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03/07/15

Documentari Indi, da non perdere

Ancora Documentari, che fioccano e scoppiano positivamente nel mese di luglio, il che è un sollievo, dal momento che l'offerta cinematografica nelle sale è un piuttosto debole in questo periodo. Ce ne sono davvero tanti da vedere, dai profili di autentiche icone a drammi politici e sociali. Documentari comunque "indi": ne segnaliamo quì una mezza dozzina, da non lascirsi sfuggire.


Stray Dog
Data di uscita: 3 luglio
Regia: Debra Granik
Un racconto dell’America profonda, sotto forma di documentario e road movie. E' questo Stray Dog di Debra Granik, che ci racconta tutti i miti americani:i biker con le loro Harley Davidson e i loro tatuaggi, il viaggio on the road, il tragitto coast to coas, e un ritratto impietoso dell’America profonda,con questi vecchi e grassi bikers che parlano di libertà e democrazia inneggiando ai valorosi soldati morti in Vietnam, Iraq, Afghanistan e in altri sfraceli americani in giro per il mondo, in quelle che definiscono "guerre giuste". E continuano tra squallide grigliate, regali di armi (un fucile) ai figli adolescenti, preghiere in cui si ringrazia per il cibo, e per il dentista e pregandolo affinché conceda nuovi modi per fare soldi.Tristezza infinita..


The Look of Silence
Data di uscita: 17 luglio
Regia: Joshua Oppenheimer
Joshua Oppenheimer torna alla terribile storia del 1965 in indonesia, al colpo di stato militare e alla conseguente uccisione di oltre un milione di "comunisti" - un lavoro ancora più diretto e devastante del precedente"The Act of Killing". Questa volta, la prospettiva è spostato: la sua attenzione è rivolta ai sopravvissuti e alle famiglie degli assassinati. Primo fra tutti Adi, un uomo di mezza età il cui fratello è stato ucciso, brutalmente, a Snake River, e che conduce, con l'assistenza di Oppenheimer, una serie di interviste con i responsabili, in evidente disagio. "The look of silence" analizza ancora il tema del genocidio, si osserva la famiglia dell'uomo ucciso, che pretendere verità e scuse, in cambio del perdono.Oppenheimer e il suo soggetto non sono spaventati, davanti ad affermazioni come.. <<Siamo tutti d'accordo, come la dittatura militare ci ha insegnato..>>. Lo dicono perchè sicuri dell'impunità. Un documentario terribile e appassionante sulla memoria e sulla ricerca della verità e della giustizia. In Italia le proiezioni sono organizzate da Amnesty International.

Listen to Me Marlon
Data di uscita: 29 luglio
Regia: Stevan Riley
Marlon Brando, è l' assoluto protagonista di questo lungometraggio, a seguito della scoperta di più di 200 ore di registrazioni inedite. Il regista britannico Stevan Riley ha letto tutte le biografie, interviste e commenti di gente che lo ha conosciuto e di cui ognuno ha avuto una visione diversa. “Listen to Me, Marlon”, si rifà ad una frase che Brando ripeteva sempre prima delle sessioni di auto-ipnosi che praticò durante gli ultimi anni della sua vita. Il documentario, è un ritratto innovativo che percorre tutte le tappe di Marlon Brando uomo e attore, ricorda con particolare affetto la madre e Stella Adler, la sua insegnante, che gli ha insegnato che “la recitazione consiste nella ricerca della verità“. Racconta la sua storia tramite filmati d'archivio scelti con cura, con in sottofondo musica ipnotica: Brando parla eloquentemente del suo approccio alla spontaneità nella recitazione, dei suoi rapporti con le donne, la politica e le cause che ha sostenuto e che sostiene. Ha invece parole sprezzanti per il padre e per l’industria cinematografica entro la quale ha operato, un circolo di politiche viziose. Marlon è sempre stato un po 'strano, e fuori dagli schemi, ma sempre infinitamente affascinante.

Best of Enemies
Data di uscita: 31 luglio
Regia: Robert Gordon e Morgan Neville
Estate 1968. Sono passati un paio di mesi dall’assassinio a Los Angeles di Bobby Kennedy, non molto prima la morte di Martin Luther King. Un anno di scontri e di violenza: il rapporto fra società civile, minoranze e istituzioni è incandescente. Mentre fuori tutto accade, si innesca la sfida fra i network televisivi. NBC e la CBS avevano una tradizione e degli anchorman consolidati e adorati dal pubblico, mentre era evidente la difficoltà della ABC, ormai cronica. Il canale televisivo decise di giocare il tutto per tutto e affidò i dibattiti sulla situazione politica a due intellettuali, il repubblicano William Buckley Jr e lo scrittore democratico Gore Vidal: dieci dibattiti serali di un’ora e mezza. Emozionanti da guardare, ma già forieri di quella che sarebbe divenuta la copertura della politica dei mezzi di comunicazione e in particolare della televisione.
Buckley e Vidal erano simili nel loro modo di porsi, nell’eloquio raffinato e tagliente, nell’eleganza affettata e dandy. La differenza, a dir poco brutale, era il modo in cui vedevano il mondo, tanto da ritenere l’altro un vero pericolo per il paese. Gli ascolti premiarono l’ABC e il duello finì per abbandonare il fioretto scadendo nell’insulto personale. Intelligente, spinoso, cinema documentario...


The End of the Tour (La fine del Tour)
Data di uscita: 31 luglio
Regia: James Ponsoldt
Cast: Jason Segal, Jesse Eisenberg, Anna Chlumsky, Mamie Gummer, Joan Cusack
Adattamento di “Come diventare sé stessi”, libro di David Lipsky , giornalista di Rolling Stone sul tempo trascorso insieme allo scrittore David Foster Wallace, di cui Interzone ha parlato quì. Ritratto intimo e complesso, su una delle stelle della letteratura americana e mondiale dei nostri anni, morto suicida il 12 settembre del 2008.
Il pericolo era dietro l'angolo, poteva essere il tentativo di sfruttare ancora il culto dell'eroe morto giovane, e invece la pellicola è divertente, appassionante, la celebrazione della vita e del talento, ma ancora di più, della sua etica. Il documentario poi si snoda fino a diventare la storia di un amicizia, sull'età adulta, e sulla solitudine intrinseca (e talvolta tragica) di uno scrittore.


Five Star (Cinque Stelle)
Data di uscita: 24 luglio
Regia: Keith Miller
Cast: James 'Primo' Grant, John Diaz, Wanda Nobles Colon
Dopo avere perso il padre, colpito da una pallottola vagante, John trova un suo mentore in Primo, esponente di una gang di Brooklyn che lo instrada alla vita nei sobborghi di New York, dove ognuno la legge se la costruisce da sé.
Primo vuole lasciarsi alle spalle questa vita per essere padre e marito migliore.
Si parte dal disordine interiore dei personaggi, in un film che mischia documentario e finzione, senza facili stereotipi. La vita delle gang di Brooklyn è resa con naturalismo e disinvoltura, in questo brusco dramma dello sceneggiatore / regista Keith Miller, che mostra abilità e un'affinità nelle conversazioni e nelle scene che sembrano girate senza troppa preparazione. La vicenda del cambiamento e della crescita di Primo e John, e i loro destini sono incrociati e a un bivio: scegliere quello che si è nell’ambiente in cui sono nati oppure cominciare (non ha importanza l’età) a cambiare partendo da se stessi prima e da quello che provano.


Going Clear: Scientology e la prigione della fede
 Regia: Alex Gibney
Già uscito e disponibile su Cineblog
E' senza dubbio l’opera più completa ed interessante sul tema dello smascheramento della chiesa di Scientology, i cui meccanismi e i cui sistemi sono a dir poco “opachi”. Non solo ricostruisce molto bene la genesi di come il culto sia nato e abbia ottenuto lo statuto di religione dall’agenzia delle entrate statunitense, ma riesce a mostrare anche del materiale di repertorio mai visto prima e stupefacente (convention, video didattici e materiale interno alla chiesa). Grazie alle interviste realizzate a molti degli esuli della chiesa, una volta occupanti posizioni di prestigio e potere (tra cui figura anche Paul Haggis), Gibney organizza e mette in scena informazioni dettagliate e chiarissime con le capacità narrative che gli competono. Anche se già nelle sale, lo segnalo perchè è assolutamente da vedere..



06/07/13

David Foster Wallace: Come diventare se stessi

L'incontro tra lo scrittore americano e il reporter di Rolling Stone, all'indomani dell'uscita di Infinite Jest. Cinque giorni passati a chiacchierare di scrittura, fama, depressione..

F. Borrelli (Alias, ottobre 2011)
Quasi nessuno aveva letto Infinite Jest quando David Lipsky venne mandato dalla rivista “Rolling Stone” a intervistare David Foster Wallace; ma lui era già una celebrità. Quasi nessuno poteva avere letto il romanzo per la semplice ragione che le millequattrocento pagine scampate ai dolorosissimi tagli imposti dall'editor avrebbero richiesto almeno due mesi e mezzo di dedizione pressoché totale per essere adeguatamente assimilate, e la campagna pubblicitaria, invece, era partita in coincidenza con l‘uscita del libro, appena una ventina di giorni prima. Ma il faccione di Foster Wallace, con la fronte attraversata dalla famosa bandana -inaugurata per impedire al sudore di gocciolare sulla macchina da scrivere elettrica provocandogli una scossa, e mai più lasciata per <<paura che mi esploda la testa>> - era già comparso su ‘Time’ e su ‘Newsweek’, e la rivista ‘Esquire’ aveva speso per lui niente meno che la parola genio.
Alcuni dei suoi fan, del resto, all’uscita di Infinite jest erano ancora freschi di esclamativi, perché quello stesso anno, il 1996, era comparso su ‘Harper’s’ il racconto della crociera extralusso alla quale David Foster Wallace si era sottoposto su e giù per i Caraibi, un pezzo di bravura destinato a diventare famoso con il titolo “Una casa divertente che non farei mai più” (minimum fax, 1998).

Quanto a David Lipsky , era alla sua terza intervista con un personaggio famoso e alla sua prima conversazione con uno scrittore: da Foster Wallace, che aveva allora trentaquattro anni, quattro più di lui, avrebbe voluto cavare succose rivelazioni sulla sua dimestichezza con la droga e, possibilmente, qualche assaggio di cosa significhi essere depressi: insomma dettagli sullo stile di vita piuttosto che su quello letterario. I due passarono insieme cinque giorni, gli ultimi del tour di presentazioni di Infinite jest, e tutta la sbobinatura di quanto si dissero è leggibile anche in italiano, tradotta da Martina Testa per minimum fax con il titolo Come diventare se stessi (Sotterranei, pp. 443, € 18,50).

Nulla di comparabile all’impegno maniacale con il quale David Foster Wallace ha sempre scelto le parole viene fuori dall’intervista, che tuttavia raccoglie alcuni frutti della vivacità mentale dello scrittore americano, informazioni interessanti e esercizi di ironia alternati a qualche rapsodica presa di contatto con i ricordi del suo breakdown depressivo - <<vedevo il filtro che mi scendeva davanti agli occhi, non so se mi spiego, vedevo come distorceva le immagini>>. Era il 1989, DFW aveva dovuto interrompere il suo Corso di filosofia a Harvard per scegliere di ricoverarsi all’ospedale psichiatrico McLean's, <<l’atto più coraggioso che abbia mai fatto>>, raccontò, <<la prima volta in vita mia che mi trattavo come avessi davvero un valore>>. Tra i venti e i trent’anni, la pressione delle enormi aspettative riposte nel suo talento già evidente lo avevano esasperato: la sua tesi di laurea, rielaborata, aveva preso la forma di un primo romanzo fluviale, La scopa del sistema, alle cui proposte di editing aveva ribattuto con una lettera di diciassette pagine dove spiegava che tutto il libro andava inteso come “una conversazione tra Wittgenstein e Derrida”. La sua seconda performance, il racconto lungo ‘Verso Occidente’, suonava come “una chiamata alle armi della metafiction postmoderna “: detto in altri termini, rifaceva il verso a John Barth. Questi i precedenti.

Non a caso, DFW si ritrovò a dire, nell’intervista a Lipsky: <<le parti di me che pensavano fossi diverso, più intelligente o quello che era, mi hanno quasi portato alla morte>>. Allora, la possibilità che ogni frase uscita dalla sua penna fosse men che fantastica gli era intollerabile. Il gusto di lavorare a lungo sulla pagina era venuto più tardi, e con questo la consapevolezza di essersi costruito ‘dei muscoli interiori’ che, all’uscita di Infinite Jest lo autorizzavano finalmente a sentirsi uno scrittore. Il momento era arrivato di <<starsene seduti in prossimità degli allori e guardarli con affetto>>.

Certo, la visibilità ottenuta come persona non avrebbe giovato alla sua scrittura, ma valeva la pena correre il rischio se almeno fosse stato possibile <<rimediarci un po’ di sesso>>. Purtroppo, pare che non andò cosi. Tuttavia Lipsky assicura che DFW <<pompava fascino come un reattore>>, il che naturalmente era basato su un pregiudizio, ossia sulla leggenda rapidamente diffusa circa la singolarità della sua scrittura; ma poi, alla prova dei fatti, chiunque lo abbia conosciuto può testimoniare di un fascino tutto vero. Difficile pensare che le folle siano state rapite nei gorghi delle sue note a piè di pagina, certo é che l’intelligenza ansiosa nascosta dietro il bisogno di rendere conto di tante e diverse prospettive deve avere lusingato l’amor proprio di molti lettori, e quella implicita chiamata alla violazione del senso comune deve avere fatto il resto. D’altronde, stando a quanto racconta lo stesso Lipsky nella sua bellissima postfazione, già quando venne pubblicato lo sterminato resoconto che DFW scrisse sulla crociera nei Caraibi non poche persone se ne leggevano brani al telefono, lo fotocopiavano, lo faxavano, insomma gli tributavano le attenzioni dovute a un feticcio. Non sarebbe stato dunque possibile, dopo la sua morte, evitare la tentazione di dare alle stampe anche ciò che lo scrittore americano non aveva licenziato: cosi, l'ultimo romanzo al quale stava lavorando, The Pale King é stato fatto uscire in America con il sottotitolo “romanzo incompleto” e in Italia è uscito per Einaudi. Il fatto stesso di stabilire la successione dei capitoli - in questo romanzo che ha tra i suoi temi principali la natura della noia e come set l’agenzia tributaria americana - ha comportato un notevole arbitrio, per non parlare delle centinaia di pagine estromesse; ma secondo il ragionamento dell’editor storico di DFW, Michael Pietsch, il fatto stesso che l'autore abbia preservato il dattiloscritto nonostante l’intenzione di suicidarsi, e il posizionamento al centro della sua scrivania di duecentocinquanta pagine apparentemente ultimate, starebbero a indicare l’intenzione di rendere pubblico il romanzo. Del resto, ha commentato la sua agente Bonnie Nadell, <<quando muori sono gli altri a prendere le decisioni per te>>. A favore della pubblicazione parlano i dodici anni di lavoro riversati nel libro, mentre a sfavore si potrebbe citare quel che DFW disse a Dave Eggers nel 2003, nel corso di una interista destinata a ‘The Believers’: <<Cio che la gente alla fine legge, della roba che scrivo, é il prodotto di una specie di lotta darwiniana nella quale solo le cose che per me, a livello empatico, sono vive, solo quelle vale la pena di finirle, sistemarle, editarle, adeguarle alle norme redazionali, ritoccarle nei minimi dettagli e cosi via>>. Una sensazione, questa che valga solo ciò che sulla pagina sembra animarsi di una esistenza propria, esplicitata anche nella intervista con Lipsky, quando DFW dice <<sento come se i personaggi mi parlassero. Sento che quella pagina, che quella pagina, è una cosa viva>>. Poco disponibile a commuoversi per ciò che usciva dalla sua testa, I ‘autore di Infinite Jest aveva tuttavia preso gusto alla fatica di scrivere, come lui stesso dice nei passaggi dedicati al suo lavoro, mentre della persona che era rende meglio conto la postfazione di Lipsy, che sta alla intervista come la verità narrativa sta alla verità storica nei resoconti dei casi clinici: la prima è un costrutto creativo guidato dalla ricerca del senso, ricerca “particolarmente insidiosa – ha scritto uno psicoanalista di nome Donald Spence - perché riesce sempre”; la seconda è una attività ricostruttiva, che pesca da quanto documentato nel passato. Le due verità, naturalmente, esibiscono non poche costanti.

Per esempio, il giusto peso attribuito da DFW alla fama: <<a gran parte delle persone intelligenti >> ha detto - capita di rendersi conto che questa considerazione degli altri nei nostri confronti, non è abbastanza nutriente per impedirci di spararci in testa>>...