Che cos’è il debito pubblico e perché non è “il” problema
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Mappa del Debito pubblico in percentuale sul PIL, l’Economist
Pubblichiamo una parte del saggio di
Roberto Ciccone tratto dall’
e-book “Oltre l’austerità”.
Alcune parti del testo sono tecniche, ma non particolarmente complesse.
Anche al di là di queste parti, tuttavia, il saggio ha il pregio di
smontare molti luoghi comuni sul debito pubblico.
Sulla natura e sugli effetti del debito pubblico
Queste note hanno lo scopo di chiarire alcuni aspetti di base della
natura del debito pubblico e degli effetti che esso può produrre sul
sistema economico, con riguardo ai quali fraintendimenti, opacità
concettuali e false convinzioni appaiono frequenti. Le puntualizzazioni
qui esposte possono quindi essere preliminari (se ritenute valide) ad
analisi di livello più avanzato circa temi e problemi connessi al
finanziamento in debito della spesa pubblica.
Natura del debito pubblico
Che cos’è il debito pubblico?
Il debito pubblico è il debito che il settore pubblico di un paese
contrae nei confronti di soggetti ad esso esterni (famiglie, imprese,
istituzioni finanziarie). Lo stock di debito al quale si fa generalmente
riferimento consiste di titoli a breve, medio e lungo termine, e non
include invece altre forme di debito (ad es. i debiti verso fornitori).
L’emissione di debito pubblico ha lo scopo di procurare al settore
pubblico mezzi di pagamento necessari a finanziare il deficit pubblico, e
cioè l’eccesso di spesa pubblica (inclusi gli interessi sul debito)
rispetto alle entrate dello stesso settore pubblico.
- Il debito pubblico è un debito della nazione?
Circa il debito pubblico sono frequenti dei fraintendimenti relativi
alla sua natura. Uno tra i più diffusi è quello per cui il debito
pubblico costituirebbe un debito della nazione. E invece il debito
pubblico è un debito di una parte della collettività verso la restante
parte della stessa collettività, per cui la nazione non è né più né meno
indebitata per effetto dell’emissione di debito pubblico (rinviamo al
par. 1.5 il caso di debito pubblico detenuto da soggetti esteri, che è
un po’ più complicato ma, come si vedrà, non introduce differenze
sostanziali rispetto a quanto testè detto). Perciò l’analogia, talvolta
evocata, tra il debito pubblico e il debito di una famiglia non è
corretta: se l’analogia ammissibile sarebbe quella con il debito di un
componente della famiglia verso un altro componente, ad es. del figlio
verso il padre: è evidente che non avrebbe senso dire che la famiglia in
quanto tale sarebbe indebitata.
Da ciò segue che per il settore privato i titoli del debito pubblico
da esso posseduti formano parte della sua ricchezza. La ricchezza del
settore privato aggregato (incluse le istituzioni finanziarie) è infatti
così composta (lasciando da parte i rapporti con l’estero):
Capitale reale (immobili, attrezzature produttive)
Titoli del debito pubblico
Moneta
Un più elevato stock di debito pubblico implica pertanto una maggiore
dimensione della ricchezza privata costituita da titoli pubblici. A
parità di ogni altra condizione, pertanto, un maggiore ammontare di
debito pubblico comporterebbe un maggiore ammontare di ricchezza
complessiva per il settore privato. La questione che a questo riguardo
si pone, allora, è se uno stock più elevato di debito pubblico possa
effettivamente accrescere la ricchezza privata complessiva, o se invece
la quota di questa che sia detenuta nella forma di titoli pubblici vada
necessariamente ad assorbire ricchezza che avrebbe altrimenti preso
altre forme (e in particolare la forma di capitale reale): di ciò si
tratterà più avanti, nel par. 2.2.
Il debito pubblico è un onere a carico delle future generazioni?
Un altro argomento spesso avanzato, e connesso a quello ora
considerato, circa la natura del debito pubblico è che quest’ultimo
costituirebbe un onere a carico delle future generazioni. Sulla base del
presupposto che il debito pubblico esistente debba prima o poi essere
estinto, o quanto meno ridotto, si sostiene che le generazioni che
verranno saranno tenute a pagare maggiori imposte (o usufruire di minori
servizi pubblici), onde consentire allo Stato di accumulare gli avanzi
di bilancio necessari appunto a rimborsare il suo debito.
Le imposte che ai ‘padri’ è stato consentito di non pagare, lasciando
che si formasse debito pubblico, ricadrebbero quindi sulle spalle dei
‘figli’, costretti a sopportare un più elevato rapporto tra imposte e
prestazioni pubbliche per saldare quanto i loro genitori hanno lasciato
insoluto. Questa tesi—una variante della quale è che grazie all’accumulo
di debito pubblico le generazioni passate avrebbero vissuto ‘al di
sopra dei propri mezzi’, compromettendo così il tenore di vita dei loro
discendenti—attribuisce perciò alle misure fiscali volte alla riduzione
del debito pubblico un carattere di equità intergenerazionale che
dovrebbe renderle non resistibili agli occhi del
pater familias.
Come si dirà nel par. 2.3, l’analisi economica non ha individuato un
limite alla dimensione del debito pubblico, oltre la quale la sua
riduzione debba considerarsi necessaria. Ma anche ammettendo che in
futuro tale esigenza si ponga, e che a questo scopo le generazioni che
verranno saranno chiamate a sostenere un più elevato rapporto tra
imposte e servizi pubblici ricevuti, non è difficile vedere che nessun
onere aggiuntivo graverebbe per questo su di esse.
La ragione di ciò sta, ancora, nella natura del debito pubblico quale
componente della ricchezza del settore privato, e pertanto quale
attività che le future generazioni riceveranno in eredità dalle
generazioni precedenti. Al maggior carico fiscale che graverà su di esse
(posto che il debito pubblico debba essere ridotto) si accompagna
infatti il lascito dei titoli rappresentativi del debito pubblico che
verranno loro trasmessi: la situazione patrimoniale delle generazioni
successive non sarà perciò né peggiorata, né migliorata, da un futuro
rientro dal debito pubblico. (In termini tecnici, il valore attuale
delle future maggiori imposte con le quali verrebbe finanziato il
servizio (interessi + rimborso alla scadenza) di un certo ammontare di
debito pubblico equivale al valore attuale di interessi e capitale
finale cui i corrispondenti titoli danno diritto.)
Tra generazioni in quanto tali, dunque, nessuna redistribuzione di
oneri ha luogo, in generale, per effetto della esistenza ed eventuale
estinzione del debito pubblico. Per configurare un gravame a carico
delle generazioni successive è necessario adottare l’ipotesi particolare
che i titoli del debito pubblico, anziché essere trasmessi per via
ereditaria, siano venduti dalla generazione precedente a quella
successiva, per la quale l’aumento del carico fiscale non sarebbe in tal
caso compensato dalla gratuità della acquisizione dei titoli. Questa
modalità di trasmissione sarebbe però in evidente contrasto con il fatto
che in generale nelle nostre società il trasferimento
intergenerazionale della ricchezza ha luogo mediante il lascito
ereditario; e, a ben riflettere, ciò non è un caso, perché l’istituto
della successione ereditaria ha la precipua finalità della conservazione
della distribuzione esistente della ricchezza tra famiglie e quindi, in
ultima analisi, tra gruppi sociali. Soltanto negando questa
fondamentale circostanza istituzionale si potrebbe perciò supporre che
la ricchezza del settore privato, e quindi la quota di essa costituita
da titoli pubblici, si trasferisca da una generazione all’altra mediante
compravendita—come nella ‘teoria del ciclo vitale’, la cui validità
incontra infatti in questo aspetto un limite rilevante. A riprova, basti
considerare che se, a partire da una elevata concentrazione della
ricchezza, si immaginasse che i ‘giovani’ acquistino gli asset detenuti
dagli ‘anziani’ potendo utilizzare esclusivamente redditi da lavoro, la
vendita delle attività esistenti non potrebbe che essere frazionata tra
un elevato numero di ‘giovani’. La distribuzione della ricchezza si
modificherebbe rapidamente in senso egualitario, e non sarebbe
osservabile l’estrema (e crescente) disuguaglianza che invece
contraddistingue le società reali.
Effetti distributivi della riduzione del debito pubblico
Naturalmente quanto fin qui detto non significa negare gli effetti
redistributivi di un aumento del carico fiscale diretto a ridurre il
debito pubblico, poiché è evidente che i soggetti colpiti dal maggior
prelievo non coincideranno con i soggetti che ereditano i titoli del
debito pubblico.
Ma tale questione distributiva è tutta interna alla generazione in
essere all’epoca in cui la manovra di rientro viene effettuata: le parti
coinvolte sono da un lato i gruppi sociali chiamati a pagare maggiori
imposte (o ricevere minori prestazioni pubbliche), e dall’altro i gruppi
sociali la cui ricchezza comprende i titoli del debito.
Il problema si riduce perciò alla scelta di come ripartire il maggior
carico fiscale sulla collettività: un problema intragenerazionale che è
eminentemente politico e che si pone ogniqualvolta lo Stato si trovi a
determinare la copertura della sua spesa. E in quanto si tratta di un
problema politico, esso è aperto a soluzioni diverse, a seconda delle
quali diversi sono gli interessi che vengono privilegiati o, invece,
sacrificati.
Ammantare il rientro dal debito della (falsa) veste della equità
intergenerazionale è un modo di mettere in secondo piano, se non
nascondere, il conflitto di interessi che l’operazione genera: l’appello
alla innata cura per il benessere dei propri figli ne fa una questione
imprescindibile e cattura un generalizzato consenso che rende di fatto
superfluo il dibattito politico circa le scelte da compiere.
Deve notarsi che, entro la questione distributiva posta dalla
riduzione del debito pubblico, l’aspetto forse più acuto è costituito
dal finanziamento degli interessi che lo Stato paga sul debito stesso.
E, a ben vedere, un trasferimento di reddito dai gruppi sociali tassati a
quelli che percepiscono gli interessi si verifica anche per interventi
che non mirino a ridurre il debito ma si limitino a costituire, nel
bilancio dello Stato, un ‘avanzo primario’ (primario = al netto degli
interessi), vale a dire ridurre il deficit ad un ammontare inferiore
alla spesa per interessi, finanziando quindi con imposte una quota degli
interessi stessi.
La specificità del problema distributivo che tale trasferimento
alimenta è connesso alla natura degli interessi quale puro reddito dei
percettori, che non risponde ad alcuna deliberata programmazione di
utilità sociale come invece è, in linea di principio, per le altre
categorie della spesa pubblica, e al fatto che quel reddito affluisce in
proporzione maggiore alle categorie nelle quali si concentrano quote
relativamente alte della ricchezza privata complessiva, e quindi anche
di titoli pubblici. In presenza di elevati livelli di debito pubblico, e
perciò di flussi consistenti di interessi, la copertura con imposte di
quote rilevanti di essi può allora produrre significativi effetti
regressivi nella distribuzione dei redditi, con conseguenze negative sia
sul piano economico che sul piano sociale. Questo fenomeno, alla
dimensione del quale concorrerebbe evidentemente l’altezza dei tassi
d’interesse sul debito, e quindi il regime di politica monetaria
operante, rappresenta il problema forse più serio che l’accumulazione di
debito pubblico può generare, ove si proceda ad una eventuale riduzione
o stabilizzazione del suo ammontare.
Indicatori di sviluppo mondiale
Il debito pubblico detenuto da soggetti esteri
Veniamo ora al debito pubblico che sia nelle mani di soggetti esteri.
Talvolta si afferma che il debito detenuto all’estero, diversamente dal
debito interno, costituirebbe un debito della nazione nel suo
complesso, in quanto in tal caso i creditori non appartengono alla
medesima comunità del debitore. Questo argomento trascura il fatto che
la sottoscrizione o l’acquisto di titoli da parte di non residenti
rientra nella categoria dei cosiddetti ‘movimenti di capitale’, che per
loro stessa natura non alterano la posizione del paese nei confronti
dell’estero. Per il paese emittente la vendita di titoli a operatori
stranieri comporta infatti una corrispondente entrata di valuta estera,
che lascia invariato il saldo tra crediti e debiti nei confronti del
resto del mondo, come qui di seguito schematizzato con riferimento ad
una ipotetica vendita di titoli pubblici per un ammontare di 100:
Supponendo che si tratti del collocamento di titoli di nuova
emissione, consideriamo l’operazione nella prospettiva del Tesoro che ha
emesso i titoli stessi. Il Tesoro riceve l’equivalente di 100 in valuta
estera, che viene convertita in valuta nazionale mediante cessione alla
Banca Centrale, la quale acquista la valuta estera emettendo 100 di
valuta nazionale. Disaggregando il conto del Tesoro e quello della Banca
Centrale, le variazioni nelle rispettive attività e passività sarebbero
quindi le seguenti:
Il Tesoro è allora in grado di usare 100 di moneta nazionale per
finanziare la spesa pubblica. Risulta così che, all’interno del paese,
il finanziamento del deficit pubblico mediante la vendita di titoli
all’estero equivale ad un finanziamento presso la Banca Centrale e
corrispondente emissione di moneta da parte di questa. Nel caso
considerato il Tesoro paga però sui suoi titoli l’interesse di mercato,
mentre la Banca Centrale lucra il rendimento delle attività fruttifere
nelle quali è libera di impiegare la valuta estera che ha acquistato al
costo zero della moneta nazionale emessa in contropartita.
Corrispondentemente a quanto vale per i due flussi di capitale, nei
confronti dell’estero l’operazione genera quindi un flusso di interessi
in uscita e un flusso di interessi in entrata, il cui saldo potrà essere
positivo, negativo o nullo a seconda della differenza tra il tasso
d’interesse che il Tesoro paga sul debito collocato all’estero e il
tasso di rendimento delle attività acquistate dalla Banca Centrale.
Per il paese nel suo complesso non vi è dunque ragione di ritenere
che l’operazione debba risolversi in un peggioramento, piuttosto che un
miglioramento, dei conti verso l’estero. Nel confronto con un
finanziamento diretto del debito pubblico da parte della Banca Centrale,
che, come si è detto, sarebbe del tutto equivalente nei suoi effetti
sul piano interno, l’operazione stessa risulta però particolarmente
inefficiente dal punto di vista del Tesoro, e quindi, si potrebbe dire,
dell’interesse collettivo. Essa combina infatti il medesimo aumento
della quantità di moneta interna che si avrebbe con il finanziamento
presso la Banca Centrale (ove questo non fosse impedito da vincoli
istituzionali, quali quelli vigenti nell’area euro), con un costo per
interessi a tassi presumibilmente maggiori di quelli che la Banca
Centrale applicherebbe al Tesoro. Il maggior onere si ridurrebbe, fino
eventualmente ad azzerarsi, nella misura in cui la Banca Centrale
trasferisse al Tesoro l’eccedenza del lucro che essa realizza
dall’operazione rispetto al tasso di interesse applicabile ai suoi
impieghi a favore del Tesoro; ma resta che, ai fini del finanziamento
del deficit di bilancio, nonché del controllo dell’offerta di moneta,
non vi sarebbe alcuna ragione per preferire il collocamento di titoli
pubblici all’estero piuttosto che presso la Banca Centrale. Con
specifico riguardo alla zona euro, queste considerazioni si aggiungono
ai dubbi che per altre, anche più importanti, ragioni si possono nutrire
circa la sensatezza del divieto di qualsiasi finanziamento diretto dei
Governi da parte della Banca Centrale Europea.
Abbiamo prima sottolineato che la vendita o il collocamento
all’estero di titoli del debito pubblico non genera un debito della
nazione, in quanto ha in contropartita una equivalente entrata di valuta
estera che mantiene invariate le attività nette sull’estero del Paese.
Naturalmente, se accadesse che la valuta estera così acquisita fosse
utilizzata per finanziare una eccedenza delle importazioni sulle
esportazioni, e cioè un saldo negativo della bilancia commerciale,
quella attività sull’estero scomparirebbe dal bilancio del Paese (e
specificamente della Banca Centrale), e il debito pubblico esterno
resterebbe quale debito della nazione. Dovrebbe però essere evidente che
la causa dell’indebitamento della nazione non starebbe nel debito
pubblico collocato all’estero, ma appunto nel deficit commerciale del
Paese. In presenza di un deficit della bilancia commerciale quel debito
si sarebbe infatti prodotto anche qualora il bilancio pubblico fosse
stato in pareggio: in quel caso esso avrebbe assunto una forma diversa,
ad es. debito nei confronti del Fondo Monetario Internazionale, ma
sarebbe comunque esistito. Nel caso in cui il deficit del bilancio
pubblico, con collocamento di titoli all’estero, si accompagnasse ad un
disavanzo della bilancia commerciale, il debito verso l’estero generato
dal disavanzo commerciale si sovrapporrebbe al collocamento estero del
debito pubblico e ne prenderebbe la forma, ma la sua causa starebbe
comunque nell’eccesso delle importazioni sulle esportazioni.
Ancora sul debito pubblico esterno
Per sostenere che il debito pubblico detenuto all’estero presenta una
maggiore problematicità rispetto a quello interno ci si richiama
talvolta ad un argomento distinto da quello discusso nel paragrafo
precedente, e relativo alla diversa capacità di imposizione fiscale, nei
due casi, da parte dello Stato emittente. La tesi è che mentre con
riguardo al debito interno il Governo potrebbe, in linea di principio,
introdurre imposte tali da ottenere che di fatto il costo del servizio
(interessi e ammortamento) sia in larga misura a carico dei creditori
stessi, questo non potrebbe farsi per il debito in mano ad operatori
stranieri, che non sono soggetti alle normative tributarie del paese
emittente. Per il debito interno il problema distributivo che sorge nel
momento in cui si ritiene che il debito stesso debba essere ridotto
ammetterebbe quindi una soluzione che non sarebbe invece accessibile per
il debito detenuto all’estero.
Anche questo argomento non è corretto, in quanto non coglie tutti gli
aspetti del fenomeno. Chiariamo anzitutto che la possibilità che i
detentori di titoli pubblici siano tassati in quanto tali non esiste.
Presa al suo estremo, una imposizione fiscale che facesse gravare
interamente il servizio del debito sugli stessi soggetti che detengono i
titoli implicherebbe un prelievo del 100% sugli interessi ed una
aliquota anch’essa del 100% sul valore di rimborso dei titoli stessi:
cioè a dire, la sottoscrizione di titoli pubblici equivarrebbe ad un
atto di donazione a favore dello Stato. Prima ancora di ogni questione
di disparità di trattamento, e quindi di legittimità, è evidente che ciò
azzererebbe in assoluto la convenienza ad acquistare titoli pubblici.
Analoga considerazione vale, tuttavia, per qualsiasi trattamento fiscale
che, seppur meno drastico, si applichi specificamente ai titoli del
debito pubblico, riducendone in misura sensibile il rendimento
relativamente a quello offerto da altri impieghi. La questione
effettivamente proponibile si riduce allora a quella di una più generale
tassazione dei possessori di ricchezza: in quanto tali, può ritenersi
che essi detengano anche buona parte dei titoli del debito pubblico, ma
inevitabilmente questo tipo di imposizione fiscale non conserva alcuno
specifico nesso con il possesso di titoli pubblici. Ora, né la
possibilità, nè l’opportunità di tassare la ricchezza privata interna al
fine di coprire il servizio del debito pubblico sono in alcun modo
condizionate dalla circostanza che una quota del debito è detenuta
all’estero. Si noti che neanche la dimensione della ricchezza privata
interna, e quindi la potenziale base imponibile di tale tassazione,
viene ad essere ridotta dal fatto che parte del debito pubblico si trova
al di fuori dei confini nazionali. Ciò è immediatamente evidente nel
caso in cui gli operatori esteri abbiano acquistato i titoli sul mercato
secondario da soggetti nazionali, i quali avrebbero pertanto
semplicemente convertito in attività estere una quota della propria
ricchezza precedentemente costituita da titoli del debito pubblico
nazionale. Qualora si tratti di titoli di nuova emissione sottoscritti
all’estero, si è prima precisato che in tal caso il deficit pubblico è
finanziato da un aumento dello stock di moneta nazionale, cui
corrisponde un aumento della quota della ricchezza privata interna
costituita appunto da mezzi liquidi—in altri termini, la dimensione
della ricchezza del settore privato nazionale sarebbe la stessa sia nel
caso che i titoli del debito fossero sottoscritti all’interno, sia che
essi fossero sottoscritti all’estero, con la differenza che in questo
secondo caso i titoli del debito pubblico nazionale sarebbero
‘sostituiti’ da moneta nei portafogli degli investitori interni.
In conclusione, dunque, il fatto che una quota del debito pubblico
sia in mano a operatori esteri in nulla inficia una eventuale tassazione
della ricchezza del settore privato che miri a far sostenere il costo
del servizio del debito pubblico prevalentemente ai medesimi gruppi
sociali che lo detengono.
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