14/01/15

The Holy Hole, il buco sacro di Chet Baker

Chet 1981
Quì Let's Get Lost: Chet Baker,  considerazioni su "Come se avessi le ali", le memorie perdute del grande trombettista americano.
La "nostra" Fernanda Pivano incontrò Baker a Milano nel 1960, incontro che viene riportato nel libro "Amici Scrittori", sottotitolo: "Quarant' anni di incontri e scoperte con gli autori americani". Da "Spoon River" a Jay McInerney. Passando per Ezra Pound, Ernest Hemingway, Saul Bellow, Jack Kerouac, Allen Ginsberg. E tanti, tanti altri, i compagni di tante avventure, Amici scrittori, appunto..

Chet Baker, Milano 1960
Anche Chet Baker era un consumatore di sostanze chimiche.

Era venuto a Milano a suonare in un piccolo locale ed eravamo diventati amici, come si poteva essere amici con Chet che in quattro ore diceva al massimo una parola. Veniva da noi e senza parlare si gettava affranto su un divano, o suonava il pianoforte, o pizzicava la chitarra, o metteva un disco; poi mangiava una banana, beveva una Coca-Cola, sorrideva e se ne andava. Una sera che dovevamo andare a cena insieme (c’era da noi a dormire Gregory Corso), invece di arrivare con la moglie Halima, una bellissima indiana bengala di pelle scura, arrivò con una ragazza bruna nuda sotto il maglione rosso con la scollatura a V. Non gli chiesi niente, naturalmente; quando fummo seduti al ristorante, disse:
<<Back home.>>
Gli chiesi perché. Rispose:
<<Buco nel polmone. Troppo faticoso vivere con me>>, e rimase zitto senza toccare il cibo finché tutti ebbero finito. Poi volle andare in uno di quei sotterranei con i biliardini e giocò tre ore a ping-pong con Gregory Corso. Dopo volle andare in un night dove, disse, lavorava la sua nuova ragazza. Aspettammo a lungo, con Gregory Corso sempre più nervoso mentre guardava la gente ballare all’antica, guancia contro guancia e i corpi incollati quasi in un coito. Venne il momento che Gregory esplose. <<Perché non se ne vanno a scopare in un letto?>> ripeté a voce sempre più alta, per fortuna in inglese. Si quietò solo quando cominciò lo spettacolo e comparve la ragazza di Chet Baker. La sua <<parte>> consisteva nell’attraversare il palcoscenico a sipario chiuso reggendo un cartello con la cifra del prossimo “numero”

<<Oh, God>>, mormoro Gregory sopraffatto; ma Chet sorrideva felice.

Si era fatto togliere un incisivo per eliminare ogni ostacolo tra il suo respiro e la tromba, e quando sorrideva con quel viso da bambino, bello in un profilo senza futuro e teso in un dramma senza speranza, quel buco nero in mezzo alle labbra pareva un monito. The Holy Hole, il buco sacro, lo chiamò subito Gregory Corso; e Chet lo guardò fisso prima di rispondergli con un sorriso. Chet parlava soltanto quando era certo che non si cercava di fargli dire perché era venuto via dall'America, perché si drogava, con che cosa si faceva e tutte le altre cose che incuriosiscono i giornalisti. Se si accorgeva che qualcuno si interessava davvero a quello che da anni cercava di fare con la sua tromba parlava per ore di seguito, senza interrompersi, passandosi ogni tanto la mano sulla fronte pallida e sudata. Per lo più si interrompeva soltanto perchè doveva andare a suonare. Allora sorrideva, con il suo holy hole in quel sorriso tragico, e dopo qualche minuto di tensione quasi insopportabile sussurrava le prime note.

L'impresario era disperato. Lo facevano suonare troppo, lo sfruttavano fino a logorarlo; e nemmeno per lucro, soltanto per ignoranza, perché non sapevano che un artista non può suonare cosi a lungo senza spaccarsi le labbra. Ma Chet non protestava mai. Suonava fuori del tempo e dello spazio fino a cadere svenuto; sfiorandosi ogni tanto il labbro dolente, asciugando ogni tanto, in una carezza, la tromba bagnata di saliva e di sudore. Mi diceva che la musica per lui si basava più su pause inespresse, su messaggi sottintesi, su significati non detti, che su uno slancio verso l’esterno o uno sfogo passionale: la sua si sarebbe potuta chiamare la musica del silenzio. In America, dove si esibiva con una sua orchestra, eseguiva di preferenza musica modernissima, basata sugli accordi anziché sulla melodia. Componeva per lui la musica Bob Zeiff, abilissimo nell’inventare nuovi accordi, che gli aveva preparato un repertorio da portare in Europa, ma Chet lo aveva perso su un taxi: era il manoscritto originale.
In questa musica trovava il suo unico mezzo di espressione, si distendeva dalle sue ansie scherzando su una batteria o su un pianoforte; poi con raccoglimento, con umiltà, quasi con timidezza impugnava la tromba e aspettava che si creasse col pubblico il circuito che, - diceva, <<lo rendeva felice>>.

Quando taceva durante le sue pause sedeva a occhi chiusi, con il viso pallido, intenso: sembrava immobile, ma in realtà tremava di una vibrazione segreta che era insieme conclusione e anticipazione della sua carica espressiva. In polemica con certi esibizionismi del momento i suoi abiti erano neri secondo l’”uniforme” dei progressive jazzmen della West Coast: ben tagliati, molto seri, con cravatta nera, pantaloni aderenti e camicia celeste. ' In Italia gli volevano molto bene. Poi intervenne la rispettabilità. Chet venne incarcerato a Lucca e i suoi fan andarono a suonare la tromba davanti alla sua finestra. Nessuno immaginava che sarebbe morto misteriosamente, tragicamente, squallidamente nell’intercapedine di un albergo di Amsterdam..




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