26/03/20

Neue Deutsche Well, Gabi Delgado e Ja Ja Ja

Ancora un brutta notizia dal mondo della musica. Gabriel Delgado-López dei DAFDeutsch Amerikanische Freundschaft, meglio conosciuto semplicemente come Gabi Delgado, è morto all'età di 61 anni. La notizia è stata annunciata da Robert Görl, che ha lavorato con Delgado per oltre quattro decenni. Definiti dal grande DJ John Peel come i "nonni" della techno, Delgado e i DAF hanno plasmato un  suono alla fine degli anni '70 a Düsseldorf, che ha influenzato innumerevoli artisti elettronici nei decenni a venire. Per ora nessuna causa di morte è stata ancora comunicata. Pubblichiamo un nostro post del 2012 in cui ripercorriamo la storia della "Neue Deutsche Welle" e dell'importanza che i Daf e Delgado, come artista solista, hanno avuto nella storia della musica alternativa.


Il "do it yourself" del punk diffuse il concetto che tutti potevano fare musica,salire su un palco,imbracciare gli strumenti e suonare senza alcun tipo di tecnica,una vera rivoluzione rispetto alla cultura musicale imperante in quegli anni,dominati da super gruppi che proprio della tecnica e del virtuosismo facevano i propri capisaldi. Inoltre i gruppi iniziarono a produrre i propri dischi e centinaia di piccole etichette indipendenti,supportate da altrettante fanzine spuntarono come funghi. Culturalmente, la rottura delle convenzioni, resistenza underground e l'anarchia come unico riferimento politico furono i pilastri del movimento punk. Tutti questi elementi saranno adottati negli anni che vanno dal 79 al con la nascita della Newe Wave, in Germania "Neue Deutsche Welle" . Dusseldorf, Berlino e Amburgo furono le tre città' chiave della produzione musicale tedesca. Dusseldorf in particolare. Sperimentazione prima, elettronica di consumo poi, rappresentavano solo due facce di questa città posta al centro della zona più' industriale della Germania. Dusseldorf quindi,centro e origine di filoni musicali. (i Kraftwerk insegnano..). Un mix tra l'avanguardia techno di Detroit, la dance music di N.Y. e i suoni degli Einstürzende Neubauten (quanto di più hard la New Wave tedesca abbia prodotto) diede vita ad una raffinata e curiosa ricerca musicale in molteplici direzioni. Dalla città nasceranno anche i primi tentativi interessanti di introdurre una vena rap nel corpo di un funk/jazz che aveva come caposcuola i primi Family Five. Ja Ja Ja fu il gruppo privilegiato di questo tentativo, realizzando in quegli anni alcuni mix che restarono a lungo in testa nelle classifiche della musica indipendente tedesca. Fiancheggiatori della Neue Deutsche Welle molte band si resero protagoniste della EBM,  l'Elettronic Body Music, in cui i tetri suoni industriali vennero elaborati in un sound martellante con evidenti riferimenti al futurismo,all'erotismo delle nuove apparecchiature elettroniche,ad un simbolismo sessuale fortemente ambiguo,molto in voga nei bar/discoteche di Dusseldorf e politicamente molto provocatori. Uno dei principali artefici del movimento fu Conny Plank, geniale e innovatore produttore,che con i D.A.F (acronimo di Deutsche Amerikanische Freundschaft) esplorarono nuovi mondi musicali, con una mezza dozzina di album imponenti tra il 1979-1982, continuando anche dopo la riunificazione del gruppo nel 1986. I D.A.F si formarono per produrre una collaborazione sperimentale tra musicisti tedeschi e americani,ma i perni del progetto sono Robert Gorl, batterista diplomato che aveva militato nei primi gruppi punk di Dusseldorf e Gabi Delgado. Ed e' proprio il genio di Delgado che proponiamo in questo post.

Gabi Delgado, musicista,poli strumentista, cantante e autore di testi, tedesco d'adozione ma spagnolo di genitori e probabilmente di cultura,ha inciso per la Virgin Records che aveva pubblicato anche gli ultimi lavori dei D.A.F. L'anima latina emerge soprattutto per l'amore nell'uso delle percussioni,mentre l'adozione tedesca e' evidente per l'utilizzo delle tastiere elettroniche che si fondono perfettamente con appunto le percussioni. Un musicista esclusivamente di estrazione latina non avrebbe mai potuto concepire brani cosi complessi e articolati per quel che riguarda l'arrangiamento delle tastiere elettroniche. Delgado ha prodotto un solo album,svariati singoli e mix e molteplici collaborazioni. Mistress e' il titolo dell'album, pubblicato nel 1983 sempre con la produzione di Conni Plank. Mistress e' un autentico divetissement elettronico,dove le tastiere e i synth si intrecciano con ritmi di calypso e industriali,pop sintetico e loop decisamente funky con un basso pulsante,chitarre che richiamano il Brasile sempre con le percussioni in primo piano sul canto sexy di Gaby,che alterna lo spagnolo all'inglese. Un disco in fondo giocoso e a volte inquietante nel suo richiamo ad un cyber tropicalismo certamente sottovalutato da critica e pubblico. Nei prossimi post continueremo ad occuparci di Germania (compatibilmente con il lavoro, la stanchezza e un po di stress..) con alcuni gruppi orbitanti nell'etichetta tedesca ATA TACK,attiva dal 1979 e che ha una lunga tradizione nella produzione di musica elettronica,elektro,techno,industrial e per aver pubblicato alcuni dei gruppi più sperimentali,avanguardistici e scalcinati come Lost Gringos, Element of Crime etc, ma anche di Der Plan, Pyrolator, D.A.F e molti altri. Intanto..buon ascolto.


Electronic Body Music” (EBM).
Mistress
Ja Ja Ja




19/03/20

Eduard Limonov in Italia (Lido di Ostia)


Ieri, se ne è andato Eduard Limonov, scrittore russo prolifico, politico, esteta e, last but not least, guerrigliero. Ripubblichiamo quì un post a lui dedicato del 2013.


Tra altri popoli spesso vengono ad abitare i falliti. Questa grande e coraggiosa tribù è infatti dispersa in tutto il mondo. Nei paesi anglofoni sono chiamati abitualmente loosers-cioe', perdenti. Questa tribù è assai più numerosa degli ebrei, e non meno audace e intraprendente. Non le manca la pazienza: a volte per tutta la vita si nutre solo di speranze.. Bisogna sottolineare un tratto particolare: gli uomini e le donne di questa tribù, una volta raggiunto il successo, facilmente ripudiano gli altri del gruppo, fanno propri i costumi e i modi di quel popolo, in seno al quale hanno raggiunto il successo, e non resta alcuna traccia della loro trascorsa appartenenza alla gloriosa genia dei falliti..
Enciclopedia Britannica
 
"E poi all'improvviso ti svegli in una vita tua e non tua, indossando un abito Pierre Cardin, un mitra nella mano destra.."

CONSIGLI DEL DOTTOR LIMONOV PER GIOVANI AMBIZIOSI
Il primo obiettivo di un individuo che vuole diventare un personaggio "importante" è non obbedire alle tradizioni culturali della gente "semplice". Se guardo le foto di classe con tutti i miei compagni, quando abbiamo preso il diploma, mi viene da pensare..perché'? Perché' i miei compagni non hanno fatto qualcosa di grande? Dire che fossero stupidi o senza talento sarebbe distorcere la verità. Non sono nemmeno stati raggiunti dalla prosperità. Nessun criminale, nessun assassino, solo folla qualunque. Così, se mi venisse chiesta la formula per diventare una persona importante citerei innanzitutto l’abilità di assumersi dei rischi. L’abilità perfetta nel prendere di volta in volta un rischio..Poi aggiungerei alla formula l'assoluto disprezzo per le tradizioni culturali. E cos'altro?

Penso che la fortuna sia una questione di organizzazione della vita. Uno che sogna di diventare un uomo importante deve anche essere determinato e crudele, come un lupo. Nella sua vita deve far scoppiare tutti i casini che può. Io farei scoppiare questo cazzo di pianeta, se riuscissi ad avvicinarmi a una bomba atomica o a qualche altro congegno del genere. E allora, che senso ha andare avanti in questa esistenza molle come una merda? Qualcuno dovrebbe fermate tutto. E così quel qualcuno diventerebbe definitivamente grande. L'ultimo eroe dell’umanità..

(Eduard Limonov in Italia)

MAR MEDITERRANEO - OSTIA

Avevo una gran fame. Delle 122.000 lire che ci pagava il fondo Toistoj, la signora Francesca ce ne succhiava 60.000 per una fredda celletta in casa sua. Gli ebrei dicevano che a Ostia gli appartamenti costavano molto meno. Un giorno ci siamo decisi e siamo andati in autobus a Ostia.
Abbiamo trovato l'indirizzo. Mentre lo cercavamo, almeno tre volte sono stato sul punto di tirar cazzotti. Elena con 1e sue lunghe gambe aveva un cornpletino con la gonna corta, e gli italiani di sesso maschile ci urtavano, fischiavano, si aveva l'impressione che da un momento all’altro ci dovessero saltare addosso. Un giovanotto occhialuto con i capeili lunghi come me evidentemente non li spaventava troppo. La terra a Ostia sembrava calva. L’erba ci cresceva male, per questo il terreno aveva l'aspetto di un cranio spelacchiato. Probabilmente quando pioveva si formava un gran pantano e poi la melma si riasciugava alla rinfusa, inglobando, come se fosse cemento, mattoni, tavole, pezzi di ferro arrugginito. In realtà a Ostia non sembrava di stare all’estero, non aiutavano neppure le
insegne in italiano, più che altro assomigliava a Saltovskij, i1villaggio della mia infanzia. Forse anche perché eravamo entrati non dalla porta principale, la stazione, la piazza del municipio, ma dalla porta di servizio, più comoda e veloce, come ci avevano spiegato gli “ebrei”. Cosi chiamavamo gli emigranti, ed era vero, perché verso la fine del 1974 in Italia non c’erano altri emigranti all'infuori degli ebrei. E di noi due.
La questione dell'appartarnento l'abbiamo risolta in fretta. Abbiamo fatto il giro delle camere, dove gli ebrei, uomini, donne e bambini se ne stavano stesi sui letti come trichechi. Stavano stesi ad aspettare che gli rilasciassero il visto per gii Stati Uniti o per il Canada. Temendo che non glielo dessero. Gli ebrei odoravano di paura, povertà, attesa. Chi non dormiva, masticava. Ci hanno fatto vedere la camera, uguale alle altre, che avremmo potuto occupare noi. Costava la metà della nostra stanza di Roma, ma per entrarci si doveva passare per una camera dove abitava una grande famiglia. O per lo meno c’erano molti letti.

<E se devo fare pipi?> ha chiesto Elena.
<<Potete comprarvi un vaso da notte>> ci ha consigliato la ragazza grassa e bionda che ci faceva strada, la stessa che ci aveva dato l'idea di Ostia. Studiava inglese assieme a noi in una scuola proprio sulla riva del Tevere. Era chiaro che la camera non l'avremmo presa, troppo sconfortante la visione di tanti ebrei ammucchiati. E poi Ostia decisamente non ci era piaciuta. Appariva del tutto inspiegabile come una cittadina tanto lercia potesse aver svolto la funzione di porto della Grande Roma.
Ce ne siamo andati, dopo esserci messi d’accordo che saremmo tornati la settimana dopo, pregandoli di tenerci la camera: sapevamo perfettamente che non saremmo venuti, ma mentivamo per gentilezza. Isaak Krasnov e la sua famiglia, e persino i due abissini operai in una fabbrica di conserve, nostri coinquilini nell'appartamento vicino alla stazione Termini, erano persone interessanti in confronto a quella mandria oppressa di trichechi. In strada Elena si e accesa una sigaretta.
<Uno schifo di posto> ha detto nervosa. In realta era stata lei a volerci venire. Si lamentava tutto il tempo di come si viveva male nell'appartamento puzzolente della signora Francesca.
<<A mettere insieme tanta gente povera e nervosa, cosa ti aspettavi>> ho riassunto io.
<<Andiamo almeno a dare un’occhiata al tanto decantato mar Mediterraneo>>
<Il mare?> ho chiesto a un ragazzino orrendo, del tutto in tono con il paesaggio. Il ragazzino ha puntato il dito verso la rete di una recinzione e li ci siamo diretti. Finalmente siamo sbucati su una striscia di sabbia sporca. Nella sabbia avevano piantato delle porte da calcio, e cinque o sei monelli malmessi si passavano pigramente la palla.
<<Perché qua sono tutti cosi brutti e storti? — Ha chiesto Elena. — A Roma la gente é bella.>>
<Si, — ho detto io - non brillano per bellezza.>
Abbiamo attraversato il campo di sabbia e dietro abbiamo trovato una timida distesa di acqua grigia.
<<E sarebbe questo il tanto decantato Mediterraneo, quello che solcavano le triremi?>>ha chiesto Elena. <Si, — ho risposto io — non si è rivelato all’altezza.>
Una volta un’amica di Marja Nikolaevna Izergina, che aveva vissuto all’estero con il marito diplomatico, ci aveva detto che Koktebel’, e in generale tutta la Crimea, era molto più bella della tanto celebrata Italia. Molto più bella del golfo di Genova. Ci siamo seduti e, questa volta, ad accendere una sigaretta sono stato io. Il mare era a cinquanta metri da noi. L’acqua era bassa e ci sguazzavano barattoli arrugginiti, alcune bottiglie, altra robaccia.
<<E dov’è il porto?>> mi fa Elena.
<Tutto fa pensare che occorra anclare a destra. Andiamo?>
<<No, — ha risposto lei — già mi sono scorticata i piedi abbastanza. E poi non ne ho voglia.>>
<Ma quale porto ci può essere con un’acqua così bassa? C’è qualcosa che non mi convince con questa storia del porto di Roma. Può darsi che non fosse Ostia il porto di Roma?>
<<Forse il porto era Roma stessa e poi l’acqua si é ritirata?>>
ha osservato Elena.
<Come ha fatto in duemila anni a ritirarsi a questo modo? Ci vogliono intere ere geologiche per processi del genere. Venezia sprofonda, ma mica di metri all’anno. .. Hai mai notato che alcune rovine sembrano più giovani di quel che sono?>
<<E per via del marmo. Al marmo non può succedere nulla.>>
<<Per me contano balle sull’età delle loro città, gli italiani. La alzano apposta, cosi è più prestigioso.>>
Mi sono arrischiato a togliermi le scarpe e a bagnarmi i piedi nell'acqua grigia del mar Mediterraneo. Avrei anche potuto farmi il bagno, non era cosi freddo. Ma non mi è venuta voglia, perché il mare non mi piaceva. Ce ne siamo andati e non siamo mai più tornati a Ostia. L’anno dopo, nell’autunno del 1975, a New York ho letto sul giornale che in una radura desolata di Ostia era stato ucciso Pier Paolo Pasolini. Dalla dettagliata descrizione ho capito che erano esattamente i posti dove eravamo stati io ed Elena.
Le mie osservazioni sulla giovinezza delle antichità italiane e sull’inadeguatezza di un misero porto senza fondale come Ostia alla Grande Roma dell’ antichità mi sono tornate in mente a Mosca all'inizio degli anni Novanta, quando ho letto il lavoro dei professori Nosov e Fomenko intitolato Nuova cronologia della Russia, dell'Inghilterra e di Roma. Vi si sostiene che Roma è molto meno antica di quanto si creda e che la vera capitale dell’Impero romano è sempre stata Costantinopoli. ll destino ha deciso che già da vent'anni Elena viva nella Città eterna. Suo marito è morto, lasciandole il titolo di contessa e la figlia Anastasija.

Eduard Limonov, Libro dell'Acqua - Alet

Eduard Limonov, nato in Russia (Dzerzinsk) come Eduard Savenko. Il primo scrittore dell'epoca postsovietica incarcerato per motivi d'opinione. Ribelle, eccentrico, piantagrane, sempre controcorrente.  Mai smentita la sua fede bolscevica (sottolineata nel libro La nostra era una grande epoca..), Limonov ci suggerisce che al posto dell'Unione Sovietica ci sono oggi pseudo democrazie e una serie esplicite di dittature: la Russia come palestra di nuovi esperimenti di cattura di consenso, totale asservimento dei mezzi di comunicazione di massa, e degli elettori ai mezzi di comunicazione di massa,  meccanismo esportabile in tempi stretti anche alle democrazie occidentali e frutto del matrimonio tra il capillare controllo sociale (esercitato dai servizi segreti) e il Grande Fratello televisivo. In questo quadro sorprende la contaminazione degli estremismi di destra e di sinistra, che coinvolge un intera galassia rosso-bruna di cui il partito Nazionalbolscevico di Limonov è una piccola avanguardia. Un esigua truppa di esagitati, giovani e ragazzotti in maggioranza  punk, anarchici, nazionalisti..

Famiglia semplice, infanzia difficile in quartieri di frontiera, tra alcol e piccoli furti. Si trasferisce a Mosca, scrive poesie e racconti. Nel 74 ottiene un difficilissimo permesso di espatrio: Austria, Italia, Francia, dove seppur senza un soldo frequenta personaggi famosi, e sempre più insiste nello scrivere e pubblicare. Si sposta poi a New York dove sopravvive con lavori umili e saltuari (lavapiatti, maggiordomo, muratore..) In America la moglie Elena lo abbandona per un altro, intensifica la sua vita bohemien,tante donne, e mille esperienze che diventeranno storie per i suoi scritti. Finalmente nel 80 viene pubblicato in Francia Io sono Edicka. Un successo quasi immediato, tradotto in 15 lingue. Poi, Diario di un fallito, l'opera più dura verso la società occidentale, e americana in particolare.



26/02/20

"Tutto quello che voglio fare è scendere" : The Dandy Warhols


I Dandy Warhols ci piacciono. Ci piacevano nei '90 e ancora oggi. Sono musicisti ed edonisti di talento, anche se denigrati e sottovalutati nel grande circo R'n'R, hanno forgiato un percorso di successo attraverso un panorama musicale mutevole, una band che è passata attraverso tutti i movimenti e che mantiene uno zoccolo duro di fans che li segue dall'inizio. 25 anni di carriera, hanno attraversato gli anni '90 con lo spirito  del rock anni '60, patina glam, attitudini psichedeliche e il loro approccio ispirato alla droga, tanto che il fotografo di moda David LaChapelle volle girare il video di Not if You Were the Last Junkie on Earth. Musicalmente in debito con le icone rock del Regno Unito, addirittura David Bowie scelse personalmente i Dandy  per suonare al suo festival Meltdown nel 2002, unendosi alla band sul palco per esibirsi in "White Light / White Heat" durante i concerti. Un endorsment non da poco visto i gusti poco ortodossi del Duca (Nine Inch Nails, Franck Black, TV on the Radio, Arcade Fire..) con i Dandys che ancora  lo hanno supportato nel suo tour di successo A Reality del 2003. Ma i bei tempi finiscono. Molto più famosi in Europa che negli States,  nessuno riesce più a perdonare ai Dandy Warhols di aver venduto l’anima al diavolo e il loro pezzo di maggior successo (Bohemian Like You del 2001) alle compagnie telefoniche, il loro potere provocatorio  diminuisce, mentre dopo i loro due album più forti,  ... The Dandy Warhols Come Down del 1997 e  Tales From Urban Bohemia  del 2000 si sono susseguite prove discografiche abbastanza modeste. Gli eccessi degli anni novanta sono lontani, Bowie e Lou Reed (altro totem musicale della band) ci hanno lasciato e noi riscopriamo vecchie canzoni e alcune buone (ce ne sono sempre..) tratte dagli ultimi lavori. Oltre ai brani segnalati con i video sotto, Styggo, Solid, .. Love Almost Everyone, Good Morning, Semper Fidelis, Search Party, una allucinante cover di Primary dei Cure (da Faith..), le mai dimenticate Godless e Cool As Kim Deal, Hells Bells..
I Dandy Warhols continuano a piacerci.
















25/02/20

Boxe, mondiale massimi: un Tyson Fury stellare demolisce Deontay Wilder


WBC Heavyweight Championship



Alla MGM Grand Garden Arena, a Las Vegas, sabato sera (domenica mattina in Italia) Tyson Fury impartisce una lezione durissima al campione in carica Deontay Wilder, che subisce due atterramenti e on KO tecnico alla settima ripresa. E' la prima sconfitta subita nella sua carriera nel corso della quale non solo non era mai stato sconfitto, ma non era mai andato knock down. 

Un terribile gancio destro di Fury alla terza ripresa arriva dritto sulla tempia di Wilder: l'orecchio inizia a sanguinare copiosamente mentre il gigante nero crolla a terra. L'incontro è segnato. Wilder è instabile, le gambe vacillano indebolite, ma è in grado di superare il round e continuare a combattere. Al quinto round Fury mette a segno un altro knockdown, questa volta con un colpo al corpo. Incredibilmente Wilder si rialza, sperando come sempre nella potenza del suo diretto destro, ma è senza difesa, il colpo alla tempia gli ha causato un problema al timpano, quasi sicuramente rotto. Al settimo round, Fury scarica una serie di pugni, che magari non sono potenti come i suoi ma sono tanti e lo marcano brutalmente, che spingono all'angolo Wilder: l'arbitro ferma l'incontro, con Wilder incredulo e che protesta. Ma è il suo team che ha lanciato l'asciugamano, anche se quasi nessuno se ne accorge.
Dopo 18 mesi in cui se le sono dette di tutti i colori, tra insulti, minacce, spinte e risse negli incontri pubblici e conferenze stampa, i due hanno risolto sul ring i loro dissidi.

"Che gran pugile sei - dice Tyson Fury a Wilder - Dio benedica te e la tua famiglia" e poi, quasi ad incoraggiarlo, gli ricorda il momento in cui hanno incrociato i guantoni dopo la prima campana: "In quel primo round eri una fottuta... dinamite, una dinamite".

Sono queste le parole che Tyson Fury sussurra all'orecchio di Wilder subito dopo lo scontro. Anche se il britannico è famoso per le sue spacconate e per non avere la modestia nelle sue attitudini caratteriali, diamo onore al Gipsy King per il rispetto dimostrato verso il suo avversario. Dall'altro canto, Wilder aveva avuto sempre la nostra simpatia: ha scelto la boxe per fare soldi e poter curare la sua bambina, affetta da un male alla spina dorsale, ma a distanza di un paio di giorni dall'epico scontro il campione americano ha puntato il dito per il suo KO alla pittoresca maschera con cui lo stesso era entrato sul ring della MGM Grand Garden Arena. 
Era troppo pesante e per questo ho perso contro Fury” l’originale e sorprendente scusa del pugile, accusando anche l’arbitro, che secondo il boxeur dell' Alabama, non avrebbe sanzionato alcuni colpi scorretti alla nuca. Queste dichiarazioni non sono piaciute a noi ma nemmeno alla stragrande maggioranza degli appassionati e dai suoi stessi fan. Patetico è il commento più gettonato su Twitter.

Onore quindi a Tyson Fury per un successo strameritato: ha riportato la cintura WBC in Europa e in Gran Bretagna, e per una carriera che fino a qualche anno fa sembrava seppellita da una vita di eccessi, ma che è riuscito, nonostante tutto, a tornare sulla vetta di quella che è la categoria regina della boxe, i pesi massimi. Anche se forse vedremo un Fury - Wilder 3, per la clausola di remacth, tutti vorremmo quello che sarebbe un incontro stellare: Tyson Fury vs Anthony Joshua, match tutto britannico per la riunificazione delle corone.

onore a tyson fury



24/01/20

Baschi e Cappelli simbolo tra le paranoie del potere

Baschi rossi e cappelli simbolo tra le paranoie del potere

In Uganda è vietato l’uso di baschi rossi, richiamo al musicista e leader dell’opposizione Bobi Wine che sempre lo indossa. I cappelli e quel che rappresentano, e non da oggi, possono far paura a chi governa. Gatto Randagio, a modo suo, prova a cercare le ragioni profonde di tanto timore, e cercando di risolvere l’arcano… si perde nel gioco esoterico dei tarocchi…

Di Francesca de Carolis
Il potere è paranoia

Il potere è paranoia. C’è poco da fare… ho pensato ascoltando, qualche mattina fa, la rassegna stampa estera di radio3, e sentendo delle autorità ugandesi che hanno vietato ai civili l’uso di berretti rossi. Un cappello rosso, si spiegava, è indossato da alcuni reparti militari, e da ora qualsiasi berretto rosso sarà definito “abbigliamento militare”, quindi a loro uso esclusivo. Pena la reclusione fino ai cinque anni.
I copricapi rossi devono davvero far tanta paura al regime ugandese… Perché, si spiega, a indossarlo è Bobi Wine, famosa pop star che canta di giustizia sociale, e la musica, si sa, arte di origine magica, ha sempre una certa relazione col demoniaco, come spiegava Papini.
E qui il demonio ci ha proprio messo la coda se Bobi Wine, (al secolo Robert Kyagulanyi Sentamu), più volte arrestato con l’accusa di sovversione e tradimento, è diventato anche uno dei più noti oppositori del regime. E il suo basco rosso, indossato dai seguaci del movimento People power, è diventato “simbolo di resistenza”.

Cappello pericolosissimo, dunque. Immaginate che incubo per Yoweri Museveni, al potere da più di trent’anni, e ora che Wine ha annunciato che si presenterà alle prossime elezioni presidenziali… facile immaginare le notti del vecchio presidente tormentate da sogni infestati da baschetti rossi… Meglio non vederne più in giro, si sarà detto, almeno di giorno…

E già, saprà anche lui che i berretti rossi non hanno portato mai bene a chi governa. Avrà pure lui sfogliato libri di storia, infestati, anche loro, da tanti berretti rossi, a partire da quelli calzati in testa dai galeotti di Marsiglia liberati durante la Rivoluzione francese, passando per il rosso del berretto frigio di quella dannata Marianne, simbolo della Francia giacobina, esportato nelle rivoluzioni che hanno percorso come un brivido l’America dei rivolgimenti anti coloniali…

Berretti e cappelli come fumo negli occhi…

Ce n’è per tutti e di tutti i tempi. Una nota a caso, da una circolare della polizia di Pesaro del 1850: “Si è osservato che in onta di reiterate avvertenze e divieti intorno l’uso di cappelli di color bianco con nastri ed orlatura nera, o verde o rossa nonché di altri così detti all’Ernani, e che in qualunque modo per la forma e per il colore escono dall’ordinario, seguono tuttavia ad usarne taluni non senza ammirazione dei buoni”. Quei cappelli, ornati di nastri, erano segnale di sostegno alla causa dell’indipendenza dell’Italia. E come non inquietarsi, per quel richiamo all’Ernani…
Si ridesti il Leon di Castiglia / e d’Iberia ogni monte, ogni lito / eco formi al tremendo ruggito…
E camminando camminando per i sentieri convulsi della Storia, arrivando ai nostri giorni, in meno esaltanti orizzonti… sapevate che in carcere sono vietati i cappelli con visiera rigida? Richiamo chissà, al simbolo mafioso della coppola, se in un istituto anni fa fu addirittura vietato il cappotto perché “simbolo di una leadership mafiosa”…
Ma quale misterioso potere nasconde un cappello, da togliere il sonno a chi il potere in fondo ce l’ha davvero…
Cercando la risposta in vecchi testi, che narrano di simbologie e dintorni…


Ecco. “Anche quando andato in disuso, il simbolismo del cappello mantiene il suo valore… il suo significato sembra corrispondere a quello della corona, segno del potere, della sovranità, specie in passato quando si trattava di tricorno”

Ancora: “Il cappello in quanto copricapo rappresenta anche la testa e il pensiero ed è simbolo di identificazione. Cambiare cappello significa anche cambiare idee e avere un’altra visione del mondo…”.

Ritornando all’Uganda… non è tricorno né ancora si è trasformato in corona il basco rosso di Wine, ma certo rischiano di minare un trono finora ben saldo le idee tenute al caldo da quel baschetto rosso che il rapper-politico ugandese continua a tenere ostinatamente in testa, senza neppure cambiarlo di colore…
Ma andiamo avanti. Cercando di simboli, obbligatorio riprendere il leggendario testo de “I Tarocchi” di Oswald Wirth. Il libro (magia…) mi si apre sull’immagine del Bagatto, che è Il Mago, il Giocoliere…
Fa notare Wirth che il Bagatto ha un cappello a larghe tese ed è un otto coricato, il simbolo dell’infinito. “E’ lecito accostare questa aureola orizzontale alla sfera vivente costituita dalle emanazioni attive del pensiero”. “Portiamo intorno a noi – continua- il nostro cielo mentale, in cui il sole della Ragione percorre l’eclittica mantenuta negli stretti limiti di ciò che ci è accessibile”.
E non è un caso che il Bagatto sia la prima carta degli arcani maggiori, con quel suo cappello che richiama l’infinito, “perché l’universo visibile è soltanto magia e prestigio, il suo Creatore sarebbe dunque l’illusionista per eccellenza, il grande prestigiatore che ci stordisce con i suoi giochi d’abilità. Il turbine universale delle cose ci impedisce di percepire la realtà”
Insomma, “noi siamo balocchi di apparenze prodotte dal gioco di forze a noi sconosciute”
Quindi, bisogna aver comprensione. Chissà quali forze sconosciute giocano con le teste di chi comanda…

Così, è dell’altro ieri la notizia, dall’Uganda, dei primi arresti, anche se “il berretto rosso non offende nessuno”, come hanno detto i giovani seguaci di Bobi Wine bersaglio degli strali del governo. “Quando lo indossiamo ci identifichiamo con la causa per un’Uganda migliore”.
Ma state tranquilli, Bobi Wine, giovane e determinato (e forse lettore anche lui di Wirth e consapevole del potere dei simboli), ha assicurato che continuerà a indossare il suo rivoluzionario caschetto. E a popolare di incubi rossi i sogni del vecchio Museven…

Francesca de Carolis, giornalista, scrittrice, ex TG1, ex Radio 1. Attualmente si occupa di carceri, nella speranza di contribuire a limare le grate anche della nostra mente.
L'articolo è stato pubblicato sul sito Remo Contro