31/10/12

Hero of the day: Fata Morgana




Hero Of The Day 
Mama they try and break me
The window burns to light the way back home
A light that warms no matter where they’ve gone
They’re off to find the hero of the day
But what if they should fall by someone’s wicked way
Still the window burns Time so slowly turns
And someone there is sighing Keepers of the flames
Do ya feel your name? Can’t you hear your babies crying?
Mama they try and break me Still they try and break me
‘Scuze me while I tend to how I feel
These things return to me that still seem real

Now deservingly this easy chair But the rocking stopped
by wheels of despair Don’t want your aid
But the fist I’ve made For years can’t hold or feel
No, I’m not all me So please excuse me
While I tend to how I feel  But now the dreams and waking screams
That never last the night So build the wall, behind the crawl
And hide until it’s light So can you hear your babies crying now?
Still the window burns Time so slowly turns
And someone there is sighing Keepers of the flames
Do ya feel your name? Can’t you hear your babies crying?
But now the dreams and waking screams
That never last the night So build the wall, behind the crawl
And hide until it’s light So can you hear your babies crying now?
Mama they try and break me


Mamma provano a spezzarmi e ci riescono










Led Zeppelin: Il Dirigibile in fiamme

Jimmy Page vagava per la stazione di Londra alterato e confuso con una bustina di cocaina addosso. Da solo, sembrava quasi non sapesse dove si trovava e perché' stava lì. Due poliziotti di pattuglia lo fermano e gli trovano le dosi; lo portano via. Era la seconda volta che veniva arrestato dalla fine dei Led Zeppelin. Adesso era il novembre del 1984 e da quel giorno per Jimmy non c'era stato molto: a parte i concerti benefici di ARMS con gli altri chitarristi degli Yardbirds, Clapton, e Jeff Beck, più celebrità varie come Charlie Watts e Bill Wyman degli Stones, Joe Cocker e Steve Winwood e una partecipazione al disco di Robert Plant tra gli Honeydrippers, era stato più che altro un decadimento - anche se con l'eroina diceva di averci dato un taglio. Aveva quarant'anni ma ne dimostrava di più e le sue dita a volte stentavano a correre lungo il manico della Gibson. Non gli era servito a niente rendersi amico lo spirito di Aleister Crowley: dell'occultista aveva comprato tanti oggetti personali, cappelli, bastoni da passeggio, amuleti, paramenti sacri e attrezzi da cerimonia, i paraphernalia, la biblioteca. Ne aveva studiato le formule magiche e in più di un’occasione le aveva usate per riti con sangue e candele. Cosi si raccontava. Ma doveva tapparsi le orecchie ogni volta che sentiva dire che da questa frequentazione sarebbero derivate tutte le sciagure dei Led Zeppelin, come la morte del bambino di Plant, il piccolo Karac di cinque anni, deceduto quasi di colpo in Inghilterra per un misterioso virus alle vie respiratorie il 27 luglio del 1977, quando i Led erano in tour in America. "Sacrificio di sangue: un bambino maschio di perfetta innocenza e di alta intelligenza è la vittima più soddisfacente e adatta", aveva scritto Crowley in Magik. Doveva chiudere gli occhi ogni volta che rivedeva la fine di John "Bonzo" Bonham. Un giornale inglese, il Ministry Magazine, arrivò ad accusarlo di responsabilita' in quel decesso, parlando di un suo rito finito in tragedia. Page denunciò la rivista, vincendo tanti anni dopo la causa, ma il sospetto l'avrebbe per sempre perseguitato. "Quando uno di noi morirà, finirà anche la band", aveva dichiarato Jimmy, e con la morte di Bonham erano morti anche i Led Zeppelin. Si chiedeva a cosa era servito stringere amicizia con il diavolo: gli aveva dato la fama più assoluta, una band che aveva cambiato la storia del rock, donne, droga, e infine lutti. Ora Jimmy sembrava come il tipo del desolato bar ritratto su una delle sei copertine dell'ultimo disco dei Zeppelin, In Through The Out Door: solo e curvo su i suoi pensieri di sconfitta e malinconia.

28/10/12

60 Anni Di Urania

60 D'INTELLIGENZA
di Valerio Evangelisti 

 Lessi i miei primi due Urania a undici anni, nel 1963. La collana aveva infatti la mia stessa data di nascita (1952), con qualche mese di differenza. Me li regalò un’amica di mia madre, e contenevano, per pura combinazione, due romanzi dello stesso autore, Damon Knight. Il primo, Il pianeta dei superstiti, descriveva un universo futuro in cui la terra, completamente inquinata e devastata dalle guerre, era stata abbandonata dai suoi abitanti. Questi erano stati ospitati su lontani pianeti della galassia popolati da razze ripugnanti di aspetto, ma civilissime ed evolute. Accecati dal razzismo e da una malintesa idea di superiorità, un gruppetto di terrestri riarma l’ultima astronave da guerra restata in loro mani, e intraprende una guerra di sterminio contro coloro che chiama “gli insetti”, distruggendo civiltà e culture intere. La sconfitta degli avventurieri prepara, per le comunità degli esuli dalla terra, un finale triste e amaro. Il secondo romanzo, Il lastrico dell’inferno (fatto, secondo il proverbio, di buone intenzioni), era ambientato in un’epoca futura meno remota. Vi veniva inventata una forma di condizionamento psichico capace di provocare allucinazioni a chiunque fosse sul punto di commettere un crimine. Solo che della tecnica si impadronivano alcune multinazionali, e la applicavano a chi stesse per comperare le merci di un concorrente. In tal modo il mondo si suddivideva in spicchi, dominati ognuno da una corporation e chiusi alle merci rivali. Il romanzo narra la storia di un giovane che non è stato condizionato, e vaga tra le diverse aree mercantili alla ricerca di ribelli come lui. Leggevo tutto ciò nel 1963, e chi ricordi com’era l’Italia allora capirà la mia felice sorpresa. Nella narrativa corrente, pur stilisticamente più rifinita, c’era poco che somigliasse a tematiche così vaste (pur essendo ancora bambino, rifiutavo i testi concepiti per la mia età). Diventai un lettore affezionato di Urania, mi procurai i numeri arretrati e, col poco che avevo in tasca, quelli in uscita. Fu una lotta durissima e clandestina. Gli insegnanti – ricordo in particolare una professoressa di italiano, al ginnasio – le ritenevano letture scadenti e diseducative. La suddetta docente arrivò a telefonare ai miei genitori per metterli in guardia. Leggevo Urania, ero sulla via della perdizione (in realtà leggevo molto altro, ma non contava). Quali le colpe della fantascienza?
1) trattava di cose non vere;
2) faceva paura.
In effetti ambedue i capi di imputazione erano fondati. Per fare un esempio, i due romanzi di Damon Knight che ho citato (scritti negli anni Cinquanta) non narravano fatti reali. Lo sarebbero diventati, quale problematica, un ventennio dopo. E la paura c’era, di fronte all’ignoto totale che incombeva su un undicenne italiano riguardo al futuro. Rimasi a lungo paralizzato davanti a un titolo: L’incubo sul fondo, di Murray Leinster. Mi spaventava, non osavo sfogliarlo (quando lo lessi, finalmente, risultò una boiata). Teniamo presente che, in quell’epoca, la gente sveniva di paura alla visione del film La mummia, con Peter Cushing e Christopher Lee. Un brivido, non tanto di terrore quanto di vertigine, percorse tutta la mia adolescenza e incise senza dubbio sulla mia formazione. Anche le storie più povere e banali contenevano a volte uno spunto geniale, un’idea inquietante, un risvolto sorprendente che induceva a riflettere. Con autori come Philip K. Dick, il mio favorito, si toccava il terreno filosofico; con James Ballard la pura letteratura; con lo scrittore trotzkista Mack Reynolds la critica sociale più aspra e pungente. Né posso dimenticare che fu su Urania che conobbi per la prima volta Mikhail Bulgakov, grazie al racconto Terrore sul kolkhoz (in seguito noto come Le uova fatali). Ma non voglio soffermarmi su autori noti e meno noti, a me graditi oppure sgraditi. La collana, in confezione non sempre degna (era pessima abitudine di Fruttero e Lucentini accorciare i romanzi per adattarli al numero di pagine ridotto), sprigionava nel suo assieme un senso di libertà dovuto alla moltiplicazione dei futuri possibili, alla nozione di alternativa. Poi arrivò il giorno del 1994 in cui io stesso fui pubblicato da Urania, evento che cambiò la mia vita. Ma già i mitici fascicoli bordati di bianco, da decenni, avevano modificato il mio modo di pensare, di interpretare il reale, di sognare – in una parola, il mio modo di esistere.


Rock (Coming ) Out

Non tutti gli artisti rock hanno vissuto la propria omosessualità in maniera pubblica e pubblicizzata. Nel mondo dell’intrattenimento musicale la sessualità è rappresentata troppo spesso da stereotipi e scegliere di uscire da questi schemi può essere una decisione difficile. Negli anni ’70 e ’80 il rock e il pop scoprirono la trasgressione del glam e della disco music. L’identità sessuale ambigua era parte dello spettacolo: l’alieno di David Bowie, il Lou Reed di Transformer, i travestimenti di Elton John e Freddie Mercury, le drag queen delle discoteche, i Village People, Boy George. L’omosessualità andava di pari passo con l’idea spettacolo, show, nascondendo spesso un trauma personale e una lotta per un riconoscimento che non fosse la curiosità/morbosità del pubblico. Alcuni artisti hanno vissuto la propria omosessualità in modo estremamente sofferto e il loro percorso personale è una storia di intime angosce fino alla completa accettazione di sé.
 
Schede tratte da Gay Rock. Artisti al cuore dei propri generi musicali, personaggi che hanno disvelato la propria sessualità dopo averla celata nelle maniere più sofferte e improbabili.
di Guido Mariani - Alias


LITTLE RICHARD
Terzo di dodici figli, Richard Wayne Penniman nasce nel dicembre del 1932 nello stato razzista della Georgia. «Mio padre mi cacciò di casa - ricorderà in un’intervista-. Disse che voleva sette maschi, ma che io avevo rovinato il suo sogno, perché ero gay». Rifiutato perché omosessuale, segregato perché nero. Vivrà la sua vita combattendo con se stesso. «Mi chiamavano frocio, femminuccia, delinquente, mostro». Iniziò a suonare giovanissimo e andò in tour con un gruppo chiamato B Brown and his Orchestra: «Venivamo picchiati per un nonnulla, colpiti con bastoni. La polizia mi fermava e mi faceva lavare la faccia. Non potevamo stare negli hotel, andare nei bagni». Pochi anni dopo con il nome di Little Richard divenne uno dei patriarchi del rock’n’roll. La sua Tutti Frutti divenne la colonna sonora di una rivoluzione, un brano selvaggio, scabroso e travolgente, che Pat Boone riuscì a vendere anche alle famiglie bianche in una versione addomesticata («I bianchi dicevano che io ero il demonio»). Sarebbe stato impossibile per lui ai tempi rendere pubblica la propria sessualità, anche perché la sua fede religiosa lo spinse spesso a non accettarsi e a vivere lunghi periodi di rimorso e di conversione. Durante uno di questi sposò nel 1959 Ernestine Campbell, studiosa di Bibbia conosciuta a un meeting evangelico con cui adottò un bambino. Il matrimonio durò però poco, Richard alternava comportamenti selvaggi a periodi di fervori religiosi. Ha avuto anche una lunga relazione intermittente e durata anche in tarda età con una sua amica d’infanzia, Audrey Robinson. Nella sua biografia pubblicata negli anni ’80 proclamò che l’«omosessualità è contagiosa» e proclamò di aver rifiutato il sesso. Nel 1995 in un’intervista a Penthouse disse: «Sono stato gay tutta la vita e so che dio è un dio d’amore e non di odio».

MICHAEL STIPE
Oggi sembra un professore universitario quasi in età da pensione, ma Stipe, 51 anni, agli esordi della sua carriera alla guida dei Rem fu il poster boy della generazione del college rock. Negli anni ’80 fu una sorta di sex symbol per le ragazzine intellettuali che rifiutavano il pop della neonata Mtv per scegliere i loro idoli nella allora fiorente scena underground Usa. Questo lo ha portato per anni a vivere con una certa discrezione la propria omosessualità. In realtà, ha confessato in una recente intervista, «più che un desiderio di tenerlo privato, sono stato costretto a essere un codardo riguardo a questo tema». Un fattore determinante fu anche l’esplosione dell’Aids e il panico da contagio. «Era una caccia alle streghe - ha detto - erano gli anni di Reagan, si parlava di campi di concentramento per i sieropositivi. Si pensava che fosse una malattia gay che i bisessuali potessero diffondere anche alla comunità etero e si sparse la paura». Col tempo Stipe è stato sempre meno timido, negli anni ’90 iniziò a parlare della sua sessualità alla rivista gay Out dovendo però smentire le voci circolate secondo cui eramalato di Aids. Da allora non ha più nascosto la sua omosessualità, pur trattando l’argomento sempre con discrezione.Ma il suo coming out sottotono passò quasi inosservato anche perché Courtney Love lo definì l’uomo più sexy d’America. «Distanzia tutti gli altri di chilometri - disse la cantante -. Se volesse avere un figlio voglio essere nella sua top five». Oggi Stipe ha una relazione stabile e pubblica con il fotografo Thomas Dozol. «Ho avuto relazioni con donne - ha spiegato l’anno scorso a The Observer - ma ho scoperto di preferire gli uomini e ora sono innamorato di una persona che è il mio boyfriend. Nonmi sono mai definito gay, perché secondome l’approccio bianco o nero non funziona, ma ho grande stima e rispetto per chiunque ha fatto scelte diverse, mantenendole con convinzione».


BOB MOULD
La rivoluzione punk Usa degli anni ’80 lo annovera tra gli assoluti protagonisti. Alla guida degli Hüsker Dü divenne uno dei creatori del rock alternativo, creando con Zen Arcade uno dei dischi fondamentali di quell’epoca. Era un mondo di ribelli musicali e di rivoluzionari, ma l’omosessualità non era ancora pienamente accettata e Mould decise di non svelarsi al pubblico. «Era come essere gay sotto le armi - ha detto -. Il principio era: tu non lo chiedi, io non te lo dico. Se non lo promuovevi non avevi problemi. Come artisti punk rock eravamo outsider, più disadattati si raccoglievano e meglio era. Se eri gay eri certamente il benvenuto, ma non dovevi metterlo troppo in evidenza. Negli anni ’80 c’erano diversi artisti, come Jimmy Sommerville o Boy George, che facevano musica con tematiche gay. L’essere androgini era sempre stato parte del rock,ma io non volevo essere identificato come un musicista gay perché avrebbe limitato il pubblico che volevo raggiungere con la miamusica». Negli anni ’90 Bob Mould fondò gli Sugar, gruppo che ottenne un grande successo e in un’intervista al mensile Spin decise di non nascondersi più, comunicando anche il suo profondo disagio con la rappresentazione classica della comunità omosessuale. Per Mould: «I tempi negli anni ’90 erano cambiati. Negli anni ’80 eravamo i cattivi. Spargevamo le malattie e uccidevamo le persone. Io comunque non riuscivo a identificarmi con lo stereotipo colorato e frivolo da gay parade. Non vedevo mai rappresentate le persone reali, gli insegnanti, gli anziani. Anche io come gay dovevo trovare una mia identità». La scelta di vita portò anche a un diverso percorso espressivo, Mould sciolse gli Sugar e si diede alla musica elettronica, esibendosi in discoteche gay con il nome Blowoff. «La mia frustrazione con la moda dell’indie rock combinata alla mia volontà di appropriarmi della mia identità gay mi convinse che la colonna sonora di tutto ciò fosse la musica elettronica». Oggi Mould ha 52 anni e ha fatto pace con se stesso. Ha raccontato la sua avventura nel libro, uscito l’anno scorso, See a Little Light: The Trail of Rage and Melody. Il suo ultimo album Silver Age, uscito quest’anno ritorna al rock che lo ha reso famoso ed è uno dei migliori della sua carriera solista.

 JÓNSI, SIGUR RÓS
Crescere in Islanda non deve essere semplice, non fu certamente semplice per Jón Þor Birgisson, detto Jónsi, che visse un’adolescenza solitaria e isolata in cui la musica era una delle poche consolazioni. «Essere gay - ha ricordato in un‘intervista al Mirror - mi sembrava naturale,ma non lo resi pubblico fino a 21 anni, anche perché vivendo in campagna non incontravo nessuno. Non conoscevo nessuno che fosse gay. Mi sentivo come il personaggio della sit-com Little Britain ’L’unico gay del villaggio’». La musica divenne il rifugio, ma anche la via d’uscita: «Non conoscendo nessuno e, non potendo avere relazioni sentimentali, finivo per creare musica e dedicarmi al disegno per tenermi occupato. Scrivere canzoni mi faceva sentiremeglio. Così posso dire che essere gay ha aiutato la mia carriere ». La musica portò Jónsi fuori dell’isolamento,militò prima nei Bee Spiders e poi fondò i Sigur Rós, band che fu subito ben accolta dalla eclettica scena alternativa islandese e dalla suamusa Björk. I Sigur Rós sono poi diventati una sensazione internazionale, con la loro particolare versione di un post rock spettrale ed etereo. Jónsi compensa queste atmosfere con un progetto musicale semi clandestino che condivide con il compagno Alex Somers chiamato Olympic Boys definito dallo stesso artista di ’gay techno’. È strano che l’omosessualità sia ancora un tema di discussione. Nelle scuole e ovunque dovrebbe essere ormai completamente accettata e fra 50 anni nessuno ci penserà neppure più».

MELISSA ETHERIDGE
Il suo primo album, uscito nel 1988, la proiettò subito tra le più autorevoli cantautrici rock Usa, vendendo 2 milioni di copie e imponendola come autorevole voce della musica al femminile. Nel gennaio del 1993 decise di rivelare a tutti la propria omosessualità in un contesto estremamente pubblico, una festa organizzata dalla comunità gay e lesbo Usa in occasione dell’inaugurazione della presidenza di Bill Clinton che era stato salutato come il primo presidente aperto verso le tematiche omosessuali. Ha ricordato la Etheridge: «Dissi, ‘Sono contenta di essere qui e sono orgogliosa di essere una lesbica da sempre’». Il disco pubblicato poco dopo l’annuncio (intitolato Yes I am, ’Sì lo sono’) fu il suo più grande successo e vendette sei milioni di copie. Da allora ha fatto dell’attivismo per i diritti omosessuali (ma anche delle tematiche ambientali) un vessillo, diventando un simbolo delle lotte femminili anche per il coraggio con cui ha affrontato, nel 2004, il tumore al seno.

RUFUS WAINWRIGHT
Per il cantante canadese, che una volta Elton John ha definito il «più grande cantautore vivente», accettare la propria sessualità lo ha portato ad attraversare quello che egli stesso ha definito, in un’intervista al New York Times, «gay hell» l’inferno dei gay. Figlio benestante di una coppia di artisti affermati (i cantanti Kate McGarrigle e Loudon Wainwright III), fu stuprato a 14 anni da un uomo che lo aveva adescato. Il trauma lo ha portato a rifiutare per anni relazioni stabili e, successivamente, a fare massiccio uso di droghe per poter aumentare la propria fiducia in sé. Ha ricordato: «Anni di insicurezza sessuale, la discriminazione di cui si è vittime, il bisogno di appartenere a un luogo, questo con la droga scompare. In un attimo». Anche dopo il grande successo dell’album Poses del 2000 che lo ha portato alla ribalta internazionale, ha vissuto una vita dissoluta in cui gli eccessi di droghe e sesso occasionale erano una regola: «Con le droghe tutto è più pericoloso ed esaltante. Con le droghe anche le idee più perverse diventano eccitanti». Nel 2002 ebbe un crollo definitivo e decise di disintossicarsi. Dal 2010 ha una relazione stabile con l’artista tedesco Jörn Weisbrodt i due crescono un figlio, avuto da Rufus con Lorca Cohen, la figlia di Leonard Cohen. Le tematiche omosessuali sono al centro delle sue canzoni, come nel brano Going to a Town del 2007 in cui si chiede: «Ditemi, andrò davvero all’inferno per aver amato?».


 CHUCK PANOZZO, STYX
Il bassista e fondatore degli Styx ha vissuto per anni recitando la parte dell’eterosessuale, nascondendo al pubblico la propria omosessualità. La paura era di danneggiare la sua reputazione pubblica e compromettere il successo del suo gruppo che tra gli anni ’70 e ’80 aveva venduto negli Usa milioni di dischi divenendo una delle più celebri band di rock pop. Suo fratello gemello, John Antony, scomparso nel 1996, era il batterista del gruppo, Chuck gli rivelò la sua omosessualità quando avevano vent’anni, ma gli altri membri della band per lungo tempo non ne furono al corrente. Nel 1991 scoprì di avere contratto l’Hiv e la sua situazione divenne anche più difficile da gestire. «Chiesi al dottore - ha ricordato Panozzo - quanto mi restasse da vivere. Mi rispose ’non lo so'». La sua salute peggiorava e la sua vita divenne un inferno. «Ero completamente distaccato dalla mia carriera professionale. Andavo in tour e non mi sentivome stesso. Solo l’idea di guardare negli occhi il pubblico era diventata per me insopportabile». Panozzo alla fine decise di fare coming out nel 2001, a 53 anni, e di rendere pubblica anche la sua sieropositività. «La mia vita è cambiata completamente. Non ho più paura di esibirmi, riesco davvero a dare tutto me stesso e a divertirmi.
Non ho mai avuto paura di essere scoperto da altri, ma ho sempre avuto paura di non essere in grado di venire allo scoperto per mia scelta». La ricetta del suomiglioramento è stato anche quello di cambiare l’atteggiamento nei confronti della malattia: «Ormai la considero una malattia che si può curare e non più qualcosa di terminale. Il mio desiderio è ora quello di ispirare gli altri gay o etero, a vivere una vita onesta rimanendo orgogliosi di se stessi».

ROB HALFORD
Negli anni ’70 e ’80 gli omosessuali potevano conquistare la scena del pop, ma un genere musicale come il metal non rinunciava alla propria immagine dura e pura, fatta di machismo e aggressività. In realtà il cantante di una delle principali band del genere, Rob Halford, leader dei Judas Priest, era gay nonostante fosse l’icona del guerriero dell’hard rock. Halford lasciò i Priest nel 1991 e nel 1998 decise di fare coming out in un’intervista a Mtv. Lo scalpore fu suscitato dall’assoluta indifferenza con cui la comunità metal reagì alla notizia, segno che una musica ritenuta sessista, misogina e omofoba in realtà aveva saputo evolversi, diventare progressista. Nel 2003 Halford è tornato nei Judas Priest e la band è stata accolta dai fan con l’entusiasmo dei tempi andati. «Sarebbe stato difficile per me uscire allo scoperto negli anni ’70 o ’80, - ha detto Halford -. Ero consapevole della reazione che avrei causato nei media e tra i fan e del possibile danno che avrei causato ai miei compagni della band. Ci sono ambienti musicali che sono più tolleranti più aperti e più comprensivi quello che penso di aver fatto è stato distruggere il mito che le band di heavy metal non hanno queste capacità. Oggi il mondo è diverso e il metal è un mondo completamente nuovo rispetto al 1980». Diverse band heavy oggi non nascondono il loro orientamento sessuale. La cantante degli Otep, Shamaya, gay dichiarata, ricorda un concerto dei Priest: «Nel 2004 ho visto i Judas Priest al festival Ozzfest. Migliaia di metallari che urlavano le canzoni senza che nessuno si preoccupasse della sessualità di Halford. Per me è stato fantastico».

KELE OKEREKE, BLOC PARTY
Il cantante della band inglese dei Bloc Party, uscita di recente con l’album Four, non si è mai nascosto, ma ha raramente affrontato il tema della sua omosessualità. Alla rivista gay Butt, Kele Okereke, britannico di origini nigeriane, ha confessato la difficoltà di farsi accettare dai suoi genitori, cattolici praticanti. «I miei provengono da un parte della Nigeria dove i gay non compaiono – ha spiegato -. Sono cattolici molto rigidi e stanno diventando anziani. Non riuscivo ad accettare l’idea che potessero un giorno morire senza sapere qualcosa che fa parte in modo così determinante della mia vita. Non è stato facile. Ma so che mi amano e che io amo loro». Rompere il riserbo, però, sul tema lo ha reso una figura di riferimento per tanti giovani fan: «Quando vado in giro, sono sempre fermato da giovani, da ragazzini gay che dicono che è incoraggiante vedere qualcuno di una rock band mainstream che ha avuto il coraggio di uscire allo scoperto. È per questo che ne parlo, dopo anni in cui ho preferito non farlo. È bello far vedere che i gay non sono solo uno stereotipo». 



25/10/12

Anonymous Vs. Viminale

Il movimento hacker italiano rivendica l'intrusione informatica sui server del ministero dell'interno. Violati i sistemi informatici della polizia. Migliaia di documenti messi in rete. Tra i file centinaia di pagine sul movimento della Val Susa, sulle proteste degli studenti e sugli ambientalisti

Più di un giga di documenti, per un totale di oltre 3500 file. All'apparenza potrebbe rivelarsi una sorta di wikileaks tutto italiano l'ultimo "trofeo" offerto dal collettivo digitale Anonymous, che tra il 21 e 22 ottobre è penetrato nei server della Polizia di stato, scaricando il contenuto di hard disk teoricamente inviolabili. Email, rapporti, qualche foto ricordo, password e procedure di accesso ai portali più delicati del sistema giudiziario e delle forze dell'ordine; un vero e proprio zibaldone delle questure, da Gela fino ad Udine, che sta imbarazzando non poco i responsabili dei sistemi informatici del ministero dell'interno.
Tra i tanti files - che potranno essere analizzati e letti nelle prossime ore - spicca un'intera cartella dedicata al movimento NoTav. C'è un lungo rapporto - più di cinquanta pagine - intitolato «Monitoraggio dei sodalizi della sinistra e della destra antagonista», con l'elenco minuzioso dei tanti gruppi piemontesi dichiaratamente contrari all'alta velocità in Val di Susa. Nomi, area di riferimento - con il ritorno di sigle e gruppi antichi - movimenti, rapporti, il tutto minuziosamente compilato dalla questura di Torino, seguendo le precise indicazioni del ministero dell'interno, divulgate nei mesi scorsi. Spicca l'analisi superficiale delle formazioni di estrema destra, che occupano le ultime pagine del dossier, non riportando - paradossalmente - nessun episodio di «tensione o violenze». Alla voce «eventuale attività investigativa svolta» per le formazioni dell'estrema destra regolarmente i funzionari della questura di Torino annotano «nessuna», mostrando - almeno in questo caso - un certo preoccupante disinteresse per l'area neofascista. Nessun pericolo, dunque, dalle formazioni apertamente xenofobe e razziste; il vero nemico, per la polizia di stato, rimane l'area dell'antagonismo NoTav.
La lettura dei documenti riporta al passato degli anni '70, tra analisi schematiche della complessa realtà dei movimenti e un linguaggio decisamente grigio e burocratico. Nelle schede dedicate ai militanti NoTav spesso vi è il riferimento a «precorsa corrispondenza con codesto Ministero», mostrando l'attività di intensa intelligence realizzata dalle forze di polizia su ciò che accade nella sinistra radicale piemontese. L'interesse per i movimenti non si ferma alla Val di Susa. In una cartella contenuta negli hard disk copiati da Anonimous vi sono anche quattro foto scattate durante la manifestazione contro l'inquinamento della valle del Sacco a Colleferro, appena quindici giorni fa. Segno della probabile presenza di uno specifico dossier negli archivi del ministero dell'interno e di un monitoraggio particolarmente intenso del mondo ambientalista. Attenzione alta anche per gli studenti, il cui movimento - secondo la sezione ordine pubbico della questura di Udine - ha «al suo interno elementi riconducibili all'area antagonista della sinistra», mostrando «una certa ostilità nei confronti del ministro della pubblica istruzione Francesco Profumo».
Sul sito italiano di Anonymous ieri mattina è apparso il comunicato di annuncio dell'intrusione nei computer della polizia di stato: «Da settimane ci divertiamo a curiosare nei vostri server, nelle vostre e-mail, i vostri portali, documenti, verbali e molto altro», spiegano gli attivisti. Sul contenuto dei documenti scaricati gli hacker spiegano nei dettaglio l'importanza dell'operazione: «Documenti sui sistemi di intercettazioni, tabulati, microspie di ultima generazione, attività sotto copertura; file riguardanti i NoTav e i dissidenti; varie circolari ma anche numerose mail». In molte immagini divulgate ieri appaiono le schermate del sistema di email della polizia, mostrando la vulnerabilità degli account. Messaggi personali, scambi di documenti, credenziali per accedere ai sistemi di intercettazione: di certo la mole d'informazioni che potrebbe a breve divenire pubblica è enorme. Secondo il dipartimento della pubblica sicurezza Anonymous avrebbe in realtà violato solo alcune caselle di email e non i server dove transitano le informazioni più delicate: «Al momento non risulta alcuna violazione del server della Polizia - spiega una nota divulgata ieri pomeriggio -. Sono stati invece registrati indebiti accessi a diverse email personali di operatori di Polizia».

23/10/12

Cos'è il debito pubblico

Che cos’è il debito pubblico e perché non è “il” problema

Posted by keynesblog

Mappa del Debito pubblico in percentuale sul PIL, l’Economist

Pubblichiamo una parte del saggio di Roberto Ciccone tratto dall’e-book “Oltre l’austerità”. Alcune parti del testo sono tecniche, ma non particolarmente complesse. Anche al di là di queste parti, tuttavia, il saggio ha il pregio di smontare molti luoghi comuni sul debito pubblico.

Sulla natura e sugli effetti del debito pubblico

Queste note hanno lo scopo di chiarire alcuni aspetti di base della natura del debito pubblico e degli effetti che esso può produrre sul sistema economico, con riguardo ai quali fraintendimenti, opacità concettuali e false convinzioni appaiono frequenti. Le puntualizzazioni qui esposte possono quindi essere preliminari (se ritenute valide) ad analisi di livello più avanzato circa temi e problemi connessi al finanziamento in debito della spesa pubblica.

Natura del debito pubblico

- Che cos’è il debito pubblico?

Il debito pubblico è il debito che il settore pubblico di un paese contrae nei confronti di soggetti ad esso esterni (famiglie, imprese, istituzioni finanziarie). Lo stock di debito al quale si fa generalmente riferimento consiste di titoli a breve, medio e lungo termine, e non include invece altre forme di debito (ad es. i debiti verso fornitori). L’emissione di debito pubblico ha lo scopo di procurare al settore pubblico mezzi di pagamento necessari a finanziare il deficit pubblico, e cioè l’eccesso di spesa pubblica (inclusi gli interessi sul debito) rispetto alle entrate dello stesso settore pubblico.

- Il debito pubblico è un debito della nazione?

Circa il debito pubblico sono frequenti dei fraintendimenti relativi alla sua natura. Uno tra i più diffusi è quello per cui il debito pubblico costituirebbe un debito della nazione. E invece il debito pubblico è un debito di una parte della collettività verso la restante parte della stessa collettività, per cui la nazione non è né più né meno indebitata per effetto dell’emissione di debito pubblico (rinviamo al par. 1.5 il caso di debito pubblico detenuto da soggetti esteri, che è un po’ più complicato ma, come si vedrà, non introduce differenze sostanziali rispetto a quanto testè detto). Perciò l’analogia, talvolta evocata, tra il debito pubblico e il debito di una famiglia non è corretta: se l’analogia ammissibile sarebbe quella con il debito di un componente della famiglia verso un altro componente, ad es. del figlio verso il padre: è evidente che non avrebbe senso dire che la famiglia in quanto tale sarebbe indebitata.
Da ciò segue che per il settore privato i titoli del debito pubblico da esso posseduti formano parte della sua ricchezza. La ricchezza del settore privato aggregato (incluse le istituzioni finanziarie) è infatti così composta (lasciando da parte i rapporti con l’estero):

- Capitale reale (immobili, attrezzature produttive)
- Titoli del debito pubblico
- Moneta

Un più elevato stock di debito pubblico implica pertanto una maggiore dimensione della ricchezza privata costituita da titoli pubblici. A parità di ogni altra condizione, pertanto, un maggiore ammontare di debito pubblico comporterebbe un maggiore ammontare di ricchezza complessiva per il settore privato. La questione che a questo riguardo si pone, allora, è se uno stock più elevato di debito pubblico possa effettivamente accrescere la ricchezza privata complessiva, o se invece la quota di questa che sia detenuta nella forma di titoli pubblici vada necessariamente ad assorbire ricchezza che avrebbe altrimenti preso altre forme (e in particolare la forma di capitale reale): di ciò si tratterà più avanti, nel par. 2.2.

- Il debito pubblico è un onere a carico delle future generazioni?

Un altro argomento spesso avanzato, e connesso a quello ora considerato, circa la natura del debito pubblico è che quest’ultimo costituirebbe un onere a carico delle future generazioni. Sulla base del presupposto che il debito pubblico esistente debba prima o poi essere estinto, o quanto meno ridotto, si sostiene che le generazioni che verranno saranno tenute a pagare maggiori imposte (o usufruire di minori servizi pubblici), onde consentire allo Stato di accumulare gli avanzi di bilancio necessari appunto a rimborsare il suo debito.
Le imposte che ai ‘padri’ è stato consentito di non pagare, lasciando che si formasse debito pubblico, ricadrebbero quindi sulle spalle dei ‘figli’, costretti a sopportare un più elevato rapporto tra imposte e prestazioni pubbliche per saldare quanto i loro genitori hanno lasciato insoluto. Questa tesi—una variante della quale è che grazie all’accumulo di debito pubblico le generazioni passate avrebbero vissuto ‘al di sopra dei propri mezzi’, compromettendo così il tenore di vita dei loro discendenti—attribuisce perciò alle misure fiscali volte alla riduzione del debito pubblico un carattere di equità intergenerazionale che dovrebbe renderle non resistibili agli occhi del pater familias.
Come si dirà nel par. 2.3, l’analisi economica non ha individuato un limite alla dimensione del debito pubblico, oltre la quale la sua riduzione debba considerarsi necessaria. Ma anche ammettendo che in futuro tale esigenza si ponga, e che a questo scopo le generazioni che verranno saranno chiamate a sostenere un più elevato rapporto tra imposte e servizi pubblici ricevuti, non è difficile vedere che nessun onere aggiuntivo graverebbe per questo su di esse.
La ragione di ciò sta, ancora, nella natura del debito pubblico quale componente della ricchezza del settore privato, e pertanto quale attività che le future generazioni riceveranno in eredità dalle generazioni precedenti. Al maggior carico fiscale che graverà su di esse (posto che il debito pubblico debba essere ridotto) si accompagna infatti il lascito dei titoli rappresentativi del debito pubblico che verranno loro trasmessi: la situazione patrimoniale delle generazioni successive non sarà perciò né peggiorata, né migliorata, da un futuro rientro dal debito pubblico. (In termini tecnici, il valore attuale delle future maggiori imposte con le quali verrebbe finanziato il servizio (interessi + rimborso alla scadenza) di un certo ammontare di debito pubblico equivale al valore attuale di interessi e capitale finale cui i corrispondenti titoli danno diritto.)
Tra generazioni in quanto tali, dunque, nessuna redistribuzione di oneri ha luogo, in generale, per effetto della esistenza ed eventuale estinzione del debito pubblico. Per configurare un gravame a carico delle generazioni successive è necessario adottare l’ipotesi particolare che i titoli del debito pubblico, anziché essere trasmessi per via ereditaria, siano venduti dalla generazione precedente a quella successiva, per la quale l’aumento del carico fiscale non sarebbe in tal caso compensato dalla gratuità della acquisizione dei titoli. Questa modalità di trasmissione sarebbe però in evidente contrasto con il fatto che in generale nelle nostre società il trasferimento intergenerazionale della ricchezza ha luogo mediante il lascito ereditario; e, a ben riflettere, ciò non è un caso, perché l’istituto della successione ereditaria ha la precipua finalità della conservazione della distribuzione esistente della ricchezza tra famiglie e quindi, in ultima analisi, tra gruppi sociali. Soltanto negando questa fondamentale circostanza istituzionale si potrebbe perciò supporre che la ricchezza del settore privato, e quindi la quota di essa costituita da titoli pubblici, si trasferisca da una generazione all’altra mediante compravendita—come nella ‘teoria del ciclo vitale’, la cui validità incontra infatti in questo aspetto un limite rilevante. A riprova, basti considerare che se, a partire da una elevata concentrazione della ricchezza, si immaginasse che i ‘giovani’ acquistino gli asset detenuti dagli ‘anziani’ potendo utilizzare esclusivamente redditi da lavoro, la vendita delle attività esistenti non potrebbe che essere frazionata tra un elevato numero di ‘giovani’. La distribuzione della ricchezza si modificherebbe rapidamente in senso egualitario, e non sarebbe osservabile l’estrema (e crescente) disuguaglianza che invece contraddistingue le società reali.

- Effetti distributivi della riduzione del debito pubblico

Naturalmente quanto fin qui detto non significa negare gli effetti redistributivi di un aumento del carico fiscale diretto a ridurre il debito pubblico, poiché è evidente che i soggetti colpiti dal maggior prelievo non coincideranno con i soggetti che ereditano i titoli del debito pubblico.
Ma tale questione distributiva è tutta interna alla generazione in essere all’epoca in cui la manovra di rientro viene effettuata: le parti coinvolte sono da un lato i gruppi sociali chiamati a pagare maggiori imposte (o ricevere minori prestazioni pubbliche), e dall’altro i gruppi sociali la cui ricchezza comprende i titoli del debito.
Il problema si riduce perciò alla scelta di come ripartire il maggior carico fiscale sulla collettività: un problema intragenerazionale che è eminentemente politico e che si pone ogniqualvolta lo Stato si trovi a determinare la copertura della sua spesa. E in quanto si tratta di un problema politico, esso è aperto a soluzioni diverse, a seconda delle quali diversi sono gli interessi che vengono privilegiati o, invece, sacrificati.
Ammantare il rientro dal debito della (falsa) veste della equità intergenerazionale è un modo di mettere in secondo piano, se non nascondere, il conflitto di interessi che l’operazione genera: l’appello alla innata cura per il benessere dei propri figli ne fa una questione imprescindibile e cattura un generalizzato consenso che rende di fatto superfluo il dibattito politico circa le scelte da compiere.
Deve notarsi che, entro la questione distributiva posta dalla riduzione del debito pubblico, l’aspetto forse più acuto è costituito dal finanziamento degli interessi che lo Stato paga sul debito stesso. E, a ben vedere, un trasferimento di reddito dai gruppi sociali tassati a quelli che percepiscono gli interessi si verifica anche per interventi che non mirino a ridurre il debito ma si limitino a costituire, nel bilancio dello Stato, un ‘avanzo primario’ (primario = al netto degli interessi), vale a dire ridurre il deficit ad un ammontare inferiore alla spesa per interessi, finanziando quindi con imposte una quota degli interessi stessi.
La specificità del problema distributivo che tale trasferimento alimenta è connesso alla natura degli interessi quale puro reddito dei percettori, che non risponde ad alcuna deliberata programmazione di utilità sociale come invece è, in linea di principio, per le altre categorie della spesa pubblica, e al fatto che quel reddito affluisce in proporzione maggiore alle categorie nelle quali si concentrano quote relativamente alte della ricchezza privata complessiva, e quindi anche di titoli pubblici. In presenza di elevati livelli di debito pubblico, e perciò di flussi consistenti di interessi, la copertura con imposte di quote rilevanti di essi può allora produrre significativi effetti regressivi nella distribuzione dei redditi, con conseguenze negative sia sul piano economico che sul piano sociale. Questo fenomeno, alla dimensione del quale concorrerebbe evidentemente l’altezza dei tassi d’interesse sul debito, e quindi il regime di politica monetaria operante, rappresenta il problema forse più serio che l’accumulazione di debito pubblico può generare, ove si proceda ad una eventuale riduzione o stabilizzazione del suo ammontare.


 Indicatori di sviluppo mondiale 



- Il debito pubblico detenuto da soggetti esteri

Veniamo ora al debito pubblico che sia nelle mani di soggetti esteri. Talvolta si afferma che il debito detenuto all’estero, diversamente dal debito interno, costituirebbe un debito della nazione nel suo complesso, in quanto in tal caso i creditori non appartengono alla medesima comunità del debitore. Questo argomento trascura il fatto che la sottoscrizione o l’acquisto di titoli da parte di non residenti rientra nella categoria dei cosiddetti ‘movimenti di capitale’, che per loro stessa natura non alterano la posizione del paese nei confronti dell’estero. Per il paese emittente la vendita di titoli a operatori stranieri comporta infatti una corrispondente entrata di valuta estera, che lascia invariato il saldo tra crediti e debiti nei confronti del resto del mondo, come qui di seguito schematizzato con riferimento ad una ipotetica vendita di titoli pubblici per un ammontare di 100:

Supponendo che si tratti del collocamento di titoli di nuova emissione, consideriamo l’operazione nella prospettiva del Tesoro che ha emesso i titoli stessi. Il Tesoro riceve l’equivalente di 100 in valuta estera, che viene convertita in valuta nazionale mediante cessione alla Banca Centrale, la quale acquista la valuta estera emettendo 100 di valuta nazionale. Disaggregando il conto del Tesoro e quello della Banca Centrale, le variazioni nelle rispettive attività e passività sarebbero quindi le seguenti:

Il Tesoro è allora in grado di usare 100 di moneta nazionale per finanziare la spesa pubblica. Risulta così che, all’interno del paese, il finanziamento del deficit pubblico mediante la vendita di titoli all’estero equivale ad un finanziamento presso la Banca Centrale e corrispondente emissione di moneta da parte di questa. Nel caso considerato il Tesoro paga però sui suoi titoli l’interesse di mercato, mentre la Banca Centrale lucra il rendimento delle attività fruttifere nelle quali è libera di impiegare la valuta estera che ha acquistato al costo zero della moneta nazionale emessa in contropartita. Corrispondentemente a quanto vale per i due flussi di capitale, nei confronti dell’estero l’operazione genera quindi un flusso di interessi in uscita e un flusso di interessi in entrata, il cui saldo potrà essere positivo, negativo o nullo a seconda della differenza tra il tasso d’interesse che il Tesoro paga sul debito collocato all’estero e il tasso di rendimento delle attività acquistate dalla Banca Centrale.

Per il paese nel suo complesso non vi è dunque ragione di ritenere che l’operazione debba risolversi in un peggioramento, piuttosto che un miglioramento, dei conti verso l’estero. Nel confronto con un finanziamento diretto del debito pubblico da parte della Banca Centrale, che, come si è detto, sarebbe del tutto equivalente nei suoi effetti sul piano interno, l’operazione stessa risulta però particolarmente inefficiente dal punto di vista del Tesoro, e quindi, si potrebbe dire, dell’interesse collettivo. Essa combina infatti il medesimo aumento della quantità di moneta interna che si avrebbe con il finanziamento presso la Banca Centrale (ove questo non fosse impedito da vincoli istituzionali, quali quelli vigenti nell’area euro), con un costo per interessi a tassi presumibilmente maggiori di quelli che la Banca Centrale applicherebbe al Tesoro. Il maggior onere si ridurrebbe, fino eventualmente ad azzerarsi, nella misura in cui la Banca Centrale trasferisse al Tesoro l’eccedenza del lucro che essa realizza dall’operazione rispetto al tasso di interesse applicabile ai suoi impieghi a favore del Tesoro; ma resta che, ai fini del finanziamento del deficit di bilancio, nonché del controllo dell’offerta di moneta, non vi sarebbe alcuna ragione per preferire il collocamento di titoli pubblici all’estero piuttosto che presso la Banca Centrale. Con specifico riguardo alla zona euro, queste considerazioni si aggiungono ai dubbi che per altre, anche più importanti, ragioni si possono nutrire circa la sensatezza del divieto di qualsiasi finanziamento diretto dei Governi da parte della Banca Centrale Europea.
Abbiamo prima sottolineato che la vendita o il collocamento all’estero di titoli del debito pubblico non genera un debito della nazione, in quanto ha in contropartita una equivalente entrata di valuta estera che mantiene invariate le attività nette sull’estero del Paese. Naturalmente, se accadesse che la valuta estera così acquisita fosse utilizzata per finanziare una eccedenza delle importazioni sulle esportazioni, e cioè un saldo negativo della bilancia commerciale, quella attività sull’estero scomparirebbe dal bilancio del Paese (e specificamente della Banca Centrale), e il debito pubblico esterno resterebbe quale debito della nazione. Dovrebbe però essere evidente che la causa dell’indebitamento della nazione non starebbe nel debito pubblico collocato all’estero, ma appunto nel deficit commerciale del Paese. In presenza di un deficit della bilancia commerciale quel debito si sarebbe infatti prodotto anche qualora il bilancio pubblico fosse stato in pareggio: in quel caso esso avrebbe assunto una forma diversa, ad es. debito nei confronti del Fondo Monetario Internazionale, ma sarebbe comunque esistito. Nel caso in cui il deficit del bilancio pubblico, con collocamento di titoli all’estero, si accompagnasse ad un disavanzo della bilancia commerciale, il debito verso l’estero generato dal disavanzo commerciale si sovrapporrebbe al collocamento estero del debito pubblico e ne prenderebbe la forma, ma la sua causa starebbe comunque nell’eccesso delle importazioni sulle esportazioni.

- Ancora sul debito pubblico esterno

Per sostenere che il debito pubblico detenuto all’estero presenta una maggiore problematicità rispetto a quello interno ci si richiama talvolta ad un argomento distinto da quello discusso nel paragrafo precedente, e relativo alla diversa capacità di imposizione fiscale, nei due casi, da parte dello Stato emittente. La tesi è che mentre con riguardo al debito interno il Governo potrebbe, in linea di principio, introdurre imposte tali da ottenere che di fatto il costo del servizio (interessi e ammortamento) sia in larga misura a carico dei creditori stessi, questo non potrebbe farsi per il debito in mano ad operatori stranieri, che non sono soggetti alle normative tributarie del paese emittente. Per il debito interno il problema distributivo che sorge nel momento in cui si ritiene che il debito stesso debba essere ridotto ammetterebbe quindi una soluzione che non sarebbe invece accessibile per il debito detenuto all’estero.

Anche questo argomento non è corretto, in quanto non coglie tutti gli aspetti del fenomeno. Chiariamo anzitutto che la possibilità che i detentori di titoli pubblici siano tassati in quanto tali non esiste. Presa al suo estremo, una imposizione fiscale che facesse gravare interamente il servizio del debito sugli stessi soggetti che detengono i titoli implicherebbe un prelievo del 100% sugli interessi ed una aliquota anch’essa del 100% sul valore di rimborso dei titoli stessi: cioè a dire, la sottoscrizione di titoli pubblici equivarrebbe ad un atto di donazione a favore dello Stato. Prima ancora di ogni questione di disparità di trattamento, e quindi di legittimità, è evidente che ciò azzererebbe in assoluto la convenienza ad acquistare titoli pubblici. Analoga considerazione vale, tuttavia, per qualsiasi trattamento fiscale che, seppur meno drastico, si applichi specificamente ai titoli del debito pubblico, riducendone in misura sensibile il rendimento relativamente a quello offerto da altri impieghi. La questione effettivamente proponibile si riduce allora a quella di una più generale tassazione dei possessori di ricchezza: in quanto tali, può ritenersi che essi detengano anche buona parte dei titoli del debito pubblico, ma inevitabilmente questo tipo di imposizione fiscale non conserva alcuno specifico nesso con il possesso di titoli pubblici. Ora, né la possibilità, nè l’opportunità di tassare la ricchezza privata interna al fine di coprire il servizio del debito pubblico sono in alcun modo condizionate dalla circostanza che una quota del debito è detenuta all’estero. Si noti che neanche la dimensione della ricchezza privata interna, e quindi la potenziale base imponibile di tale tassazione, viene ad essere ridotta dal fatto che parte del debito pubblico si trova al di fuori dei confini nazionali. Ciò è immediatamente evidente nel caso in cui gli operatori esteri abbiano acquistato i titoli sul mercato secondario da soggetti nazionali, i quali avrebbero pertanto semplicemente convertito in attività estere una quota della propria ricchezza precedentemente costituita da titoli del debito pubblico nazionale. Qualora si tratti di titoli di nuova emissione sottoscritti all’estero, si è prima precisato che in tal caso il deficit pubblico è finanziato da un aumento dello stock di moneta nazionale, cui corrisponde un aumento della quota della ricchezza privata interna costituita appunto da mezzi liquidi—in altri termini, la dimensione della ricchezza del settore privato nazionale sarebbe la stessa sia nel caso che i titoli del debito fossero sottoscritti all’interno, sia che essi fossero sottoscritti all’estero, con la differenza che in questo secondo caso i titoli del debito pubblico nazionale sarebbero ‘sostituiti’ da moneta nei portafogli degli investitori interni.

In conclusione, dunque, il fatto che una quota del debito pubblico sia in mano a operatori esteri in nulla inficia una eventuale tassazione della ricchezza del settore privato che miri a far sostenere il costo del servizio del debito pubblico prevalentemente ai medesimi gruppi sociali che lo detengono.


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20/10/12

On The Road (al cinema) e gli Echo and the Bunnymen (al Circolo)

On The Road

Non è piaciuto proprio a nessuno. Un giro rapido sul web, le maggiori testate giornalistiche, i siti specializzati, e quelli più alternativi, solo una lunga sequenza di stroncature, alcune feroci, altre più soft, ma tutti accomunati dallo stesso giudizio: il film di Walter Salles (brasiliano) non restituisce un briciolo della grandezza del romanzo di Jack Kerouac. La sfida e la scommessa erano di quelle epocali, il progetto di trarre un film dal libro, bibbia della controcultura di più generazioni, che ha influenzato tanti scrittori e invogliato tantissimi a cimentarsi con la scrittura, giaceva ormai da decenni negli scaffali di Francis F. Coppola che ne aveva acquistato i diritti, dopo il gran rifiuto di Marlon Brando alle sollecitazioni dello stesso Kerouac di partecipare al progetto del film. Sono andato a vederlo già consapevole della regola: se hai letto prima un libro, la sua riduzione cinematografica non ne sarà comunque all'altezza.

Sono uscito dalla sala con delle..strane sensazioni. E non riuscivo a spiegarmele: inizialmente ho pensato solo che non mi fosse piaciuto, e quindi stavo elaborando la delusione. Poi ci sono arrivato: quell'inusuale senso di smarrimento e quell'odore che per tutta la serata mi si era appiccicato addosso non era altro che una.. presenza. Quella di alcuni miei vecchi amici, un gruppo di giovani e giovanissimi ribelli e anticonformisti, decisi a non farsi ingabbiare nelle logiche borghesi e benpensanti di una piccola città, immersi nei meandri ideologici e un po' mistici che il libro di Kerouac aveva così bene messo a fuoco, e alcuni dei quali persi dolorosamente durante il tragitto, nell'utopia che.. "Le sole persone che esistono sono quelle che hanno la demenza di vivere, discorrere, di essere salvate, che vogliono vivere tutto in un solo istante, quelle che non sanno sbadigliare.” On the Road era un rito d’iniziazione, bisognava averlo letto se si voleva entrare nel mondo della contro cultura, di assorbirlo e metabolizzarlo se si voleva essere accettati. E' stata una stagione breve, e la sintesi che alla fine ha rappresentato la parola “beat”, tra beatitudine (nel consumo di droghe) e il battito della musica jazz, colonna sonora del movimento, la vivevo allora come una sconfitta. Di quella stagione breve, ma intensa, mi è rimasta l'irrequietezza fisica e mentale, la rabbia e la voglia di cambiare il mondo. E' proprio questo che alla fine, manca nel film.

La storia di un gruppo di ragazzi alternativi che scoprono il viaggio come mezzo per conoscere se stessi e gli altri, alle prese con droghe, alcol e sesso. La cronologia è precisa, gli eventi sono narrati in modo meticoloso, ma le avventure negli stravizi diventano ripetitive con il risultato di annoiare, un po'. Perché' sono fine a se stesse, non s’intravede nessun collegamento con il contesto sociale e politico, dell'America puritana, bigotta, conservatrice e razzista del dopoguerra, non c’è quasi traccia del malcontento e della ribellione di cui era intriso il libro e che ha cambiato la cultura giovanile americana e non solo e a cui s’ispirarono i movimenti di protesta del sessantotto. E quando il gruppo inizia a parlare di poesia, letteratura e romanzi è davvero piatta la linea su cui dialogano, con il trio di personaggi troppo belli e puliti e per niente dannati, Allen Ginsberg (Carlo Marx nel film) ridotto a macchietta, il carisma di Dean Moriarty troppo artificioso da diventare controproducente.

Sam Rilley da poco spessore al Kerouac scrittore, troppo poco somigliante all'uomo timido e perennemente sbronzo che cosi bene ci aveva raccontato Fernanda Pivano, che per prima lo invitò in Italia, tanto che viene voglia di correre a casa e rivedere la sua grandiosa interpretazione in Control, bellissimo film di A. Corbijn su Ian Curtis e i Joy Division.

In definitiva un film sui rapporti umani, e sull'amicizia, ed è questo che mi ha provocato la "dissociazione" di cui sopra. Bene per quelli che conoscono la storia della Beat Generation e che ne hanno condiviso l'utopia anche in tempi relativamente recenti, male per la nuova generazione che si trova di fronte a scopate, gemiti e guaiti senza nessuno scopo.






Echo and the Bunnymen

Con Ultrasuoni, il bel festival che si è svolto nel quartiere Pigneto (Roma) la settimana non poteva finire meglio. Anche se il biglietto dava la possibilità di seguire molte band sin dal pomeriggio, l'appuntamento era per me con gli Echo and the Bunnymen, haedliner della serata. Cosa può accomunare il gruppo seminale del post punk/new wave di Liverpool con On the Road e i Beatnik americani? Apparentemente..nulla.

Una volta Allen Ginsberg ebbe a dire che Liverpool era il ..centro dell'universo, molto simile a S. Francisco: entrambe città portuali, entrambe con una fortissima identità. Bill Drummond, primo manager degli Echo e in seguito dei Teardop Explodes di J. Cope, racconta che in quegli anni, fine '70 inizi '80 c'erano tantissimi ragazzi che andavano in giro con il libro in tasca e spesso si poteva notarli agli angoli delle strade fermi a leggerne pubblicamente interi capitoli. Liverpool s’identificava con la musica di S. Francisco e con tutto quello che aveva preceduto i figli dei fiori. Dopo i Beatles, Echo and Bunnymen è stato il gruppo di Liverpool (e in genere” il gruppo Inglese”) per antonomasia, venerati insieme ai Joy Division,  rappresentanti di un mondo giovanile appesantito dalla rabbia e dalla malinconia. Ian McCulloch e Will Sergeant, rispettivamente voce e chitarra, furono i primi a riscoprire le "sottigliezze" nel post punk, costruendo un muro di suono privo dello sporco del punk, maestoso senza la pomposità dei vecchi super gruppi  e del prog dell'epoca, associando quel sound a testi rabbiosi e straziati. Anche dopo la svolta pop di Ocean Rain hanno sempre mantenuto uno standard di ottima qualità e un seguito di fedelissimi e appassionati. E in questa veste che mi sono recato al Circolo degli Artisti.

Non hanno deluso Ian McCulloch e Will Sergeant, unici superstiti del gruppo originale. Dopo i primi dieci, quindici minuti in cui ha regnato la confusione, quelli del mixer hanno preso le misure alla “delicata” acustica del Circolo e tutto il suono dell’ottima band che li supporta è venuto fuori, con Sergeant, a testa bassa sulla chitarra per tutta la serata, in gran forma. La voce di Ian è sempre potente, cupa, sognante, nonostante non abbia quasi mai smesso di fumare sul palco. Timido e con gli inseparabili occhiali scuri da miope, ha lasciato poco alla comunicazione, e sinceramente si è capito poco di quello che ha farfugliato tra un brano e l’altro. Molti i vecchi gioielli ripescati, apertura con Going Up, poi con gli immancabili cori di un pubblico eterogeneo sulle preziose The Cutter, All that Jazz, Rescue. Omaggio ai vecchi amori, con Roadhouse blues dei Doors e  Walk on the Wild Side di Lou Reed, e davvero bellissime le versioni “lente” di Seven Seas e The Killing Moon: qui, oltre alla pelle d’oca, sono tornate le sensazioni provate durante la visione di On the Road..

Una bella serata per i giovanissimi che hanno avuto la possibilità di ascoltare e vedere un gruppo leggendario, onnipresente in ogni resoconto su quella stagione magica che fu per la musica rock, e per chi fa ancora girare sul piatto i vinili originali, nonostante i graffi e l’usura del tempo. In generale abbiamo trovato il Circolo più organizzato, come doveva essere, per una manifestazione in stile nord europeo: nonostante sia Sabato, e gli Echo come headliner, non c’era il sold out e questa è l’unica stonatura insieme alla relativa brevità del concerto.

Buon Week end a tutti..


18/10/12

Vedula, il boia seviziatore dei cani in Ucraina

Quali sentimenti per chi rideva mentre spaccava la testa ai cuccioli?

Alexey Vedula è finito male. Il dog hunter condannato per l’uccisione di oltre 100 cani in Ucraina è stato trasferito d’urgenza dal carcere ove era detenuto, in ospedale. Vedula avrebbe subito violenza sessuale ed un pestaggio. Il dog hunter di Kiev, del quale ancora in molti si ricordano le sevizie subite dai cani prima di essere uccisi, è finito con mano sinistra e due costole fratturate, lacerazione della regione perianale e sospetta commozione celebrale.

Di più, per ora, i giornali ucraini non dicono. Non è cioè chiaro se dietro la brutale aggressione si possa nascondere una sorta di “punizione” in uso in alcuni ambienti carcerari per alcuni tipi di reati. E’ noto, ad esempio, che gli arrestati a seguito di violenze sui bambini, sono stati più volte oggetto di speciali forme di protezione per evitare sorte di giustizie ‘fai da te’, certo da non condividere.

Già in un precedenza, ovvero con le torture denunciate in carcere dall’ex Primo Ministro ucraino Yulia Tymoshenko (vedi articolo GeaPress) si erano sollevati riflessioni sul fatto che lo stesso politico, quando ricopriva l’alta carica, aveva ignorato le stragi di cani. Allora, peraltro, autorizzate dal Governo. Ora la vicenda di Vedula.

Le attenzioni che questa persona ha attirato verso di sé, non sono da poco. Le bravate del ragazzotto ucraino e del suo compagno, venivano poi esposte su internet. Ai latrati strazianti dei cuccioli con la testa rotta si sovrapponevano le risate dei due. Quali sentimenti poteva suscitare un comportamento di questo genere? Un malato, lo difende qualcuno. Ma basta questo per eventualmente accogliere la richiesta della madre di scagionarlo dell’accusa? Non indignamoci, perché in Italia, sia che malato oppure no, una persona come Vedula, che ha ucciso torturandoli 100 cani, mai potrebbe finire in carcere. Le pene reclusive previste dalla legge sui maltrattamenti, sono infatti ben al di sotto della soglia di punibilità.

“Gioire della violenza contro una persona non e’ mai bello e questo e’ giusto – scrive oggi sulla sua pagina di facebook Andrea Cisterinino, che in Ucraina continua a battersi contro le stragi dei cani. “Credo però – aggiunge il nostro connazionale – che non bisogna giustificare sempre tutti con la scusa di essere malato”. Perché, in sostanza, chi compie violenza deve essere malato e per questo, poi, restare impunito?

Difficile avere pietà, almeno per chi ha vissuto direttamente una tragedia. Forse, però, riferiscono altri, sta qui il concetto di giustizia. Provare a giudicare serenamente. Farlo, cioè, senza condizionamenti anche di natura emotiva. Di certo le scappatoie non sono giuste ed è bene ricordare come il compare di Vedula, mentre quest’ultimo veniva giudicato, giurò vendetta con altre uccisioni di cani. Per questo tornò anch’esso in carcere.

GEAPRESS


15/10/12

The Walking Dead, terza stagione

A noi, piace assai..

La serie tv The Walking Dead, oltre a essere uno dei successi degli ultimi anni, è una perla rara per gli appassionati di fumetti. Chi segue da tempo il fumetto della Image Comics da cui è tratta può dividersi in due fazioni, come spesso accade in questi casi: chi vorrebbe un adattamento fedelissimo, chi – la maggioranza, pare – invece si aspetta qualcosa di più. Ecco, il serial della Amc riesce a dare quel qualcosa in più in termini di colpi di scena, emozioni, personaggi, scontentando pochi fan. Se a grandi linee la trama portante è quella, efficacissima, del fumetto (il comic in bianco e nero più venduto d’America), nelle due stagioni finora andate in onda la serie tv si discosta in maniera originale e brillante. E aggiunge nuovi personaggi come i fan-favourites Merle Dixon (Michael Rooker), abbandonato a morire nella prima stagione ma di ritorno nella terza, e il fratello Daryl (Norman Reedus), grande sorpresa delle scorse puntate. Se può spiazzare, il vedere alcuni volti amati dai lettori dei comics soccombere ai pericoli dell’apocalisse zombie in corso molto prima del previsto, di certo questo aggiunge quell’imprevedibilità che rende il serial un’esperienza nuova e intrigante anche per chi conosce a menadito i comics.

La terza stagione, 16 episodi in onda in Usa dal 14 ottobre e in Italia su Fox dal giorno dopo, sembra sarà ambientata poche settimane dopo la seconda. Da un lato è certa la presenza della nuova ambientazione principale che i lettori dei fumetti si aspettavano: una prigione abbandonata circondata da zombie, in un gigantesco set costruito appositamente. Inoltre saranno del cast due personaggi già cult per i lettori, la spadaccina Michonne e il crudele villain noto come il Governatore. La prima l’abbiamo intravista nel finale della seconda stagione, interpretata da Danai Gurira, mentre andava in giro con due zombie sdentati al guinzaglio e una katana. Il secondo ha il duro volto dell’inglese David Morrisey ed è il leader di un’altra comunità di sopravvissuti che andrà inevitabilmente in collisione con quella guidata dal protagonista della serie, il poliziotto Rick Grames/Andrew Lincoln. D’altro canto, c’è veramente la possibilità che accada di tutto, ancor più quando altri esseri umani disperati entrano sulla scacchiera. Dopotutto, il motto della nuova stagione è “Fight the dead, fear the living”: come nella tradizione della narrativa post-apocalittica, il vero nemico è l’essere umano disperato e disposto a tutto pur di sopravvivere. Gli zombi hanno devastato il mondo ma pare siano gli umani rimasti in circolazione a terminare l’opera.

Come nasce questo effetto sorpresa lo racconta Robert Kirkman, cocreatore della serie a fumetti, edita in Italia da Saldapress: “ Non facciamo altro che guardare ai comics e notare cosa funziona e cosa no, in base a cosa si è già visto nel serial televisivo. Ad esempio, ci sono personaggi che abbiamo già mostrato e sono morti, che nei fumetti hanno un ruolo importante nella prigione. Adattandoci, inventiamo nuovi colpi di scena e cambiamenti nella trama generale, andando poi nel dettaglio dei singoli episodi”. Di recente, Kirkman ha raggiunto un accordo con il disegnatore dei primi numeri, Tony Moore, dopo che questi gli aveva fatto causa per i diritti dei personaggi accusandolo di avergli sottratto migliaia di dollari. Insomma, sono sempre gli umani i primi a scannarsi tra loro.


È una serie post-televisiva, concepita per una fruizione nomade, su piattaforme come tablet e telefonini, distribuita via iTunes e Xbox Live, svincolata da ogni “palinsesto” (nozione obsoleta come il tragico duopolio Rai-Mediaset, espressione di una cultura feudale e retrograda). Una serie che può già contare su una comunità di freaks & geeks che esaminano ogni scena, inquadratura e “schermata”, sul modello di Lost, e condividono informazioni in Rete, perché la visione, quella vera, ha luogo su Internet, non in tele-visione.

Wired.it


13/10/12

Cadere



Si nota spesso tra la gente il timore di cadere. Cadere può capitare a tutti, perfino ad un campione di pattinaggio. Cadere è un fatto all'ordine del giorno. Può succedere quando dobbiamo affrontare una dura giornata, o quando si viene provocati, sul lavoro o dalle cattive maniere. Quando finisce un rapporto, quando lo si finisce in malo modo, quando si perdono persone amate, e animali amati, affetti. Quando si è lontani, un tradimento, il lavoro, quando la delusione sommerge,quando non si ha voglia di alzarsi la mattina, quando non si dorme per intere settimane. Quando si dipende da qualcosa o qualcuno, si scivola in cucina e ci si rompe un braccio. Magari quando tutte le mattine la gente viene addosso nel autobus, quando si pensa che nulla è eterno, perfino le pietre, diventano polvere.. Quando si è inquieti e melanconici, sempre un po' inclini alla vecchia reminiscenza dell'autodistruzione.. Quando si ha attenzione per il mondo infantile e non si ha figli, sempre divisi tra un anonima carriera da impiegato e i residui idealismi della giovinezza. Quando non si riesce a tenere a bada i furori, e la rabbia esistenziale, rifiutando di convogliarla verso un aggressione sociale, necessaria per emergere dalla moltitudine, per non essere servi e leccapiedi. Quando si è emarginati e ci si auto emargina per non accettare il conformismo dei consumi e dell'apparire..matrimoni e fidanzamenti,amicizie vantaggiose...Ci si arena tra i dubbi, quando bisogna arrangiarsi in un mondo di pigmei e recitare. Morire e rinascere con una donna o un uomo che s incontra e di cui ci si innamora. Infantilismo..illusioni..Lungo l'itinerario in..caduta si può perdere la propria identità, ma sì,può esserci,una liberazione e l'inizio di una nuova vita.

Per questo, anche se cadere è parte dell'ordinario, l'importante è cadere senza farsi troppo male. Difficile? Può darsi.. Come si fa a cadere senza..dolore? Bisogna controllare il corpo, e la mente, durante la caduta, in modo da atterrare con le..parti meno sensibili e più protette. Mentre cadiamo rilassiamo i muscoli, ci rannicchiamo incassando la testa, la caduta non sarà pericolosa. Ho imparato che cercare a tutti i costi di evitarla, ci fa spesso cadere in modo doloroso e senza possibilità di controllo. E di rialzarsi..



10/10/12

Ultrasuoni al Pigneto


Il  Pigneto negli ultimi anni è diventato il punto di riferimento della creatività e della dimensione multi-culturale di Roma. Una scenografia ideale per un festival che coniuga sonorità innovative, sensibilità ambientale e street art. Una location storica dal carattere tipicamente “romano”, dalla notevole vivacità culturale e sociale. Strettamente legato al territorio del Municipio VI° di Roma, il Pigneto è una borgata romana a crescente frequentazione giovanile, ricca di luoghi dedicati alla musica dal vivo ed alla convivialità con vinerie bistrot e B&B. Famoso per la sua vocazione antifascista durante la seconda guerra mondiale il Pigneto è storicamente noto soprattutto per essere stato location del film “Accattone” di P.P. Pasolini. Ricco di siti archeologici come la Basilica Sotterranea di Porta Maggiore, il Torrione Prenestino, il Colombario di Largo Preneste e le Mura Aureliane.


Venerdì si apre  Ultrasuoni, il primo festival multi-venue in Italia. Due giorni di musica dal vivo e arti visive distribuite tra più location (Circolo degli Artisti, Init, Alvarado Street e altri locali del quartiere Pigneto) sulla scorta di quanto accade da anni al South By Southwest di Austin, all’Eurosonic in Olanda o al GreatEscape di Brighton. Ricchissimo di presenze il cartellone, ne riassumiamo alcune: per il 12 sono previsti i live di ORB, storico duo della scena elettronica anglosassone (fuori con il nuovo album The Orbserver in the Star House, realizzato con la collaborazione di Lee Scratch Perry), Fujiya & Miyagi, il party- rock australiano dei DZ Deathrays e il rock riverberato dei californiani Tamaryn. Sabato 13 sarà la volta di Echo and the Bunnymen, band seminale della new wave inglese anni 80 capitanata dal carismatico Ian McCulloch, e sarà uno di quei live ad alta tensione: come già illustrato in alcuni post precedenti, sia il Circolo degli Artisti che ospiterà gli Echo e l'Init, sono locali abbastanza piccoli e sicuramente il gruppo attirerà una folta presenza di vecchi e nuovi fans, rendendo l'atmosfera infuocata. Inoltre fà ancora caldo nella capitale e il sudore colerà a litri. Noi li preferiamo, ormai, i concerti nei piccoli Club: nonostante la combustione interna, l'intensità che si viene a creare tra i musicisti e il pubblico sfocia in un vero e proprio "rapporto fisico", e l'energia e la tensione che ne deriva è unica ed eccitante.
A seguire il dream pop dei Gravenhurst di Nick Talbot, degli svedesi Amplifetes, del nuovo progetto anglo-carioca dei Madrid (che unisce membri di CSS e Bonde Do Role) e dei nostrani Soviet Soviet.


07/10/12

Decrescita e Autolimitazione




Gli uomini, come le collettivita', sono inevitabilmente differenti. Bisogna fare di queste differenze una ricchezza e organizzarsi di conseguenza per il bene comune, anziche' ostinarsi a percorrere il vicolo cieco dell'omegenizzazione totale.  In origine il progetto della decrescita si proponeva piu' modestamente di far fronte alla dismisura economica, ma oggi che questa dismisura e' il veicolo di tutte le altre, la decrescita assume necessariamente una dimensione piu' ambiziosa. L'autolimitazione, ritrovare il senso del limite, e' una questione che si pone per l'individuo, piu' che per l'essere collettivo: l'umanita' o la societa'. Il senso fondamentale e' ristabilire la correlazione tra meno lavoro e meno consumo da una parte e piu' autonomia e sicurezza esistenziale dall'altra, per tutti e tutte. Una vita piu' libera, piu' serena, e piu' ricca. L'autolimitazione si sposta cosi' dalla scelta individuale  al progetto sociale. La norma del sufficiente va'definita politicamente e le frontiere, potranno comunque essere spostate nel tempo dalle generazioni successive, che avranno constatato le imperfezioni e le ingiustizie delle norme arbitrariamente decise dalle generazioni precedenti.


05/10/12

I Devo, Malevic e il rock per campeggiatori


DEVO

GERALD CASALE
Bassista/Cantante

Incontrai Alison Krauss e Jeffrey Mill alla Kent State University nel corso dell'estate, e diventammo amici. Quei ragazzi, che furono dipinti come pericolosi sovversivi, erano solamente dei ragazzi liberali svegli che venivano da New York e facevano quello che all'epoca facevamo tutti. Quel giorno stavamo tutti scappando dalla guardia nazionale. Spararono sulla folla e fu solo il caso a decidere chi venne colpito. Jeffrey era più' indietro rispetto a me e Alison era a una decina di metri alla mia destra. Quando furono sparati i colpi la gente iniziò a urlare, ho voltato lo sguardo e c'era Alison stesa a faccia in giù con un buco d'uscita sulla schiena e sangue che scorreva sul marciapiede (...) Lentamente cominciarono tutti a gemere. Sembrava come un canile pieno di cuccioli feriti. Mandò fuori di testa persino quelli della guardia nazionale. Restammo lì per quella che sembrò un’eternità, poi marciammo fuori dal campus e l’università restò chiusa per i successivi tre mesi. Quell'evento mi cambiò. Fino ad allora ero una sorta di hippy. Per me fu un punto di svolta: da quel momento in poi vidi tutto con chiarezza. Tutti quei ragazzi con il loro idealismo, era tremendamente ingenuo. Un solo sparo e il mondo intero cambiò. Drizzarono tutti la schiena e tornarono a casa, si tagliarono i capelli e si misero a lavorare per i loro genitori. Funzionò. Per dirla in altre parole, vinse il male..
Eravamo quasi arrivati dove siamo adesso, in una società feudale e corporativa. Adesso non c’è nessuna reale libertà, solo la libertà del consumatore (...)

Quindi con i Devo l'idea era, invece di lottare in maniera inefficace contro il potere, ne faremo una parodia grottesca?

A tal punto le possibili scelte erano due: o unirsi ai WEATHER UNDERGROUND oppure dare una folle risposta creativa stile Dada. I Devo erano questo.
(...) Avevamo impieghi orrendi per trovare i soldi: il proiezionista in un cinema porno, il consigliere in una clinica del metadone, l'artista grafico per una ditta che forniva materiale per le pulizie: è cosi che trovai le tute gialle dei Devo.Mark scriveva la maggior parte della musica, io scrivevo le parole e preparavo gli spettacoli per il palco e i video...
Akron, era la perfetta casa del dolore, una città industriale e cattiva.
La gente non ha mai saputo quanto abbiano lavorato duro per spingere i Devo fino farli raggiungere una massa critica che li rendesse significativi. Mentre gli altri andavano fuori a ubriacarsi e scopare, noi scrivevamo canzoni e suonavamo, giorno e notte, finche' non siamo diventati bravi (...)

Il procedere a scatti della musica e la maniera spastica con cui i Devo si muovevano..

Guardammo una produzione europea in cui cercavano di rimettere in scena "La vittoria del sole", l'opera costruttivista russa di Malevic. Ci prese davvero - era incredibile, i costumi, l'aspetto del palco, il modo in cui si muovevano le persone. Quelli erano davvero avanti! Intendiamoci, non mi sto lamentando dell'epoca in cui sono cresciuto..ma se avessi potuto vivere in una qualunque altra epoca, avrei scelto l’Europa degli anni venti. Quella pittura innovativa, il teatro, il balletto! Quella gente ha gettato le fondamenta per l'intero ventesimo secolo. Tutte le idee e i temi che avrebbero avuto un ruolo nel resto del secolo, sono loro che li hanno affrontati per davvero (...)

Era divertente la vena di umorismo scatologico dei Devo, umorismo pruriginoso e malato che sembra derivare da un disgusto profondamente radicato nei confronti del corpo umano, a volta con un pizzico di misoginia. Ai Devo piacevano Herry Miller e tutta quell'area della pornografia d'avanguardia..
E' stato incredibile quando Jeff Koons ha fatto quella mostra con Cicciolina..E' come in quella canzone, Closer, dei Nine Ich Nails, sull'avvicinarsi a Dio per mezzo di una pratica intensiva di attività" proibite che tutti sanno essere ovviamente quello che desiderano e di cui hanno bisogno, piuttosto che qualcosa di malvagio. Ma in un mondo messo sottosopra dalla cristianità, si suppone che siano sconcezze. Oppure prive di significato. Nella cultura capitalista ti è permessa qualsiasi cosa, a patto che si elimini il significato del contenuto. Il significato è il nemico numero uno. Se rendi un argomento triviale e insignificante, allora si che ti viene permesso di parlarne.

..Parli di come tutte quelle idee dei sessanta - l'amore, la comprensione, la libertà, l'espressione del se', l'entrare in contatto con le proprie sensazioni più intime - fossero degenerate in una sorta di misticismo ammorbidito.

E' quello che pensavamo. Ci sembrava che nella società dominata dalle imprese l’individualismo e la ribellione fossero obsoleti. Salivamo sul palco vestiti da sfigati che fanno lavori di manutenzione, suonando una musica estremamente precisa, come se James Brown si fosse trasformato in un robot..
Posso solo dire che vorrei che avessimo avuto torto, non riesco a credere a quello che sto vivendo in questo momento. È' una fiera degli orrori. So o vissuto abbastanza da vedere la fine della democrazia. Tra gli interessi petroliferi e quelli militari adesso stanno cercando di toglierci qualunque elemento di vera democrazia, per instaurare una repubblica militare fatta e finita..E' una società' feudale e aziendale in cui gli esperti di televisione della destra sono in grado di manipolare le masse.
Devo Corporate Anthem era la parodia dell'irregimentamento che sembra percorrere i tempi. E' di molto successiva la scoperta che in Giappone gli impiegati iniziano la giornata lavorativa con l'inno dell'impresa. Prendemmo l'idea da Rollerball, il gran film del 1975..

Com’è stato lavorare con Eno nello studio di Conny Plank vicino a Colonia?

E' stato bellissimo. Giocavamo a carte scoperte. E c'era un sacco d'erba.

Avevate una serie di patroni tra le rockstar, come Bowie ed Eno, e sarai sicuramente in grado di vedere quali affinità ci fossero tra loro e i Devo. Ma il fatto che un vostro ammiratore e sostenitore fosse Neil Young sembra davvero improbabile!

E' un tipo davvero strano e complicato. Molto furbo e inquieto. Pensammo: " Oh, oh. Il nonno del rock per campeggiatori ci vuole incontrare. Ma i suoi primi lavori mi piacevano.
(I Devo influenzarono Trans, il controverso album di Young con i sintetizzatori, anche se non vi parteciparono in nessun modo. E infatti è uno dei dischi più brutti in assoluto della storia del rock! N.d.R.)
Una volta si pensava che la musica fosse una maniera di lottare contro il sistema, mentre oggi non sembra un campo particolarmente efficace su cui sfidare una qualunque delle forze malvagie che ci sono nel mondo.
La musica è una prova ulteriore della devoluzione dell’umanità. Mi piace guardare gli Hives, gli Strokes, i Vines.. Però diciamocelo: è come se qualcuno nel campo della pubblicità dicesse: " Facciamo uno spot che sia uguale a quella pubblicità della Dodge del '67". E' irreale. Se qualcuno oggi facesse della musica che avesse il potere trasformativo che gli Who o Hendrix avevano a loro tempo rispetto alla storia della musica, non suonerebbe come niente di quello che sentiamo. Si direbbe: " E questo che cazzo è?". (...) Adesso è come se il rock fosse tutto un muzak, musica commerciale d’infima qualità. E' tutta musica di sottofondo.

MARK MOTHERSBAUGH, Cantante/Tastierista

Fino a quel momento avevamo suonato al ritmo della disoccupazione in Ohio. Fu solo nel '75, quando Gerry guidò fino a New York e vide i Ramones e altri gruppi, che pensammo: " Wow, senti quanto suonano veloci questi". Fu il punk a ispirare la scelta di alzare il livello di un paio di tacche.
I Roxy Music piacevano a tutti noi, a me piacevano gli assoli di sintetizzatore atonali e asimmetrici di Brian Eno. Gente come Keith Emerson e Rick Wakeman mi facevano ridere, cosi vecchi e stanchi. Con loro sembrava di sentire un organo glorificato, mentre per me Eno era questione di essere il tecnico che entra e arriva fin dentro le viscere dello strumento. (...)
Il nostro primo batterista era mio fratello Jim, abbandonò il gruppo per fare l'inventore e finì per creare una delle prime batterie elettroniche della storia.
L'apice della passione per i Devo in Inghilterra arrivò nell'estate del '78 al gigantesco festival di Knebworth, con il gruppo che suonava di fronte a migliaia di appassionati di rock tradizionale.
Fummo accolti..selvaggiamente. Cominciarono tutti a tirare oggetti e prendersi a botte. Eravamo stati infilati tra i Jefferson Starship e i Genesis, e facemmo incazzare un sacco di gente che era lì per i Genesis. In qualche modo c’eravamo fatti convincere a suonare a Knebworth, non avevamo tecnici. Quando arrivò il nostro turno preparammo l'equipaggiamento, indossammo le nostre tute e facemmo il nostro set. Poi ci precipitammo giù dal palco, ci mettemmo addosso le uniformi da roadie, tornammo su,’ e sfasciammo l'equipaggiamento..

Le interviste sono tratte da 
Totally Wired, Post punk. Dietro le quinte,
di Simon Reynolds. - Isbn




Devo Live