Che cos’è il debito pubblico e perché non è “il” problema
Pubblichiamo una parte del saggio di Roberto Ciccone tratto dall’e-book “Oltre l’austerità”. Alcune parti del testo sono tecniche, ma non particolarmente complesse. Anche al di là di queste parti, tuttavia, il saggio ha il pregio di smontare molti luoghi comuni sul debito pubblico.
Il debito pubblico è il debito che il settore pubblico di un paese contrae nei confronti di soggetti ad esso esterni (famiglie, imprese, istituzioni finanziarie). Lo stock di debito al quale si fa generalmente riferimento consiste di titoli a breve, medio e lungo termine, e non include invece altre forme di debito (ad es. i debiti verso fornitori). L’emissione di debito pubblico ha lo scopo di procurare al settore pubblico mezzi di pagamento necessari a finanziare il deficit pubblico, e cioè l’eccesso di spesa pubblica (inclusi gli interessi sul debito) rispetto alle entrate dello stesso settore pubblico.
- Il debito pubblico è un debito della nazione?
Circa il debito pubblico sono frequenti dei fraintendimenti relativi alla sua natura. Uno tra i più diffusi è quello per cui il debito pubblico costituirebbe un debito della nazione. E invece il debito pubblico è un debito di una parte della collettività verso la restante parte della stessa collettività, per cui la nazione non è né più né meno indebitata per effetto dell’emissione di debito pubblico (rinviamo al par. 1.5 il caso di debito pubblico detenuto da soggetti esteri, che è un po’ più complicato ma, come si vedrà, non introduce differenze sostanziali rispetto a quanto testè detto). Perciò l’analogia, talvolta evocata, tra il debito pubblico e il debito di una famiglia non è corretta: se l’analogia ammissibile sarebbe quella con il debito di un componente della famiglia verso un altro componente, ad es. del figlio verso il padre: è evidente che non avrebbe senso dire che la famiglia in quanto tale sarebbe indebitata.
Da ciò segue che per il settore privato i titoli del debito pubblico da esso posseduti formano parte della sua ricchezza. La ricchezza del settore privato aggregato (incluse le istituzioni finanziarie) è infatti così composta (lasciando da parte i rapporti con l’estero):
Capitale reale (immobili, attrezzature produttive)
Titoli del debito pubblico
Moneta
Un più elevato stock di debito pubblico implica pertanto una maggiore dimensione della ricchezza privata costituita da titoli pubblici. A parità di ogni altra condizione, pertanto, un maggiore ammontare di debito pubblico comporterebbe un maggiore ammontare di ricchezza complessiva per il settore privato. La questione che a questo riguardo si pone, allora, è se uno stock più elevato di debito pubblico possa effettivamente accrescere la ricchezza privata complessiva, o se invece la quota di questa che sia detenuta nella forma di titoli pubblici vada necessariamente ad assorbire ricchezza che avrebbe altrimenti preso altre forme (e in particolare la forma di capitale reale): di ciò si tratterà più avanti, nel par. 2.2.
Il debito pubblico è un onere a carico delle future generazioni?
Un altro argomento spesso avanzato, e connesso a quello ora considerato, circa la natura del debito pubblico è che quest’ultimo costituirebbe un onere a carico delle future generazioni. Sulla base del presupposto che il debito pubblico esistente debba prima o poi essere estinto, o quanto meno ridotto, si sostiene che le generazioni che verranno saranno tenute a pagare maggiori imposte (o usufruire di minori servizi pubblici), onde consentire allo Stato di accumulare gli avanzi di bilancio necessari appunto a rimborsare il suo debito.
Le imposte che ai ‘padri’ è stato consentito di non pagare, lasciando che si formasse debito pubblico, ricadrebbero quindi sulle spalle dei ‘figli’, costretti a sopportare un più elevato rapporto tra imposte e prestazioni pubbliche per saldare quanto i loro genitori hanno lasciato insoluto. Questa tesi—una variante della quale è che grazie all’accumulo di debito pubblico le generazioni passate avrebbero vissuto ‘al di sopra dei propri mezzi’, compromettendo così il tenore di vita dei loro discendenti—attribuisce perciò alle misure fiscali volte alla riduzione del debito pubblico un carattere di equità intergenerazionale che dovrebbe renderle non resistibili agli occhi del pater familias.
Come si dirà nel par. 2.3, l’analisi economica non ha individuato un limite alla dimensione del debito pubblico, oltre la quale la sua riduzione debba considerarsi necessaria. Ma anche ammettendo che in futuro tale esigenza si ponga, e che a questo scopo le generazioni che verranno saranno chiamate a sostenere un più elevato rapporto tra imposte e servizi pubblici ricevuti, non è difficile vedere che nessun onere aggiuntivo graverebbe per questo su di esse.
La ragione di ciò sta, ancora, nella natura del debito pubblico quale componente della ricchezza del settore privato, e pertanto quale attività che le future generazioni riceveranno in eredità dalle generazioni precedenti. Al maggior carico fiscale che graverà su di esse (posto che il debito pubblico debba essere ridotto) si accompagna infatti il lascito dei titoli rappresentativi del debito pubblico che verranno loro trasmessi: la situazione patrimoniale delle generazioni successive non sarà perciò né peggiorata, né migliorata, da un futuro rientro dal debito pubblico. (In termini tecnici, il valore attuale delle future maggiori imposte con le quali verrebbe finanziato il servizio (interessi + rimborso alla scadenza) di un certo ammontare di debito pubblico equivale al valore attuale di interessi e capitale finale cui i corrispondenti titoli danno diritto.)
Tra generazioni in quanto tali, dunque, nessuna redistribuzione di oneri ha luogo, in generale, per effetto della esistenza ed eventuale estinzione del debito pubblico. Per configurare un gravame a carico delle generazioni successive è necessario adottare l’ipotesi particolare che i titoli del debito pubblico, anziché essere trasmessi per via ereditaria, siano venduti dalla generazione precedente a quella successiva, per la quale l’aumento del carico fiscale non sarebbe in tal caso compensato dalla gratuità della acquisizione dei titoli. Questa modalità di trasmissione sarebbe però in evidente contrasto con il fatto che in generale nelle nostre società il trasferimento intergenerazionale della ricchezza ha luogo mediante il lascito ereditario; e, a ben riflettere, ciò non è un caso, perché l’istituto della successione ereditaria ha la precipua finalità della conservazione della distribuzione esistente della ricchezza tra famiglie e quindi, in ultima analisi, tra gruppi sociali. Soltanto negando questa fondamentale circostanza istituzionale si potrebbe perciò supporre che la ricchezza del settore privato, e quindi la quota di essa costituita da titoli pubblici, si trasferisca da una generazione all’altra mediante compravendita—come nella ‘teoria del ciclo vitale’, la cui validità incontra infatti in questo aspetto un limite rilevante. A riprova, basti considerare che se, a partire da una elevata concentrazione della ricchezza, si immaginasse che i ‘giovani’ acquistino gli asset detenuti dagli ‘anziani’ potendo utilizzare esclusivamente redditi da lavoro, la vendita delle attività esistenti non potrebbe che essere frazionata tra un elevato numero di ‘giovani’. La distribuzione della ricchezza si modificherebbe rapidamente in senso egualitario, e non sarebbe osservabile l’estrema (e crescente) disuguaglianza che invece contraddistingue le società reali.
Effetti distributivi della riduzione del debito pubblico
Naturalmente quanto fin qui detto non significa negare gli effetti redistributivi di un aumento del carico fiscale diretto a ridurre il debito pubblico, poiché è evidente che i soggetti colpiti dal maggior prelievo non coincideranno con i soggetti che ereditano i titoli del debito pubblico.
Ma tale questione distributiva è tutta interna alla generazione in essere all’epoca in cui la manovra di rientro viene effettuata: le parti coinvolte sono da un lato i gruppi sociali chiamati a pagare maggiori imposte (o ricevere minori prestazioni pubbliche), e dall’altro i gruppi sociali la cui ricchezza comprende i titoli del debito.
Il problema si riduce perciò alla scelta di come ripartire il maggior carico fiscale sulla collettività: un problema intragenerazionale che è eminentemente politico e che si pone ogniqualvolta lo Stato si trovi a determinare la copertura della sua spesa. E in quanto si tratta di un problema politico, esso è aperto a soluzioni diverse, a seconda delle quali diversi sono gli interessi che vengono privilegiati o, invece, sacrificati.
Ammantare il rientro dal debito della (falsa) veste della equità intergenerazionale è un modo di mettere in secondo piano, se non nascondere, il conflitto di interessi che l’operazione genera: l’appello alla innata cura per il benessere dei propri figli ne fa una questione imprescindibile e cattura un generalizzato consenso che rende di fatto superfluo il dibattito politico circa le scelte da compiere.
Deve notarsi che, entro la questione distributiva posta dalla riduzione del debito pubblico, l’aspetto forse più acuto è costituito dal finanziamento degli interessi che lo Stato paga sul debito stesso. E, a ben vedere, un trasferimento di reddito dai gruppi sociali tassati a quelli che percepiscono gli interessi si verifica anche per interventi che non mirino a ridurre il debito ma si limitino a costituire, nel bilancio dello Stato, un ‘avanzo primario’ (primario = al netto degli interessi), vale a dire ridurre il deficit ad un ammontare inferiore alla spesa per interessi, finanziando quindi con imposte una quota degli interessi stessi.
La specificità del problema distributivo che tale trasferimento alimenta è connesso alla natura degli interessi quale puro reddito dei percettori, che non risponde ad alcuna deliberata programmazione di utilità sociale come invece è, in linea di principio, per le altre categorie della spesa pubblica, e al fatto che quel reddito affluisce in proporzione maggiore alle categorie nelle quali si concentrano quote relativamente alte della ricchezza privata complessiva, e quindi anche di titoli pubblici. In presenza di elevati livelli di debito pubblico, e perciò di flussi consistenti di interessi, la copertura con imposte di quote rilevanti di essi può allora produrre significativi effetti regressivi nella distribuzione dei redditi, con conseguenze negative sia sul piano economico che sul piano sociale. Questo fenomeno, alla dimensione del quale concorrerebbe evidentemente l’altezza dei tassi d’interesse sul debito, e quindi il regime di politica monetaria operante, rappresenta il problema forse più serio che l’accumulazione di debito pubblico può generare, ove si proceda ad una eventuale riduzione o stabilizzazione del suo ammontare.
Indicatori di sviluppo mondiale
Il debito pubblico detenuto da soggetti esteri
Veniamo ora al debito pubblico che sia nelle mani di soggetti esteri. Talvolta si afferma che il debito detenuto all’estero, diversamente dal debito interno, costituirebbe un debito della nazione nel suo complesso, in quanto in tal caso i creditori non appartengono alla medesima comunità del debitore. Questo argomento trascura il fatto che la sottoscrizione o l’acquisto di titoli da parte di non residenti rientra nella categoria dei cosiddetti ‘movimenti di capitale’, che per loro stessa natura non alterano la posizione del paese nei confronti dell’estero. Per il paese emittente la vendita di titoli a operatori stranieri comporta infatti una corrispondente entrata di valuta estera, che lascia invariato il saldo tra crediti e debiti nei confronti del resto del mondo, come qui di seguito schematizzato con riferimento ad una ipotetica vendita di titoli pubblici per un ammontare di 100:
Supponendo che si tratti del collocamento di titoli di nuova emissione, consideriamo l’operazione nella prospettiva del Tesoro che ha emesso i titoli stessi. Il Tesoro riceve l’equivalente di 100 in valuta estera, che viene convertita in valuta nazionale mediante cessione alla Banca Centrale, la quale acquista la valuta estera emettendo 100 di valuta nazionale. Disaggregando il conto del Tesoro e quello della Banca Centrale, le variazioni nelle rispettive attività e passività sarebbero quindi le seguenti:
Il Tesoro è allora in grado di usare 100 di moneta nazionale per finanziare la spesa pubblica. Risulta così che, all’interno del paese, il finanziamento del deficit pubblico mediante la vendita di titoli all’estero equivale ad un finanziamento presso la Banca Centrale e corrispondente emissione di moneta da parte di questa. Nel caso considerato il Tesoro paga però sui suoi titoli l’interesse di mercato, mentre la Banca Centrale lucra il rendimento delle attività fruttifere nelle quali è libera di impiegare la valuta estera che ha acquistato al costo zero della moneta nazionale emessa in contropartita. Corrispondentemente a quanto vale per i due flussi di capitale, nei confronti dell’estero l’operazione genera quindi un flusso di interessi in uscita e un flusso di interessi in entrata, il cui saldo potrà essere positivo, negativo o nullo a seconda della differenza tra il tasso d’interesse che il Tesoro paga sul debito collocato all’estero e il tasso di rendimento delle attività acquistate dalla Banca Centrale.
Per il paese nel suo complesso non vi è dunque ragione di ritenere che l’operazione debba risolversi in un peggioramento, piuttosto che un miglioramento, dei conti verso l’estero. Nel confronto con un finanziamento diretto del debito pubblico da parte della Banca Centrale, che, come si è detto, sarebbe del tutto equivalente nei suoi effetti sul piano interno, l’operazione stessa risulta però particolarmente inefficiente dal punto di vista del Tesoro, e quindi, si potrebbe dire, dell’interesse collettivo. Essa combina infatti il medesimo aumento della quantità di moneta interna che si avrebbe con il finanziamento presso la Banca Centrale (ove questo non fosse impedito da vincoli istituzionali, quali quelli vigenti nell’area euro), con un costo per interessi a tassi presumibilmente maggiori di quelli che la Banca Centrale applicherebbe al Tesoro. Il maggior onere si ridurrebbe, fino eventualmente ad azzerarsi, nella misura in cui la Banca Centrale trasferisse al Tesoro l’eccedenza del lucro che essa realizza dall’operazione rispetto al tasso di interesse applicabile ai suoi impieghi a favore del Tesoro; ma resta che, ai fini del finanziamento del deficit di bilancio, nonché del controllo dell’offerta di moneta, non vi sarebbe alcuna ragione per preferire il collocamento di titoli pubblici all’estero piuttosto che presso la Banca Centrale. Con specifico riguardo alla zona euro, queste considerazioni si aggiungono ai dubbi che per altre, anche più importanti, ragioni si possono nutrire circa la sensatezza del divieto di qualsiasi finanziamento diretto dei Governi da parte della Banca Centrale Europea.
Abbiamo prima sottolineato che la vendita o il collocamento all’estero di titoli del debito pubblico non genera un debito della nazione, in quanto ha in contropartita una equivalente entrata di valuta estera che mantiene invariate le attività nette sull’estero del Paese. Naturalmente, se accadesse che la valuta estera così acquisita fosse utilizzata per finanziare una eccedenza delle importazioni sulle esportazioni, e cioè un saldo negativo della bilancia commerciale, quella attività sull’estero scomparirebbe dal bilancio del Paese (e specificamente della Banca Centrale), e il debito pubblico esterno resterebbe quale debito della nazione. Dovrebbe però essere evidente che la causa dell’indebitamento della nazione non starebbe nel debito pubblico collocato all’estero, ma appunto nel deficit commerciale del Paese. In presenza di un deficit della bilancia commerciale quel debito si sarebbe infatti prodotto anche qualora il bilancio pubblico fosse stato in pareggio: in quel caso esso avrebbe assunto una forma diversa, ad es. debito nei confronti del Fondo Monetario Internazionale, ma sarebbe comunque esistito. Nel caso in cui il deficit del bilancio pubblico, con collocamento di titoli all’estero, si accompagnasse ad un disavanzo della bilancia commerciale, il debito verso l’estero generato dal disavanzo commerciale si sovrapporrebbe al collocamento estero del debito pubblico e ne prenderebbe la forma, ma la sua causa starebbe comunque nell’eccesso delle importazioni sulle esportazioni.
Ancora sul debito pubblico esterno
Per sostenere che il debito pubblico detenuto all’estero presenta una maggiore problematicità rispetto a quello interno ci si richiama talvolta ad un argomento distinto da quello discusso nel paragrafo precedente, e relativo alla diversa capacità di imposizione fiscale, nei due casi, da parte dello Stato emittente. La tesi è che mentre con riguardo al debito interno il Governo potrebbe, in linea di principio, introdurre imposte tali da ottenere che di fatto il costo del servizio (interessi e ammortamento) sia in larga misura a carico dei creditori stessi, questo non potrebbe farsi per il debito in mano ad operatori stranieri, che non sono soggetti alle normative tributarie del paese emittente. Per il debito interno il problema distributivo che sorge nel momento in cui si ritiene che il debito stesso debba essere ridotto ammetterebbe quindi una soluzione che non sarebbe invece accessibile per il debito detenuto all’estero.
Anche questo argomento non è corretto, in quanto non coglie tutti gli aspetti del fenomeno. Chiariamo anzitutto che la possibilità che i detentori di titoli pubblici siano tassati in quanto tali non esiste. Presa al suo estremo, una imposizione fiscale che facesse gravare interamente il servizio del debito sugli stessi soggetti che detengono i titoli implicherebbe un prelievo del 100% sugli interessi ed una aliquota anch’essa del 100% sul valore di rimborso dei titoli stessi: cioè a dire, la sottoscrizione di titoli pubblici equivarrebbe ad un atto di donazione a favore dello Stato. Prima ancora di ogni questione di disparità di trattamento, e quindi di legittimità, è evidente che ciò azzererebbe in assoluto la convenienza ad acquistare titoli pubblici. Analoga considerazione vale, tuttavia, per qualsiasi trattamento fiscale che, seppur meno drastico, si applichi specificamente ai titoli del debito pubblico, riducendone in misura sensibile il rendimento relativamente a quello offerto da altri impieghi. La questione effettivamente proponibile si riduce allora a quella di una più generale tassazione dei possessori di ricchezza: in quanto tali, può ritenersi che essi detengano anche buona parte dei titoli del debito pubblico, ma inevitabilmente questo tipo di imposizione fiscale non conserva alcuno specifico nesso con il possesso di titoli pubblici. Ora, né la possibilità, nè l’opportunità di tassare la ricchezza privata interna al fine di coprire il servizio del debito pubblico sono in alcun modo condizionate dalla circostanza che una quota del debito è detenuta all’estero. Si noti che neanche la dimensione della ricchezza privata interna, e quindi la potenziale base imponibile di tale tassazione, viene ad essere ridotta dal fatto che parte del debito pubblico si trova al di fuori dei confini nazionali. Ciò è immediatamente evidente nel caso in cui gli operatori esteri abbiano acquistato i titoli sul mercato secondario da soggetti nazionali, i quali avrebbero pertanto semplicemente convertito in attività estere una quota della propria ricchezza precedentemente costituita da titoli del debito pubblico nazionale. Qualora si tratti di titoli di nuova emissione sottoscritti all’estero, si è prima precisato che in tal caso il deficit pubblico è finanziato da un aumento dello stock di moneta nazionale, cui corrisponde un aumento della quota della ricchezza privata interna costituita appunto da mezzi liquidi—in altri termini, la dimensione della ricchezza del settore privato nazionale sarebbe la stessa sia nel caso che i titoli del debito fossero sottoscritti all’interno, sia che essi fossero sottoscritti all’estero, con la differenza che in questo secondo caso i titoli del debito pubblico nazionale sarebbero ‘sostituiti’ da moneta nei portafogli degli investitori interni.
In conclusione, dunque, il fatto che una quota del debito pubblico sia in mano a operatori esteri in nulla inficia una eventuale tassazione della ricchezza del settore privato che miri a far sostenere il costo del servizio del debito pubblico prevalentemente ai medesimi gruppi sociali che lo detengono.
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Pubblichiamo una parte del saggio di Roberto Ciccone tratto dall’e-book “Oltre l’austerità”. Alcune parti del testo sono tecniche, ma non particolarmente complesse. Anche al di là di queste parti, tuttavia, il saggio ha il pregio di smontare molti luoghi comuni sul debito pubblico.
Sulla natura e sugli effetti del debito pubblico
Queste note hanno lo scopo di chiarire alcuni aspetti di base della natura del debito pubblico e degli effetti che esso può produrre sul sistema economico, con riguardo ai quali fraintendimenti, opacità concettuali e false convinzioni appaiono frequenti. Le puntualizzazioni qui esposte possono quindi essere preliminari (se ritenute valide) ad analisi di livello più avanzato circa temi e problemi connessi al finanziamento in debito della spesa pubblica.Natura del debito pubblico
Che cos’è il debito pubblico?Il debito pubblico è il debito che il settore pubblico di un paese contrae nei confronti di soggetti ad esso esterni (famiglie, imprese, istituzioni finanziarie). Lo stock di debito al quale si fa generalmente riferimento consiste di titoli a breve, medio e lungo termine, e non include invece altre forme di debito (ad es. i debiti verso fornitori). L’emissione di debito pubblico ha lo scopo di procurare al settore pubblico mezzi di pagamento necessari a finanziare il deficit pubblico, e cioè l’eccesso di spesa pubblica (inclusi gli interessi sul debito) rispetto alle entrate dello stesso settore pubblico.
- Il debito pubblico è un debito della nazione?
Circa il debito pubblico sono frequenti dei fraintendimenti relativi alla sua natura. Uno tra i più diffusi è quello per cui il debito pubblico costituirebbe un debito della nazione. E invece il debito pubblico è un debito di una parte della collettività verso la restante parte della stessa collettività, per cui la nazione non è né più né meno indebitata per effetto dell’emissione di debito pubblico (rinviamo al par. 1.5 il caso di debito pubblico detenuto da soggetti esteri, che è un po’ più complicato ma, come si vedrà, non introduce differenze sostanziali rispetto a quanto testè detto). Perciò l’analogia, talvolta evocata, tra il debito pubblico e il debito di una famiglia non è corretta: se l’analogia ammissibile sarebbe quella con il debito di un componente della famiglia verso un altro componente, ad es. del figlio verso il padre: è evidente che non avrebbe senso dire che la famiglia in quanto tale sarebbe indebitata.
Da ciò segue che per il settore privato i titoli del debito pubblico da esso posseduti formano parte della sua ricchezza. La ricchezza del settore privato aggregato (incluse le istituzioni finanziarie) è infatti così composta (lasciando da parte i rapporti con l’estero):
Capitale reale (immobili, attrezzature produttive)
Titoli del debito pubblico
Moneta
Un più elevato stock di debito pubblico implica pertanto una maggiore dimensione della ricchezza privata costituita da titoli pubblici. A parità di ogni altra condizione, pertanto, un maggiore ammontare di debito pubblico comporterebbe un maggiore ammontare di ricchezza complessiva per il settore privato. La questione che a questo riguardo si pone, allora, è se uno stock più elevato di debito pubblico possa effettivamente accrescere la ricchezza privata complessiva, o se invece la quota di questa che sia detenuta nella forma di titoli pubblici vada necessariamente ad assorbire ricchezza che avrebbe altrimenti preso altre forme (e in particolare la forma di capitale reale): di ciò si tratterà più avanti, nel par. 2.2.
Il debito pubblico è un onere a carico delle future generazioni?
Un altro argomento spesso avanzato, e connesso a quello ora considerato, circa la natura del debito pubblico è che quest’ultimo costituirebbe un onere a carico delle future generazioni. Sulla base del presupposto che il debito pubblico esistente debba prima o poi essere estinto, o quanto meno ridotto, si sostiene che le generazioni che verranno saranno tenute a pagare maggiori imposte (o usufruire di minori servizi pubblici), onde consentire allo Stato di accumulare gli avanzi di bilancio necessari appunto a rimborsare il suo debito.
Le imposte che ai ‘padri’ è stato consentito di non pagare, lasciando che si formasse debito pubblico, ricadrebbero quindi sulle spalle dei ‘figli’, costretti a sopportare un più elevato rapporto tra imposte e prestazioni pubbliche per saldare quanto i loro genitori hanno lasciato insoluto. Questa tesi—una variante della quale è che grazie all’accumulo di debito pubblico le generazioni passate avrebbero vissuto ‘al di sopra dei propri mezzi’, compromettendo così il tenore di vita dei loro discendenti—attribuisce perciò alle misure fiscali volte alla riduzione del debito pubblico un carattere di equità intergenerazionale che dovrebbe renderle non resistibili agli occhi del pater familias.
Come si dirà nel par. 2.3, l’analisi economica non ha individuato un limite alla dimensione del debito pubblico, oltre la quale la sua riduzione debba considerarsi necessaria. Ma anche ammettendo che in futuro tale esigenza si ponga, e che a questo scopo le generazioni che verranno saranno chiamate a sostenere un più elevato rapporto tra imposte e servizi pubblici ricevuti, non è difficile vedere che nessun onere aggiuntivo graverebbe per questo su di esse.
La ragione di ciò sta, ancora, nella natura del debito pubblico quale componente della ricchezza del settore privato, e pertanto quale attività che le future generazioni riceveranno in eredità dalle generazioni precedenti. Al maggior carico fiscale che graverà su di esse (posto che il debito pubblico debba essere ridotto) si accompagna infatti il lascito dei titoli rappresentativi del debito pubblico che verranno loro trasmessi: la situazione patrimoniale delle generazioni successive non sarà perciò né peggiorata, né migliorata, da un futuro rientro dal debito pubblico. (In termini tecnici, il valore attuale delle future maggiori imposte con le quali verrebbe finanziato il servizio (interessi + rimborso alla scadenza) di un certo ammontare di debito pubblico equivale al valore attuale di interessi e capitale finale cui i corrispondenti titoli danno diritto.)
Tra generazioni in quanto tali, dunque, nessuna redistribuzione di oneri ha luogo, in generale, per effetto della esistenza ed eventuale estinzione del debito pubblico. Per configurare un gravame a carico delle generazioni successive è necessario adottare l’ipotesi particolare che i titoli del debito pubblico, anziché essere trasmessi per via ereditaria, siano venduti dalla generazione precedente a quella successiva, per la quale l’aumento del carico fiscale non sarebbe in tal caso compensato dalla gratuità della acquisizione dei titoli. Questa modalità di trasmissione sarebbe però in evidente contrasto con il fatto che in generale nelle nostre società il trasferimento intergenerazionale della ricchezza ha luogo mediante il lascito ereditario; e, a ben riflettere, ciò non è un caso, perché l’istituto della successione ereditaria ha la precipua finalità della conservazione della distribuzione esistente della ricchezza tra famiglie e quindi, in ultima analisi, tra gruppi sociali. Soltanto negando questa fondamentale circostanza istituzionale si potrebbe perciò supporre che la ricchezza del settore privato, e quindi la quota di essa costituita da titoli pubblici, si trasferisca da una generazione all’altra mediante compravendita—come nella ‘teoria del ciclo vitale’, la cui validità incontra infatti in questo aspetto un limite rilevante. A riprova, basti considerare che se, a partire da una elevata concentrazione della ricchezza, si immaginasse che i ‘giovani’ acquistino gli asset detenuti dagli ‘anziani’ potendo utilizzare esclusivamente redditi da lavoro, la vendita delle attività esistenti non potrebbe che essere frazionata tra un elevato numero di ‘giovani’. La distribuzione della ricchezza si modificherebbe rapidamente in senso egualitario, e non sarebbe osservabile l’estrema (e crescente) disuguaglianza che invece contraddistingue le società reali.
Effetti distributivi della riduzione del debito pubblico
Naturalmente quanto fin qui detto non significa negare gli effetti redistributivi di un aumento del carico fiscale diretto a ridurre il debito pubblico, poiché è evidente che i soggetti colpiti dal maggior prelievo non coincideranno con i soggetti che ereditano i titoli del debito pubblico.
Ma tale questione distributiva è tutta interna alla generazione in essere all’epoca in cui la manovra di rientro viene effettuata: le parti coinvolte sono da un lato i gruppi sociali chiamati a pagare maggiori imposte (o ricevere minori prestazioni pubbliche), e dall’altro i gruppi sociali la cui ricchezza comprende i titoli del debito.
Il problema si riduce perciò alla scelta di come ripartire il maggior carico fiscale sulla collettività: un problema intragenerazionale che è eminentemente politico e che si pone ogniqualvolta lo Stato si trovi a determinare la copertura della sua spesa. E in quanto si tratta di un problema politico, esso è aperto a soluzioni diverse, a seconda delle quali diversi sono gli interessi che vengono privilegiati o, invece, sacrificati.
Ammantare il rientro dal debito della (falsa) veste della equità intergenerazionale è un modo di mettere in secondo piano, se non nascondere, il conflitto di interessi che l’operazione genera: l’appello alla innata cura per il benessere dei propri figli ne fa una questione imprescindibile e cattura un generalizzato consenso che rende di fatto superfluo il dibattito politico circa le scelte da compiere.
Deve notarsi che, entro la questione distributiva posta dalla riduzione del debito pubblico, l’aspetto forse più acuto è costituito dal finanziamento degli interessi che lo Stato paga sul debito stesso. E, a ben vedere, un trasferimento di reddito dai gruppi sociali tassati a quelli che percepiscono gli interessi si verifica anche per interventi che non mirino a ridurre il debito ma si limitino a costituire, nel bilancio dello Stato, un ‘avanzo primario’ (primario = al netto degli interessi), vale a dire ridurre il deficit ad un ammontare inferiore alla spesa per interessi, finanziando quindi con imposte una quota degli interessi stessi.
La specificità del problema distributivo che tale trasferimento alimenta è connesso alla natura degli interessi quale puro reddito dei percettori, che non risponde ad alcuna deliberata programmazione di utilità sociale come invece è, in linea di principio, per le altre categorie della spesa pubblica, e al fatto che quel reddito affluisce in proporzione maggiore alle categorie nelle quali si concentrano quote relativamente alte della ricchezza privata complessiva, e quindi anche di titoli pubblici. In presenza di elevati livelli di debito pubblico, e perciò di flussi consistenti di interessi, la copertura con imposte di quote rilevanti di essi può allora produrre significativi effetti regressivi nella distribuzione dei redditi, con conseguenze negative sia sul piano economico che sul piano sociale. Questo fenomeno, alla dimensione del quale concorrerebbe evidentemente l’altezza dei tassi d’interesse sul debito, e quindi il regime di politica monetaria operante, rappresenta il problema forse più serio che l’accumulazione di debito pubblico può generare, ove si proceda ad una eventuale riduzione o stabilizzazione del suo ammontare.
Il debito pubblico detenuto da soggetti esteri
Veniamo ora al debito pubblico che sia nelle mani di soggetti esteri. Talvolta si afferma che il debito detenuto all’estero, diversamente dal debito interno, costituirebbe un debito della nazione nel suo complesso, in quanto in tal caso i creditori non appartengono alla medesima comunità del debitore. Questo argomento trascura il fatto che la sottoscrizione o l’acquisto di titoli da parte di non residenti rientra nella categoria dei cosiddetti ‘movimenti di capitale’, che per loro stessa natura non alterano la posizione del paese nei confronti dell’estero. Per il paese emittente la vendita di titoli a operatori stranieri comporta infatti una corrispondente entrata di valuta estera, che lascia invariato il saldo tra crediti e debiti nei confronti del resto del mondo, come qui di seguito schematizzato con riferimento ad una ipotetica vendita di titoli pubblici per un ammontare di 100:
Supponendo che si tratti del collocamento di titoli di nuova emissione, consideriamo l’operazione nella prospettiva del Tesoro che ha emesso i titoli stessi. Il Tesoro riceve l’equivalente di 100 in valuta estera, che viene convertita in valuta nazionale mediante cessione alla Banca Centrale, la quale acquista la valuta estera emettendo 100 di valuta nazionale. Disaggregando il conto del Tesoro e quello della Banca Centrale, le variazioni nelle rispettive attività e passività sarebbero quindi le seguenti:
Il Tesoro è allora in grado di usare 100 di moneta nazionale per finanziare la spesa pubblica. Risulta così che, all’interno del paese, il finanziamento del deficit pubblico mediante la vendita di titoli all’estero equivale ad un finanziamento presso la Banca Centrale e corrispondente emissione di moneta da parte di questa. Nel caso considerato il Tesoro paga però sui suoi titoli l’interesse di mercato, mentre la Banca Centrale lucra il rendimento delle attività fruttifere nelle quali è libera di impiegare la valuta estera che ha acquistato al costo zero della moneta nazionale emessa in contropartita. Corrispondentemente a quanto vale per i due flussi di capitale, nei confronti dell’estero l’operazione genera quindi un flusso di interessi in uscita e un flusso di interessi in entrata, il cui saldo potrà essere positivo, negativo o nullo a seconda della differenza tra il tasso d’interesse che il Tesoro paga sul debito collocato all’estero e il tasso di rendimento delle attività acquistate dalla Banca Centrale.
Per il paese nel suo complesso non vi è dunque ragione di ritenere che l’operazione debba risolversi in un peggioramento, piuttosto che un miglioramento, dei conti verso l’estero. Nel confronto con un finanziamento diretto del debito pubblico da parte della Banca Centrale, che, come si è detto, sarebbe del tutto equivalente nei suoi effetti sul piano interno, l’operazione stessa risulta però particolarmente inefficiente dal punto di vista del Tesoro, e quindi, si potrebbe dire, dell’interesse collettivo. Essa combina infatti il medesimo aumento della quantità di moneta interna che si avrebbe con il finanziamento presso la Banca Centrale (ove questo non fosse impedito da vincoli istituzionali, quali quelli vigenti nell’area euro), con un costo per interessi a tassi presumibilmente maggiori di quelli che la Banca Centrale applicherebbe al Tesoro. Il maggior onere si ridurrebbe, fino eventualmente ad azzerarsi, nella misura in cui la Banca Centrale trasferisse al Tesoro l’eccedenza del lucro che essa realizza dall’operazione rispetto al tasso di interesse applicabile ai suoi impieghi a favore del Tesoro; ma resta che, ai fini del finanziamento del deficit di bilancio, nonché del controllo dell’offerta di moneta, non vi sarebbe alcuna ragione per preferire il collocamento di titoli pubblici all’estero piuttosto che presso la Banca Centrale. Con specifico riguardo alla zona euro, queste considerazioni si aggiungono ai dubbi che per altre, anche più importanti, ragioni si possono nutrire circa la sensatezza del divieto di qualsiasi finanziamento diretto dei Governi da parte della Banca Centrale Europea.
Abbiamo prima sottolineato che la vendita o il collocamento all’estero di titoli del debito pubblico non genera un debito della nazione, in quanto ha in contropartita una equivalente entrata di valuta estera che mantiene invariate le attività nette sull’estero del Paese. Naturalmente, se accadesse che la valuta estera così acquisita fosse utilizzata per finanziare una eccedenza delle importazioni sulle esportazioni, e cioè un saldo negativo della bilancia commerciale, quella attività sull’estero scomparirebbe dal bilancio del Paese (e specificamente della Banca Centrale), e il debito pubblico esterno resterebbe quale debito della nazione. Dovrebbe però essere evidente che la causa dell’indebitamento della nazione non starebbe nel debito pubblico collocato all’estero, ma appunto nel deficit commerciale del Paese. In presenza di un deficit della bilancia commerciale quel debito si sarebbe infatti prodotto anche qualora il bilancio pubblico fosse stato in pareggio: in quel caso esso avrebbe assunto una forma diversa, ad es. debito nei confronti del Fondo Monetario Internazionale, ma sarebbe comunque esistito. Nel caso in cui il deficit del bilancio pubblico, con collocamento di titoli all’estero, si accompagnasse ad un disavanzo della bilancia commerciale, il debito verso l’estero generato dal disavanzo commerciale si sovrapporrebbe al collocamento estero del debito pubblico e ne prenderebbe la forma, ma la sua causa starebbe comunque nell’eccesso delle importazioni sulle esportazioni.
Ancora sul debito pubblico esterno
Per sostenere che il debito pubblico detenuto all’estero presenta una maggiore problematicità rispetto a quello interno ci si richiama talvolta ad un argomento distinto da quello discusso nel paragrafo precedente, e relativo alla diversa capacità di imposizione fiscale, nei due casi, da parte dello Stato emittente. La tesi è che mentre con riguardo al debito interno il Governo potrebbe, in linea di principio, introdurre imposte tali da ottenere che di fatto il costo del servizio (interessi e ammortamento) sia in larga misura a carico dei creditori stessi, questo non potrebbe farsi per il debito in mano ad operatori stranieri, che non sono soggetti alle normative tributarie del paese emittente. Per il debito interno il problema distributivo che sorge nel momento in cui si ritiene che il debito stesso debba essere ridotto ammetterebbe quindi una soluzione che non sarebbe invece accessibile per il debito detenuto all’estero.
Anche questo argomento non è corretto, in quanto non coglie tutti gli aspetti del fenomeno. Chiariamo anzitutto che la possibilità che i detentori di titoli pubblici siano tassati in quanto tali non esiste. Presa al suo estremo, una imposizione fiscale che facesse gravare interamente il servizio del debito sugli stessi soggetti che detengono i titoli implicherebbe un prelievo del 100% sugli interessi ed una aliquota anch’essa del 100% sul valore di rimborso dei titoli stessi: cioè a dire, la sottoscrizione di titoli pubblici equivarrebbe ad un atto di donazione a favore dello Stato. Prima ancora di ogni questione di disparità di trattamento, e quindi di legittimità, è evidente che ciò azzererebbe in assoluto la convenienza ad acquistare titoli pubblici. Analoga considerazione vale, tuttavia, per qualsiasi trattamento fiscale che, seppur meno drastico, si applichi specificamente ai titoli del debito pubblico, riducendone in misura sensibile il rendimento relativamente a quello offerto da altri impieghi. La questione effettivamente proponibile si riduce allora a quella di una più generale tassazione dei possessori di ricchezza: in quanto tali, può ritenersi che essi detengano anche buona parte dei titoli del debito pubblico, ma inevitabilmente questo tipo di imposizione fiscale non conserva alcuno specifico nesso con il possesso di titoli pubblici. Ora, né la possibilità, nè l’opportunità di tassare la ricchezza privata interna al fine di coprire il servizio del debito pubblico sono in alcun modo condizionate dalla circostanza che una quota del debito è detenuta all’estero. Si noti che neanche la dimensione della ricchezza privata interna, e quindi la potenziale base imponibile di tale tassazione, viene ad essere ridotta dal fatto che parte del debito pubblico si trova al di fuori dei confini nazionali. Ciò è immediatamente evidente nel caso in cui gli operatori esteri abbiano acquistato i titoli sul mercato secondario da soggetti nazionali, i quali avrebbero pertanto semplicemente convertito in attività estere una quota della propria ricchezza precedentemente costituita da titoli del debito pubblico nazionale. Qualora si tratti di titoli di nuova emissione sottoscritti all’estero, si è prima precisato che in tal caso il deficit pubblico è finanziato da un aumento dello stock di moneta nazionale, cui corrisponde un aumento della quota della ricchezza privata interna costituita appunto da mezzi liquidi—in altri termini, la dimensione della ricchezza del settore privato nazionale sarebbe la stessa sia nel caso che i titoli del debito fossero sottoscritti all’interno, sia che essi fossero sottoscritti all’estero, con la differenza che in questo secondo caso i titoli del debito pubblico nazionale sarebbero ‘sostituiti’ da moneta nei portafogli degli investitori interni.
In conclusione, dunque, il fatto che una quota del debito pubblico sia in mano a operatori esteri in nulla inficia una eventuale tassazione della ricchezza del settore privato che miri a far sostenere il costo del servizio del debito pubblico prevalentemente ai medesimi gruppi sociali che lo detengono.
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