« Eccolo che arriva, tutto vestito di nero
Scarpe da portoricano, e un grosso cappello di paglia
Non è mai in anticipo, è sempre in ritardo
La prima cosa che impari è che devi sempre aspettare »
(I'm waiting for the man)
Qual'è il punto, quanto tempo si aspetta, o chi o cosa si sta aspettand? Entrambe le cose, risposta più sensata. Le cose si complicano quando si aspetta qualcosa che forse non arriverà mai, che forse non succederà mai, e quando l'aspettare si trasforma in speranza..ci si logora, ci si esaspera..Ci si consuma.
Come Lou Reed, ho imparato bene l'arte di aspettare , ma alla fine, soltanto di aspettare me stesso..
Adoro questo saggio autobiografico di Phillip Lopate, fine intellettuale americano, scrittore, giornalista, dal carattere burbero e scontroso, solitario, un pò moralista.. Particolari di vita quotidiana, stravaganze, aneddoti, diatribe. Un "grande pascolo di stile e individualità".
L'arte di aspettare
<< Una delle cose per cui io mi flagello più spesso e che non ho mai imparato a stare seduto per ore in un bar o in un caffè. A essere, insomma, un cliente abituale. Invidio la gente che ci riesce, perché chissà sembra appartenere senza sforzi a una comunità; nelle grandi città, poi, ogni sforzo in questo senso è da premiare. Ma anche quando provo a starmene li con le mani in mano, grazie a un libro o a un giornale, l'impazienza mi costringe ad alzare le chiappe dopo un'ora appena. A quanto pare mi manca quello che Walter Benjamin chiamava "la passione per l’attesa, senza la quale non si può apprezzare fino in fondo il fascino di un caffe". In parte e fisiologico: ricevo un segnale dal mio gluteus maximus che dice: "Allora andiamo?" E quando l’impazienza muscolare non mi sprona, lo fa la paura di annoiarmi. Il cameratismo tra habitué in un bar o in un caffe dall'esterno potrà sembrare allettante, eppure a un profano come me, che non ha mai scoperto il trucco per starsene seduto a fare quattro chiacchiere, risulta spregevolmente angusto. Perfino da ragazzo trovavo al di la delle mie forze bighellonare all'angolo con i miei coetanei. Non ho mai fatto parte di un gruppo di boy scout o di una gang o di una confraternita universitaria o di un club, tanto sono allergico al chiacchiericcio di gruppo. Perciò avrete capito che non ho nemmeno la pazienza per diventare alcolista. (Ci vuole una grande remissività per buttare giù un drink dopo l'altro: aiuta anche una discreta tolleranza sociale e un posteriore coriaceo.) La gente dubita che io sia uno scrittore solo quando dico che non bevo: chissà perché gli scrittori dovrebbero fare tirocinio al bancone del bar. Pensate a quante commedie avrei potuto scrivere se fossi riuscito a frequentare qualche bettola, assorbendo il dialogo tra gli avventori con le loro vite sprecate e i loro progetti assurdi. A volte, davanti al pub, mi fermo a fissare al di la dei vetri oscurati i clienti che se la ridono in un cantuccio. Un paio di volte l'anno mi costringo a entrare, per sorseggiare una birra e guardare la partita in televisione, cercando di entrare in sintonia. Ma non appena uno sconosciuto comincia a raccontarmi la storia della sua vita, apostrofandomi con immeritata tenerezza un attimo prima e arbitrario disprezzo un attimo dopo, mi viene voglia di darmela a gambe levate. Ovviamente l'ubriacone te lo legge negli occhi, poco importa quante pinte s'è scolato. Come ha spiegato un vecchio beone, con una specie di stupore compassionevole verso entrambe le posizioni:
”Capisco che... la gente che non beve... trova la gente che beve... ubriaca". Ma non sono solo i patiti dell’alcolismo che fatico a tollerare tanto a lungo da diventare un cliente fisso. La fregola mi prende anche nei caffè. Ci vuole un certo aplomb filosofico per starsene seduti ore e ore davanti a una scacchiera, aspettando che passi qualcuno per finire la partita. Me ne ricordo tanti di artigiani di indifferenza bohémienne negli anni Cinquanta: è un'arte che sta sparendo. Be’, mi dico, quella pigrizia non fa certo parte del DNA americano. Abbiamo bisogno di muoverci, di fare qualcosa. Anche se i saggi orientali spesso caldeggiano l'atarassia, io ho un'etica del lavoro troppo sviluppata per maneggiare quella disciplina. Perfino a casa, da solo, mi sembra quasi impossibile stare con le mani in mano: devo scrivere lettere, pagare le bollette, fare telefonate, leggere, guardare il telegiornale... Eppure c'è qualcosa nei caffè che continua ad affascinarmi. Quello che mi fa invidia non è il caffè per come si presenta oggi, con la sua aria di studiata indolenza, ma l'istituzione per come fioriva un tempo, nel '600 e nel '700. I caffè di Londra giocarono un ruolo importante nella vita intellettuale del tempo: le ultime pièce teatrali, le satire, ‘i pamphlet politici venivano fatti girare, discussi e a volte perfino scritti lì; le battute di Swift o Goldsmith nascevano in quei luoghi, e così partiva il passaparola; i bollettini di Addison e Steele, il Tatler e lo Spectator, nascevano tra la folla dei caffè. I loro primi numeri erano suddivisi secondo i caffè in cui le loro eminenze grigie si ritrovavano; le novità politiche da un ambiente, le chiacchiere letterarie da un altro, la religione e le mode da altri ancora. A quei tempi non solo i perdigiorno ma anche i più vitali e attivi e prolifici membri della società frequentavano i bar. Era un dovere e un piacere sociale passarci un po’ di giornata: sapevi sempre quali amici poteva capitare di incontrare in un certo posto a una data ora. A pochi di noi è concesso di vedere i propri conoscenti tutti i giorni. Forse Vedresti un amico in modo diverso se dovessi incontrarlo in circostanze casuali sei volte alla settimana. Ma . perché parlare solo degli amici? Senza luoghi di ritrovo come quelli diventa più difficile seguire in modo dettagliato la vita dei nemici, dei rivali e di tutti quelli che ci lasciano indifferenti. Palloni gonfiati, atteggiati, manigoldi, Scribacchini, talenti sprecati e personaggi eccentrici affollano le pagine della letteratura inglese del diciassettesimo e diciottesimo secolo, e vengono descritti con quella tranquilla e dispregiativa larghezza di vedute che può derivare solo dalla consapevolezza del ruolo fondamentale che questi personaggi marginali giocano nella vita di tutti. Il caffè, così come il salon francese (che non è per niente sparito), costituiva un laboratorio eccellente per l'investigazione delle tipologie umane. Non per niente lo studio dei personaggi salì alla ribalta come forma letteraria proprio in questo periodo: “Le Vite dei poeti” di Johnson (in particolare la sua biografia di Savage), lo stesso capolavoro di ritrattistica di Boswell, tanto legato al contatto quotidiano con i suoi soggetti, i romanzi sociali di Fielding o, dall'altra parte della Manica, i Caratteri’ di La Bruyère e Il nipote di Rameau di Diderot: queste opere osservano il campo specifico della natura umana sia come individualità che come tipologie rappresentative invitate ad assumere un ruolo nella pubblica arena. Se vogliamo credere alle descrizioni che ci sono pervenute, all'inizio il caffè aiutò a promuovere l'uomo come animale sociale, con un vivace interesse per il mondo e una responsabilità politica attiva. Il successivo declino di questo tipo di attività civica, insieme o in parte per la diminuzione dei luoghi pubblici e dei punti di incontro, ha costretto l'uomo nellasfera privata (...)
A me manca lo Sitzfleisch, ola capacità di starmene seduto. Mi sembra anche difficile, conoscendo la mia natura 'competitiva' , fare da spettatore a un gruppo rumoroso e brillante, aspettando di buttare lì qualche bon mot in mezzo a tutti quei discorsi. Anche se il circolo dell'Algonquin rinascesse domani con una sedia pronta per me, e le chiacchere fossero particolarmente sofisticate e maligne, probabilmente mi sentirei troppo minacciato per restarci a lungo. Temo di trovare più interesse a dispiacermi perchè il mondo contemporaneo mi ha deprivato di queste tavole rotonde intellettuali, di quanto ne avrei a parteciparvi se ne avessi l'occasione.