20/10/12

On The Road (al cinema) e gli Echo and the Bunnymen (al Circolo)

On The Road

Non è piaciuto proprio a nessuno. Un giro rapido sul web, le maggiori testate giornalistiche, i siti specializzati, e quelli più alternativi, solo una lunga sequenza di stroncature, alcune feroci, altre più soft, ma tutti accomunati dallo stesso giudizio: il film di Walter Salles (brasiliano) non restituisce un briciolo della grandezza del romanzo di Jack Kerouac. La sfida e la scommessa erano di quelle epocali, il progetto di trarre un film dal libro, bibbia della controcultura di più generazioni, che ha influenzato tanti scrittori e invogliato tantissimi a cimentarsi con la scrittura, giaceva ormai da decenni negli scaffali di Francis F. Coppola che ne aveva acquistato i diritti, dopo il gran rifiuto di Marlon Brando alle sollecitazioni dello stesso Kerouac di partecipare al progetto del film. Sono andato a vederlo già consapevole della regola: se hai letto prima un libro, la sua riduzione cinematografica non ne sarà comunque all'altezza.

Sono uscito dalla sala con delle..strane sensazioni. E non riuscivo a spiegarmele: inizialmente ho pensato solo che non mi fosse piaciuto, e quindi stavo elaborando la delusione. Poi ci sono arrivato: quell'inusuale senso di smarrimento e quell'odore che per tutta la serata mi si era appiccicato addosso non era altro che una.. presenza. Quella di alcuni miei vecchi amici, un gruppo di giovani e giovanissimi ribelli e anticonformisti, decisi a non farsi ingabbiare nelle logiche borghesi e benpensanti di una piccola città, immersi nei meandri ideologici e un po' mistici che il libro di Kerouac aveva così bene messo a fuoco, e alcuni dei quali persi dolorosamente durante il tragitto, nell'utopia che.. "Le sole persone che esistono sono quelle che hanno la demenza di vivere, discorrere, di essere salvate, che vogliono vivere tutto in un solo istante, quelle che non sanno sbadigliare.” On the Road era un rito d’iniziazione, bisognava averlo letto se si voleva entrare nel mondo della contro cultura, di assorbirlo e metabolizzarlo se si voleva essere accettati. E' stata una stagione breve, e la sintesi che alla fine ha rappresentato la parola “beat”, tra beatitudine (nel consumo di droghe) e il battito della musica jazz, colonna sonora del movimento, la vivevo allora come una sconfitta. Di quella stagione breve, ma intensa, mi è rimasta l'irrequietezza fisica e mentale, la rabbia e la voglia di cambiare il mondo. E' proprio questo che alla fine, manca nel film.

La storia di un gruppo di ragazzi alternativi che scoprono il viaggio come mezzo per conoscere se stessi e gli altri, alle prese con droghe, alcol e sesso. La cronologia è precisa, gli eventi sono narrati in modo meticoloso, ma le avventure negli stravizi diventano ripetitive con il risultato di annoiare, un po'. Perché' sono fine a se stesse, non s’intravede nessun collegamento con il contesto sociale e politico, dell'America puritana, bigotta, conservatrice e razzista del dopoguerra, non c’è quasi traccia del malcontento e della ribellione di cui era intriso il libro e che ha cambiato la cultura giovanile americana e non solo e a cui s’ispirarono i movimenti di protesta del sessantotto. E quando il gruppo inizia a parlare di poesia, letteratura e romanzi è davvero piatta la linea su cui dialogano, con il trio di personaggi troppo belli e puliti e per niente dannati, Allen Ginsberg (Carlo Marx nel film) ridotto a macchietta, il carisma di Dean Moriarty troppo artificioso da diventare controproducente.

Sam Rilley da poco spessore al Kerouac scrittore, troppo poco somigliante all'uomo timido e perennemente sbronzo che cosi bene ci aveva raccontato Fernanda Pivano, che per prima lo invitò in Italia, tanto che viene voglia di correre a casa e rivedere la sua grandiosa interpretazione in Control, bellissimo film di A. Corbijn su Ian Curtis e i Joy Division.

In definitiva un film sui rapporti umani, e sull'amicizia, ed è questo che mi ha provocato la "dissociazione" di cui sopra. Bene per quelli che conoscono la storia della Beat Generation e che ne hanno condiviso l'utopia anche in tempi relativamente recenti, male per la nuova generazione che si trova di fronte a scopate, gemiti e guaiti senza nessuno scopo.






Echo and the Bunnymen

Con Ultrasuoni, il bel festival che si è svolto nel quartiere Pigneto (Roma) la settimana non poteva finire meglio. Anche se il biglietto dava la possibilità di seguire molte band sin dal pomeriggio, l'appuntamento era per me con gli Echo and the Bunnymen, haedliner della serata. Cosa può accomunare il gruppo seminale del post punk/new wave di Liverpool con On the Road e i Beatnik americani? Apparentemente..nulla.

Una volta Allen Ginsberg ebbe a dire che Liverpool era il ..centro dell'universo, molto simile a S. Francisco: entrambe città portuali, entrambe con una fortissima identità. Bill Drummond, primo manager degli Echo e in seguito dei Teardop Explodes di J. Cope, racconta che in quegli anni, fine '70 inizi '80 c'erano tantissimi ragazzi che andavano in giro con il libro in tasca e spesso si poteva notarli agli angoli delle strade fermi a leggerne pubblicamente interi capitoli. Liverpool s’identificava con la musica di S. Francisco e con tutto quello che aveva preceduto i figli dei fiori. Dopo i Beatles, Echo and Bunnymen è stato il gruppo di Liverpool (e in genere” il gruppo Inglese”) per antonomasia, venerati insieme ai Joy Division,  rappresentanti di un mondo giovanile appesantito dalla rabbia e dalla malinconia. Ian McCulloch e Will Sergeant, rispettivamente voce e chitarra, furono i primi a riscoprire le "sottigliezze" nel post punk, costruendo un muro di suono privo dello sporco del punk, maestoso senza la pomposità dei vecchi super gruppi  e del prog dell'epoca, associando quel sound a testi rabbiosi e straziati. Anche dopo la svolta pop di Ocean Rain hanno sempre mantenuto uno standard di ottima qualità e un seguito di fedelissimi e appassionati. E in questa veste che mi sono recato al Circolo degli Artisti.

Non hanno deluso Ian McCulloch e Will Sergeant, unici superstiti del gruppo originale. Dopo i primi dieci, quindici minuti in cui ha regnato la confusione, quelli del mixer hanno preso le misure alla “delicata” acustica del Circolo e tutto il suono dell’ottima band che li supporta è venuto fuori, con Sergeant, a testa bassa sulla chitarra per tutta la serata, in gran forma. La voce di Ian è sempre potente, cupa, sognante, nonostante non abbia quasi mai smesso di fumare sul palco. Timido e con gli inseparabili occhiali scuri da miope, ha lasciato poco alla comunicazione, e sinceramente si è capito poco di quello che ha farfugliato tra un brano e l’altro. Molti i vecchi gioielli ripescati, apertura con Going Up, poi con gli immancabili cori di un pubblico eterogeneo sulle preziose The Cutter, All that Jazz, Rescue. Omaggio ai vecchi amori, con Roadhouse blues dei Doors e  Walk on the Wild Side di Lou Reed, e davvero bellissime le versioni “lente” di Seven Seas e The Killing Moon: qui, oltre alla pelle d’oca, sono tornate le sensazioni provate durante la visione di On the Road..

Una bella serata per i giovanissimi che hanno avuto la possibilità di ascoltare e vedere un gruppo leggendario, onnipresente in ogni resoconto su quella stagione magica che fu per la musica rock, e per chi fa ancora girare sul piatto i vinili originali, nonostante i graffi e l’usura del tempo. In generale abbiamo trovato il Circolo più organizzato, come doveva essere, per una manifestazione in stile nord europeo: nonostante sia Sabato, e gli Echo come headliner, non c’era il sold out e questa è l’unica stonatura insieme alla relativa brevità del concerto.

Buon Week end a tutti..


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