper ordinò un altro bourbon e soda e lo pagò (insistendo perché l’assistente di volo tenesse il resto).
L’aereo atterrò a Seattle alle 17.40 e Cooper
si dimostrò esperto nel dire al pilota cosa fare: disse per esempio di
spegnere ogni luce, per evitare che eventuali cecchini potessero
individuarlo e colpirlo. L’FBI aveva nel frattempo raccolto i soldi: nel
classico “piccolo taglio” e “non segnate”, come nei film. L’FBI aveva
elaborato comunque un modo per poter riconoscere quei soldi: fu fatto un
microfilm di ogni banconota e la maggior parte erano identificate da un
“numero di serie” simile. Cooper aveva chiesto due paracadute primari e
due di scorta. L’FBI gli propose dei paracadute militari ma lui li
rifiutò chiedendo dei più semplici paracadute civili. Non è chiaro
perché o se fece apposta: disse a Schaffner di conoscere la base
militare (facendo pensare di poter essere o essere stato un militare),
ma rifiutò i paracadute militari (facendo pensare di non essere in gradi
di usarli). Forse sono coincidenze, forse era solo esperto in
geografia, o forse era un genio.
Cooper ottenne ciò che aveva chiesto e in cambio liberò tutti i passeggeri e quasi tutti i membri dell’equipaggio, compresa Schaffner. A quelli che restarono sull’aereo disse di decollare e andare a sud-est verso Città del Messico, volando alla minore velocità possibile e senza superare mai i tremila metri d’altezza. Anche in quel momento Cooper dimostrò di intendersene di aerei, facendo capire a Scott e al suo copilota che sapeva cosa andava fatto per volare a quella certa velocità e a quella altezza. E loro lo fecero. Cooper si dimostrò comunque piuttosto comprensivo: disse di voler partire con il portellone posteriore aperto: gli fu detto che era pericoloso, e lui rispose che secondo lui non c’era nessun pericolo ma, comunque, disse che lo poteva anche chiudere, e così fece. L’aereo decollò da Seattle alle 19.40: a bordo c’erano Cooper, Scott, il copilota, e altri due membri dell’equipaggio. Accanto all’aereo cominciarono a volare anche due caccia F-106, che erano lì per tenerlo d’occhio.
Alle 20 circa Cooper fece andare tutti nella cabina di pilotaggio e disse loro di chiudersi dentro. Da lì loro videro una spia accendersi. Cooper stava per aprire il portellone posteriore dell’aereo: il pilota gli chiese cosa stava succedendo; lui disse di non preoccuparsi che era tutto sotto controllo, aprì il portellone e si buttò giù, con il paracadute. Era buio e pioveva piuttosto forte.
Cooper ottenne ciò che aveva chiesto e in cambio liberò tutti i passeggeri e quasi tutti i membri dell’equipaggio, compresa Schaffner. A quelli che restarono sull’aereo disse di decollare e andare a sud-est verso Città del Messico, volando alla minore velocità possibile e senza superare mai i tremila metri d’altezza. Anche in quel momento Cooper dimostrò di intendersene di aerei, facendo capire a Scott e al suo copilota che sapeva cosa andava fatto per volare a quella certa velocità e a quella altezza. E loro lo fecero. Cooper si dimostrò comunque piuttosto comprensivo: disse di voler partire con il portellone posteriore aperto: gli fu detto che era pericoloso, e lui rispose che secondo lui non c’era nessun pericolo ma, comunque, disse che lo poteva anche chiudere, e così fece. L’aereo decollò da Seattle alle 19.40: a bordo c’erano Cooper, Scott, il copilota, e altri due membri dell’equipaggio. Accanto all’aereo cominciarono a volare anche due caccia F-106, che erano lì per tenerlo d’occhio.
Alle 20 circa Cooper fece andare tutti nella cabina di pilotaggio e disse loro di chiudersi dentro. Da lì loro videro una spia accendersi. Cooper stava per aprire il portellone posteriore dell’aereo: il pilota gli chiese cosa stava succedendo; lui disse di non preoccuparsi che era tutto sotto controllo, aprì il portellone e si buttò giù, con il paracadute. Era buio e pioveva piuttosto forte.
L’aereo
atterrò poco dopo le 22 all’aeroporto di Reno, in Nevada. Di Cooper si
seppe solo che si era buttato dall’aereo da qualche parte tra Seattle e
Reno. È difficile dirlo con precisione ma si pensa che arrivò a terra da
qualche parte vicino al fiume Washougal, nello stato di Washington. La
valle del Washougal fu perlustrata per ore ma non si trovò niente,
nemmeno il paracadute. Nel 1980 un bambino trovò in quelle zone – vicino
al fiume Columbia (di cui il Washougal è un affluente) – tre pacchetti
di banconote da 20 dollari, per un valore totale di 5.800 dollari. L’FBI
le analizzò e disse che facevano parte di quelle date nove anni prima a
Cooper.
Nei 44 anni, 7 mesi e 18 giorni in cui l’FBI ha indagato sul “caso D.B. Cooper” non ci sono state molte altre cose concrete, solide e sicure. L’FBI ha detto di aver «interrogato centinaia di persone, seguito ogni tipo d’indizio in giro per gli Stati Uniti e perlustrato nel dettaglio l’aereo». L’FBI ha anche spiegato che già solo nei primi cinque anni d’indagine aveva già individuato più di 800 sospetti, conservando solo qualche piccola speranza su una ventina di loro. L’FBI ha anche scritto:
Forse Cooper non riuscì a sopravvivere al salto. Il paracadute che usò non poteva essere “manovrato”, i suoi vestiti e le sue scarpe erano inadatti a un atterraggio di quel tipo, e lui saltò di notte sopra una zona piena di boschi: un posto pericoloso per un paracadutista esperto, e l’evidenza suggerisce che Cooper non lo era [pare che come paracadute di scorta ne prese uno finto e inutile].
Le indagini su Cooper ebbero una piccola ripresa nel 2007, quando del caso si occupò l’agente dell’FBI Larry Carr, che spiegò che nel 2001 era stato ottenuto un campione di DNA dal fermacravatta di Cooper. Fu però utile per escludere sospetti, non per arrestarne altri. Il test del DNA permise per esempio di escludere Duane Weber, un uomo che poco prima di morire aveva detto di essere Cooper. Uno dei tanti, in realtà: negli anni molte persone si auto-denunciarono o dissero di credere che qualche loro amico, parente o familiare poteva essere Cooper. In alcuni casi erano mitomani, in altri persone che in buona fede, scambiavano un quarantenne alto un metro e ottanta – un «nondescript man» – per Cooper.
È però grazie a Carr che si scoprì, solo nel 2009, che esisteva il Dan Cooper dei fumetti. Carr lo venne a sapere vagando tra i tanti forum online in cui si parla del caso, spesso con una quasi-venerazione per Cooper. La teoria di Carr è che Cooper fece il militare prima del dirottamento, magari in Francia o in Belgio: solo lì, e solo conoscendo un po’ di francese, avrebbe potuto leggere i fumetti su Dan Cooper, mai tradotti in inglese. Carr pensa anche che dopo aver fatto il militare Cooper ebbe un lavoro, magari come addetto al carico-scarico in aeroporto, che gli permise di imparare quello che sapeva sugli aerei. Sono però supposizioni, più che solidi indizi. Motivo per cui l’FBI ha deciso di chiudere il caso, lasciandolo irrisolto. Dovesse essere vivo Cooper potrebbe avere oggi poco meno o poco più di 100 anni. Su di lui sono stati scritti libri e canzoni e c’è pure qualche film: nessuno è però particolarmente bello, non tanto quanto la storia richiederebbe. Il New York Times ha scritto che vicino ad Ariel, una cittadina vicino a dove si pensa Cooper atterrò, c’è ogni anno il D.B. Cooper Festival.
Nei 44 anni, 7 mesi e 18 giorni in cui l’FBI ha indagato sul “caso D.B. Cooper” non ci sono state molte altre cose concrete, solide e sicure. L’FBI ha detto di aver «interrogato centinaia di persone, seguito ogni tipo d’indizio in giro per gli Stati Uniti e perlustrato nel dettaglio l’aereo». L’FBI ha anche spiegato che già solo nei primi cinque anni d’indagine aveva già individuato più di 800 sospetti, conservando solo qualche piccola speranza su una ventina di loro. L’FBI ha anche scritto:
Forse Cooper non riuscì a sopravvivere al salto. Il paracadute che usò non poteva essere “manovrato”, i suoi vestiti e le sue scarpe erano inadatti a un atterraggio di quel tipo, e lui saltò di notte sopra una zona piena di boschi: un posto pericoloso per un paracadutista esperto, e l’evidenza suggerisce che Cooper non lo era [pare che come paracadute di scorta ne prese uno finto e inutile].
Le indagini su Cooper ebbero una piccola ripresa nel 2007, quando del caso si occupò l’agente dell’FBI Larry Carr, che spiegò che nel 2001 era stato ottenuto un campione di DNA dal fermacravatta di Cooper. Fu però utile per escludere sospetti, non per arrestarne altri. Il test del DNA permise per esempio di escludere Duane Weber, un uomo che poco prima di morire aveva detto di essere Cooper. Uno dei tanti, in realtà: negli anni molte persone si auto-denunciarono o dissero di credere che qualche loro amico, parente o familiare poteva essere Cooper. In alcuni casi erano mitomani, in altri persone che in buona fede, scambiavano un quarantenne alto un metro e ottanta – un «nondescript man» – per Cooper.
È però grazie a Carr che si scoprì, solo nel 2009, che esisteva il Dan Cooper dei fumetti. Carr lo venne a sapere vagando tra i tanti forum online in cui si parla del caso, spesso con una quasi-venerazione per Cooper. La teoria di Carr è che Cooper fece il militare prima del dirottamento, magari in Francia o in Belgio: solo lì, e solo conoscendo un po’ di francese, avrebbe potuto leggere i fumetti su Dan Cooper, mai tradotti in inglese. Carr pensa anche che dopo aver fatto il militare Cooper ebbe un lavoro, magari come addetto al carico-scarico in aeroporto, che gli permise di imparare quello che sapeva sugli aerei. Sono però supposizioni, più che solidi indizi. Motivo per cui l’FBI ha deciso di chiudere il caso, lasciandolo irrisolto. Dovesse essere vivo Cooper potrebbe avere oggi poco meno o poco più di 100 anni. Su di lui sono stati scritti libri e canzoni e c’è pure qualche film: nessuno è però particolarmente bello, non tanto quanto la storia richiederebbe. Il New York Times ha scritto che vicino ad Ariel, una cittadina vicino a dove si pensa Cooper atterrò, c’è ogni anno il D.B. Cooper Festival.
fonte:
Il Post
Nessun commento:
Posta un commento