Finalmente, dopo averci girato in lungo e in largo, dopo dibattiti e considerazioni, ricerche e confronti con altre esperienze, qualcuno e in questo caso il Sen. Luigi manconi, da sempre impegnato nel rispetto dei diritti civili e in particolare dei detenuti, lo dice charo e tondo: bisogna abolire il carcere. Così come è strutturato, non serve assolutamente a niente, soprattutto agli scopi che dovrebbe prefiggere una detenzione, breve o lunga che sia: la non reiterazione del reato e il recupero del detenuto. Invece, nella disastrosa situazione in cui si trovano i detenuti nelle carceri italiane, più volte sanzionate dall'Unione Europea, succede solo che la percentuale di reati che vengono compiuti dopo il rilascio dalla detenzione è in continuo aumento, e che la reclusione così com'è serve solo ad incattivire le persone che hanno sbagliato. Senza un lavoro, un occupazione, corsi di formazione, non c'è possibilità di un reinserimento, e stare chiusi in una cella senza fare niente per 24 ore, insieme con altre persone nelle stesse condizioni, somiglia più ad una tortura che ad una punizione. Pubblichiamo un estratto dal libro di Manconi, scritto con Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta, e postfazione di Gustavo Zagrebelsky. In chiusura, in fondo, un documentario di VICE sulle carceri norvegesi, che conferma che è possibile percorrere strade diverse.
Interzone appoggia totalmente la proposta di Manconi e si batte perchè il carcere venga abolito per tutti, e sostituito con altre forme di pene e detenzione.ABOLIRE IL CARCERE
È stata Belén, all’anagrafe María Belén Rodríguez, a esprimere le considerazioni più pertinenti a proposito della condanna a tredici anni e due mesi di carcere inflitta a Fabrizio Corona. La donna, a quanto si sa, non viene da severi studi giuridici ma è evidentemente dotata di buon senso e, soprattutto, conosce la personalità del condannato, col quale ha avuto una lunga relazione, e la sua particolare patologia. «Lui ha un problema, ha fatto degli errori, ma in realtà l’unico problema che ha sono i soldi». E ancora: «Secondo me la condanna che dovevano dargli è una grandissima multa salata e basta. Lui è in galera perché ha una malattia per i soldi» afferma Belén in una intervista al settimanale «Oggi», il 22 dicembre 2014.
Nelle parole della donna c’è l’eco (poco importa se inconsapevole) della più avanzata dottrina penalistica e della più ragionevole pedagogia per l’età adulta. Entrambe le ispirazioni tengono conto, nel ponderare qualità ed entità della sanzione per chi infrange le regole, della personalità del reo e dell’esigenza di rendere la pena effettivamente deterrente – dunque utile alla società – oltre che non inutilmente vessatoria nei confronti del condannato. Ed entrambe intendono sottrarre la misura punitiva al cupo e ottuso automatismo del «chiudere la cella» per tot anni o per sempre e «gettare via la chiave». E, infatti, nel caso di Corona, solo un tipo di sanzione capace di intervenire efficacemente sulla sua «patologia», la dipendenza dal denaro, può rispondere a quanto previsto dalla Carta costituzionale e dal nostro ordinamento. Può, cioè, sia svolgere una funzione preventiva – ovvero dissuaderlo dall’acquisire illegalmente risorse economiche – sia perseguire una finalità rieducativa, inducendolo a riflettere criticamente sulle conseguenze della propria dipendenza dal denaro. Le parole di Belen aggiungono, quindi, un’ulteriore motivazione, se mai ve ne fosse stato bisogno, alla pertinenza e alla urgenza dell’interrogativo: possiamo fare a meno del carcere? Questo libro ambisce a dimostrare l’opportunità di una simile domanda e la fondatezza della nostra risposta positiva. Sì, abolire il carcere e possibile, innanzitutto nell’interesse della collettività, di quella maggioranza di persone che pensano di non essere destinate mai a finirci e che, con lo stesso, mai avranno alcun rapporto nel corso della intera esistenza. L’abolizione del carcere è, insomma, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, che ne avrebbero tutto da guadagnare. Perché, dunque, fare a meno del carcere? Semplice: perché a dispetto delle sue promesse non dissuade nessuno dal compiere delitti, rieduca molto raramente e assai più spesso riproduce all’infinito crimini e criminali, e rovina vite in bilico tra marginalità sociale e illegalità, perdendole definitivamente. E perché mette frequentemente a rischio la vita dei condannati, violando il primo degli obblighi morali di una comunità civile, che e quello di riconoscere la natura sacra della vita umana anche in chi abbia commesso dei reati, anche in chi a quella vita umana abbia recato intollerabili offese. E sia per questo sottoposto alla custodia e alla funzione punitiva degli apparati statali.
Sono passati più di trent’anni da quando, prudentemente, si cercava una strada per «liberarsi dalla necessità del carcere». Trent’anni in cui le migliori intenzioni si sono scontrate con la ruvida materialità di un sistema penitenziario che è sembrato irriformabile. E che, per contro, ha riprodotto ottusamente se stesso, anche oltre se stesso, in altri luoghi di detenzione, non meno afflittiva, non meno degradante, non meno inumana: dagli ospedali psichiatrici giudiziari ai centri di identificazione ed espulsione per stranieri. Proviamo allora a invertire l’ordine del discorso. Il carcere come luogo di pena non è sempre esistito. Anzi, nella lunga storia dell’umanità è un’invenzione relativamente recente. E ciò nonostante costellata di denunce e contestazioni, dalla grande letteratura agli scritti dei costituenti riuniti in un fascicolo de «Il Ponte» da Piero Calamandrei nel 1949.Insomma, non siamo gli unici né i primi a pensare che il carcere possa essere abolito. L’idea di fare a meno della galera come luogo di esecuzione delle pene, infatti, ha ormai una lunga storia, fatta di teorie filosofiche, suggestioni letterarie, manifesti politici e sperimentazioni pratiche che illustreremo in questo libro. Ben 2368 persone sono morte nelle carceri italiane negli ultimi quindici anni: quasi 160 ogni anno, di cui almeno un terzo per propria scelta, ricorrendo ai vari strumenti che consentono a chi si trovi recluso di togliersi la vita: dall’impiccagione alle sbarre della cella all’aspirazione del gas del fornello. Più della metà dei detenuti sopporta la reclusione solo grazie all’uso abituale di psicofarmaci, mentre la gran parte, quasi il 70 per cento, è destinata a rientrare in carcere entro un breve periodo di tempo.
Per questo parleremo più diffusamente della sua intollerabilità e degli effetti altamente letali che ha su chi vi è recluso e su chi vi lavora come una delle ragioni che inducono a considerare l’opportunità della sua abolizione. Abolire il carcere dunque, ma come? Il nostro e altri ordinamenti penali conoscono una grande varietà di pene non detentive come quelle che limitano la libertà di movimento senza ricorrere a una cella: quelle che impediscono ai condannati di compiere determinati atti o che costringono a realizzare qualcosa a favore della collettività. Passeremo in rassegna le alternative già oggi sperimentate in molte parti del mondo, e persino in Italia. E infine, individueremo dieci cose da fare subito per indirizzare energie e risorse verso l’abolizione della pena detentiva. Certo, il nostro ambizioso obiettivo va avvicinato e raggiunto attraverso un tragitto inevitabilmente lungo e faticoso. Ma anche i piccoli passi e i modesti risultati possono essere alla nostra portata e rivelarsi efficaci solo se collocati all’interno di una prospettiva che è necessariamente quella: l’abolizione del carcere. La riforma più elementare e l’intervento più prudente sono destinati ad avere successo solo se pensati e perseguiti come altrettanti passaggi verso quella meta finale che è appunto rendere superflua la prigione.
Un documentario di VICE sull'organizzazione del sistema carcerario in Norvegia.
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